giovedì 29 settembre 2011

Envoi

Bill Dixon

Victo Records
Dopo aver postato la recensione di un’importante ristampa per la storia del jazz di tutti i tempi, quale ritengo sia Intents and Porpose, opera prima  del compianto grande trombettista Bill Dixon,   mi ritrovo ora a metter su, con un’inevitabile punta di tristezza la recensione dell’ultimo suo atto musicale: la registrazione del concerto tenuto da  Dixon il 22 maggio 2010, poco meno di un mese prima della sua morte, in occasione del 26° Festival International de Musique Actuelle di Victoriaville in Canada. Dixon è infatti scomparso il 16 giugno del 2010 dopo pochi mesi dall’uscita del suo riuscitissimo e intenso Tapestries for Small Orchestra di cui potete leggere qui la mia recensione pubblicata sul numero 269 de il Giornale della Musica. In Envoi  ritroviamo lo stesso gruppo di musicisti protagonisti del precedente Tapestry….. formato da Stephen Haynes, Taylor Ho Bynum, Rob Mazurek e Graham Haynes ai fiati; Glynis Loman violoncello; Michel Côté e Ken Filiano contrabbassi e Warren Smith vibrafono, batteria e percussioni. Due i brani in esso contenuti in forma di suite, che prendono il nome dal titolo del cd distinti come sezione 1 e 2 entrambi dalla durata intorno ai venticinque minuti seguiti da un breve epilogo finale, parlato, in cui Dixon ringrazia il pubblico. Il trombettista anche in questa occasione esibisce la sua inconfondibile cifra stilistica, il suo linguaggio che frantuma ogni schema precostituito, sia come tipologia che come struttura. Anche qui i timbri sonori sono gravi o lancinanti, le melodie brevi e frastagliate, i contrasti intensi e gli umori dirompenti o minimali. Siamo sempre più di fronte ad una concezione totale della musica, ad una distribuzione paritaria dei ruoli di ogni componente il gruppo, indipendentemente dallo strumento che ne traduce il lessico. Anche questa opera di Dixon somiglia ad un affresco pittorico dalle mille sfumature e dai contorni indefiniti con un elemento in più che si identifica nella dinamica cangiante ed invasiva, emotivamente parlando, verso chi ascolta. Indescrivibile comunque tutto il campionario espressivo di questo straordinario combo che esibisce una sezione di fiati imbevuta di estro e a secco di remore, un percussionista di enormi risorse, quale Smith da sempre è, un violoncello, quello della Loman che si fa puntiglioso e desideroso di protagonismo a fianco del contrabbasso entusiasmante di Filiano. Cos’altro aggiungere se non l’imprescindibile necessità di possedere quest’opera che chiude la preziosa serie di grandi opere di un artista certamente irripetibile nella storia della musica contemporanea.

 Giuseppe Mavilla

domenica 25 settembre 2011

Stars Have Shapes

Exploding Star Orchestra

Delmark Records
Una dedica speciale a due grandi del jazz come Bill Dixon e Fred Anderson, entrambi scomparsi nel giugno del 2010, accompagna questo cd della Exploding Star Orchestra che da tempo ridisegna gli ambiti tradizionali in cui di solito si esprimono gli ensemble allargati. Un orchestra già al fianco dello stesso Dixon che oggi ha in quel Rob Mazurek di CalmaGente, qui recensito qualche settimana fa, il suo leader maximo, nonché conduttore e compositore. Un musicista ispirato e innovativo come ormai dimostra di essere in ognuno dei contesti in cui è presente: dal Chicago Undergrond Duo al trio Starlicker senza dimenticare il quintetto di Sound is. Questo lavoro con l’Exploding Star Orchestra, tra le cui fila ritroviamo tra gli altri i più noti: Nicole Mitchell, Matt Bauder, Greg Ward, Jason Adasiewicz e il Mike Reed di Empathetic Parts già recensito in questo blog, si apre con il brano “Ascension Gost Impression” ed è introdotto da un breve fischio umano al quale si uniscono in rapida sequenza le note di un pianoforte, quelle di un vibrafono, i fraseggi liberi dei fiati e i contrappunti della sezione ritmica fino al formarsi di un intenso flusso sonoro in cui si fa spazio in maniera sempre più soffocante una sorta di rumore urbano. Poi di colpo, come chiudendo una porta che divide da un ipotetico luogo esterno, il rumore cessa e prende forma una splendida e armoniosa melodia. E’ una parentesi relativamente breve perché da lì a poco il fragore riprende alternando pause di fredda interazione in assoluta discontinuità formale. La successiva “Chromo Rocker” ricompone un quadro più omogeneo e mette in mostra un quid nervoso che pervade l’Orchestra sia dal lato ritmico che da quello armonico. “Three Blocks of Light”, terza delle quattro tracce presenti, è un campionario di suoni esotici umani ed elettronici intriso di un’ipnosi latente che avvolge l’ascoltatore: guizzi improvvisi, ora dell’uno ora dell’altro, tra brevi dialoghi spigolosi, in una atmosfera di trascendenza dalle logiche di interplay tradizionale. “Impression” in chiusura ci riporta alla realtà perché giocata su toni più comuni in cui comunque l’impronta tipica di Mazurek e soci è più che avvertibile. Un cd che sintetizza un accostamento riuscito e del tutto inedito tra acustica ed elettronica, e che aggiunge nuova linfa al futuro del jazz.

 

martedì 20 settembre 2011

Empathetic Parts

Mike Reed’s Loosy Assembly
482 Music
Il batterista e compositore Mike Reed, trentaseienne,  è uno degli attuali esponenti della scena d’avanguardia di Chicago nonché  membro dell’ AACM (Association for Advancement of Creative Musicians) di cui è stato nominato vicepresidente nel 2009. Componente della Exploding Star Orchestra ha realizzato lavori di rilievo con il quartetto “People, Places & Things” rielaborando il jazz in auge a Chicago nella seconda metà degli anni ’50 e realizzando in questo contesto ben tre cd: Proliferation,  About us e Stories and Negotiations. Questo  Empathetic Parts  invece è frutto della registrazione live di un  concerto tenuto nel novembre 2009 al Hideout di Chicago in occasione dell'  Umbrella 2009 Music Festival di Chicago. Accanto a  Reed  c’è  questa volta la Loosy Assembly: Greg Ward, sax alto, Tomeka Reid, violoncello, Jason Adasiewicz, vibrafono, Joshua Abrams, contrabasso a cui si aggiunge un ospite importante che unisce il passato e il presente dell’ AACM: Roscoe Mitchell, alto sax, soprano sax e flauto.  La lunga prima traccia, 33 minuti e quarantanove secondi, che da il titolo al cd, concepita con lucida progettualità dal batterista-leader,  consiste in un breve tema composto da Reed e affidato all’inventiva dei suoi compagni di scena. Oltre al tema il leader detta ad ognuno di loro una serie di regole da seguire nello sviluppo dell’improvvisazione soffermandosi su alcuni elementi ben precisi quali: toni prolungati, puntillismo, oscillazione, ostinati, tempi liberi e pause. Forte di questi dettami il gruppo si muove attraverso un’interazione fortemente intrisa di empatia alternando atmosfere cameristiche, con in evidenza il violoncello della Reid, ad un groove prettamente jazzistico che si materializza in tutta la sua fluida dinamicità quando a menar le danze è la sezione ritmica. Ed è qui che viene fuori la mutante contrapposizione  che caratterizza le varie fasi evolutive del brano, un intreccio continuo fra climi rarefatti e controllate tensioni che aprono improvvisi squarci intimistici per dialoghi, in trio o in duo, fra le varie anime del sestetto.  L’empatia fra le parti produce nel contempo un naturale  equilibrio partecipativo fra tutti i musicisti cosicché lo stesso Mitchell, seppure inconfondibilmente individuabile per la timbrica asciutta del suo strumento, per il suo incedere obliquo, per una certa ruvidità di toni, non va mai a caratterizzare in maniera assoluta la struttura esecutiva del brano. In chiusura Reed e soci ripropongono "I'll Be Right Here Waiting," inciso negli anni settanta dagli Air di Henry Threadgill ed è un ulteriore impinguarsi della reale constatazione di trovarsi di fronte ad una delle migliori incisioni da me ascoltate di questo 2011.




martedì 13 settembre 2011

Live at Teatro Donnafugata

ImproGressive Jazz Trio

autoproduzione
L’ImproGressive Jazz Trio è una realtà operante dal 2001 nell’ambito del jazz italiano, almeno nella sua originaria configurazione in duo. Paolo Battaglia e Maurizio Morello, membri fondatori del trio, entrambi chitarristi, hanno esplicato la loro proposta attraverso una produzione, Drops and SilenceGuitar Improvisations, che ha raccolto consensi in Italia e all’estero e con alcune loro esibizioni allargate ad alti strumentisti. In questo Live at Teatro Donnafugata, registrato lo scorso 19 novembre 2010, durante un’esibizione nell’omonimo teatro in quel luogo suggestivo quale è Ragusa Ibla, Battaglia e Morello sono coadiuvati da Enzo Di Raimondo, batterista,  che da anni si dedica all’approfondimento del suo strumento e che si porta dentro una naturale propensione a percorrere ogni tipo di esperienza musicale con la consapevolezza che, in ogni caso, tutto può tradursi in un arricchimento delle proprie capacità artistiche. Il cd è una autoproduzione inizialmente sottovalutata nel senso che un primo e veloce approccio  non evidenzia  tutto il notevole valore dell’opera. L’idea del trio così configurato si dimostra man mano che si va avanti negli ascolti  una scelta azzeccata e originale con le due chitarre posizionate ai lati opposti della scena sonora e con nella zona centrale la batteria. La registrazione  però mostra inevitabilmente tutta la sua artigianalità ma  questo non inficia, più di tanto, il suo  valore; per spiegarmi meglio voglio dire che se curata, sia in sede di ripresa che in studio, l’opera avrebbe senz’altro rivelato in misura maggiore il lavoro del trio. Il dialogo fra le due chitarre è pregevole e si gioca secondo una chiara filosofia jazz  fatta di rimandi e contrappunti in un sottile esercizio di interazione arricchito da sonorità accattivanti che riecheggiano J.J Cale e i Dire Street di Mark Knopler. Melodie e fraseggi ritmici dettate da Battaglia e Morello sui quali si inserisce con costante discrezione il percussionismo di Di Raimondo che, abilmente, non va mai oltre le righe evitando così di spezzare una gradevole atmosfera elettro-acustica intrisa di raffinatezza. I brani, tutti originali a parte la ripresa di “Three of a perfect pair” dei King Crimson, nascono dalla vena compositiva del binomio Battaglia-Morello, che rivelano nel contempo anche le loro doti di strumentisti, e sono caratterizzati da una  struttura ben definita con le porzioni improvvisative  inserite accuratamente  nell’ambito del naturale divenire esecutivo. Qua e là si avverte qualche debito di originalità, sicuramente facile da contrarre quando si è alle prese con un’esibizione live, ma questo trio ha tutte le carte in regola per sviluppare in un imminente futuro una proposta degna di attenzione.



 


lunedì 5 settembre 2011

Ghosts

Peter Evans Quintet

More is More Records
Ancora un trombettista in evidenza: Peter Evans, con un album  Ghosts di intensa musicalità e indovinata propensione a cercare spunto nel passato per abbozzare un linguaggio, senza costrizioni o limiti, libero di spaziare in un inedito presente. La sua biografia rende nota la sua frequentazione, fin dal 2003, della comunità musicale newyorkese, i suoi studi all’Oberlin Conservatory, la sua capacità di misurarsi in diversi ambiti musicali, dall’ironico progetto con i Mostly Other People Do the Killing al duo con Nate Wooley, e ancora il trio con Mary Harvolson e Weasel Walter, il cui ElectricFruit è stato qui recensito, per finire con la sua partecipazione al progetto Electro-Acoustic Ensemble di Evan Parker e questo solo per citarne alcuni. In  Ghosts, prima uscita per la sua neonata etichetta, Evans è in quintetto coadiuvato da Carlos Homs al piano, Tom Blancarte al piano, Jim Black alla batteria e Sam Pluta, live processing. Il lavoro, commissionato in parte dalla  SWR for the Donaueschinger Musiktage 2010 di Baden Baden (Germania), include sette tracce e si apre con “One to Ninety Two” una frenetica incursione tra gli stilemi, non proprio celati, di un post-bop di maniera che però si arricchisce di una carica esecutiva non proprio ricorrente e di intrecci elettronici e temporali che ne smontano i tratti consolidati. Qui Evans estrapola la melodia di un classico di Mel Torme e prova ad operarne, con notevoli risultati, una decostruzione. Il brano si sviluppa su diverse latitudini anche grazie all’impiego dell’elettronica che raddoppia lo strumento del leader su vari registri. La successiva “323” è giocata su due note in ritmo ostinato  con variazioni di tonalità e in atmosfera decisamente free. E’ il preludio alla sofisticata e ariosa ballad che da il titolo al cd il cui tema  questa volta è estrapolato da un noto brano di Victor Young “I Don’t Stand a Gost Whit You”. Il resto del cd propone le fluorescenze di “The  Big Chrunch”, le sciorinate sordinate di “Chorales”, i ritmi e le interazioni d’avanguardia ispirate dal grande Woody Shaw e dalle sue composizioni  in “Articulation” e la spumeggiante rielaborazione di una classica pop song la “Stardust” di  Hoagy Carmichael datata 1927.