venerdì 26 settembre 2014

Root of Things

Matthew Shipp Trio

Relative Pitch


Dopo Piano Sutras, uscito sul finire del 2013 e di cui potete leggere qui la recensione, riecco il pianista Matthew Shipp in trio con i fidati Michael Bisio al contrabbasso e Whit Dichey alla batteria, in questo cd uscito la scorsa primavera mentre oggi sono già disponibili  per i miei prossimi ascolti, i più recenti Cosmic Lieder The Darkseid Recital, in duo con il sassofonista Darius Jones, e il suo nuovo, piano solo, I've Been To Many Places. Di entrambi vi racconterò nelle prossime settimane. Root of Things è un album che travolge lo spazio temporale necessario per il suo ascolto, questo già ad iniziare dalla title track dal tema breve ma sublime sul quale, Shipp, innesca un ostinato e variegato reticolo improvvisativo.  L’intreccio delle parti è intenso, giocato su una miriade di note, di pulsazioni, di ritmi come quello che impingua la quasi interminabile “Jazz it”. C’è un solido legame col passato nel pianismo di Shipp e una grande interpretazione del presente, uno status ottimale raggiunto dal musicista, una sorta di maturata ed equilibrata espressività  dopo anni di esplorazione di orizzonti contaminanti. “Code J” ha una punteggiatura sfaccettata, ricca di accenti e incandescenze, ma non disdegna aperture delicate e morbide. La componente ritmica si sposta in prima linea nelle successive “Path” e “Pulse Code”. Nella prima, come nella seconda, sono le intro a risultare a totale appannaggio rispettivamente di Bisio che sfodera l’archetto alternandolo per buona parte alle dita della mano nell’esplorazione asettica di una scena sonora in cui a breve irromperanno pianoforte e batteria; di Dickey fantasmagoricamente fremente come ad annunciare, con il suo drumming dirompente le nervose e rimbombanti  giravolte di pianoforte e contrabbasso. Un altro capitolo inesauribile, anche dopo vari ascolti, della magnificenza artistica non solo di un grande musicista come Shipp, ma di un superbo trio della scena jazz contemporanea. 


domenica 21 settembre 2014

Oktopus Connection

Oktopus Connection

Setola di Maiale


Se l’etichetta discografica Setola di Maiale dichiara senza mezzi termini di occuparsi di musiche non convenzionali allora è sicuramente lecito trovare nel suo catalogo una produzione unica nel panorama jazz italiano. Oktopus Connection è il suo nome ma anche quello dell’ottetto tutto italiano che l'ha incisa. Otto musicisti che rispondono ai nomi di Riccardo Marogna, Piero Bittolo Bon, Alberto Collodel, Marcello Giannandrea e Nicola Negri ai fiati; Niccolò Romanin alla batteria e agli effetti speciali; Giambattista Tornielli al violoncello e Luca Ventimiglia al vibrafono. Tutti interessati alla ricerca nel campo del jazz sperimentale e guidati dal clarinettista e sassofonista padovano Riccardo Marogna. Come precisato da quest’ultimo, in sede di presentazione del progetto, si tratta di “un’improvvisazione collettiva su partiture grafiche” che tradotto in concreto delinea una serie di notazioni grafiche, tracciate dallo stesso Marogna, che danno vita a degli stadi sonori che vanno via via moltiplicandosi e in cui può ritrovarsi ogni musicista coinvolto. Il tutto si realizza naturalmente in relazione con altri musicisti ed ogni esecuzione ha una sua identità sempre diversa dalla precedente o dalla successiva . C’è nei fatti e alla base di questa concezione dello sviluppo dell’improvvisazione jazz, un preciso riferimento alla teoria dei grafi usata sia in matematica che in informatica. Sei le parti, in cui è suddivisa quella che poi può essere definita una suite, ognuna delle quali è identificata con un preciso numero e tutte denominate “Graph”. L’ascolto riserva sorprendenti paesaggi sonori in ambiti variegati, in cui prendono vita strutture multiforma che alternano intensi contrasti sonori a porzioni rarefatte. Si passa da atmosfere cameristiche ad interazioni puramente free e da un brano all'altro è tutto un brulicare di suoni e dialoghi imprevedibili. Tensioni e rilassamenti si alternano fra dinamiche in continua mutazione. E' un'esperienza di ascolto di grande impegno ma sicuramente ricambiata dalla qualità della performance che ci fa apprezzare un ensemble che guarda oltre il mare del prevedibile, percorrendo territori comuni a quelli battuti da musicisti come Anthony Braxton o Bill Dixon. Marogna e soci hanno molte frecce ai loro archi e sopratutto coltivano il gusto dell'azzardo. Avanti così ragazzi!


martedì 16 settembre 2014

Joy In Spite Of Everything

Stefano Bollani

Ecm



Non sono mai stato un ammiratore del personaggio Bollani, mentre ho sempre apprezzato e riconosciuto le qualità del musicista Stefano Bollani di cui non ho mai dimenticato il pregevole livello di lavori come Piano Solo e I Visionari  entrambi pubblicati nel 2006. Oggi a sorprendermi è questa nuova produzione per la Ecm. Nove composizioni ad esclusiva firma del nostro, tutte nuove di zecca, un quintetto che ingloba il collaudatissimo Danish Trio, con Jesper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria, e che si completa con il sassofono di Mark Turner e la chitarra di Bill Frisell. Un ambient gioioso e vivido, quello in cui si muove l’ensemble che predilige un’espressività intrisa di cool jazz, con temi di elevata fattura e porzioni improvvisative che mettono in stretta correlazione tutti i cinque musicisti. E se l’iniziale “Easy Healing” calipso morbido e sinuoso, annuncia piacevolmente l’alto grado di godibile ascolto che riserverà l’intera selezione, è “No Pope No party” eseguita in quartetto senza Frisell, a non nascondere la consueta ironia del giullare Bollani. Ma l’album offrirà gemme lucenti come “Alobar e Kundra” esempio lusinghiero di piano trio con il leader in cattedra; le armonie gentili di “Vale” questa volta in quintetto; l’estroso, quanto raffinato e cangiante, dialogo a due Bollani-Frisell  in “Teddy”. Torna il quartetto, senza Turner, nella traccia finale che da il titolo al cd ed è ancora un gioco a due tra Bollani e Frisell ma, questa volta, con il supporto solidamente ritmico di Bodilsen e Lund. Prova da dieci e lode per l’esuberante e magistrale pianista che ha integrato, meravigliosamente, un accorto Turner e un cesellatore fine e discreto come Frisell.


venerdì 12 settembre 2014

Mise en Abîme

Steve Lehman Octet

Pi


C’è una grande quantità di frenesia ritmica, di fiati fluttuanti, di concezioni moderne ed espressività alternative nel linguaggio del sassofonista Steve Lehman che, con lo stesso ottetto con il quale realizzò lo stellare Travail, Transformation e Flow, si ripropone in questo riuscitissimo cd. Qui il nostro prova a condensare la tradizione jazz, vedi la rilettura di alcune composizioni di Bud Powell come “Glass Enclosure” e “Parisian Thorougfare”, con i principi di armonia spettrale decantate e applicate dal compositore francese Tristan Murail. Il resto è una ampia apertura a tecniche e linguaggi avanzati della musica contemporanea, che trova l’ensemble in perfetta sintonia, impegnato in un gioco fittissimo di scompaginanti interazioni e fulminanti soli con un front-line di fiati che vede allineati, oltre al leader all’alto sax e ai live eletronics, Jonathan Finlayson, tromba; Mark Shim, sax tenore; Tim Albright, trombone. Poi il comparto ritmico, con Chris Dingman alla prese con un vibrafono preparato su misura, con accordature alternative, Drew Gress al contrabbasso e Tyshawn Sorey alla batteria. Dinamiche travolgenti in un ambient di sonorità urbane che incalzano l’ascoltatore, come nella splendida “Autumn Interlude” che segue l’omaggio in “Codes:Brice Wassy” al grande batterista camerunese o nella percussiva “Chimera / Luchini”. Poi, dopo tanto futurismo, ecco la già citata “Parisian Thorougfare” di Powell, una parentesi nostalgica e rarefatta che unisce, in una atmosfera spettrale, una vecchia registrazione privata di Powell, di cui si ascolta anche un parlato, con i fraseggi del sax di Lehman a chiusura di un disco prezioso da custodire con cura.


venerdì 25 luglio 2014

Speak Random

Omit Five

Slam


Dopo il promettente esordio dello scorso anno con l’omonimo album, qui recensito, il quintetto degli Omit Five ritorna con questo cd in cui: Mattia Dalla Pozza (sax alto); Filippo Vignato (trombone); Joseph Circelli (chitarra); Rosa Brunello (contrabbasso); Simone Sferruzza (batteria) ribadiscono quelle che sono le linee guida del loro layout musicale, ovvero, un gradevole cool jazz misto a frequenti risvolti post-bop a volte viranti  verso orizzonti  mainstream. Eppure fra le tredici tracce di questo gradevole cd si rivelano desideri, non tanto nascosti, di avventure fuori dai canoni predominanti di questo lavoro. Sono episodi di breve durata, frammenti di idee a cui dare subito forma e consistenza che si sviluppano prevalentemente in duo o in solitudine. Segno che qualcosa di non convenzionale cova negli animi di questi cinque giovani musicisti che, in occasione della seconda loro opportunità discografica, si mostrano  sicuramente maturati e assurti a ruolo di musicisti navigati. Le loro composizioni appaiono ben strutturate e denunciano un’ideazione di base che tiene conto degli elementi primari necessari nella stesura di un brano di jazz che tale si possa definire. E il caso di “Vain” traccia di apertura delle selezioni di questo cd e di brani come “Pomeriggi Ameni” e della fluida “I Wanna Feel Nasty”. Poi arriva un’intrigante ballata “Three Views of a dream” e l’osante “Anni Luce” che mostra commistioni interessanti e bagliori rockeggianti, attraverso un’evoluzione non preconfigurabile. Il resto è più o meno velato da una certa convenzionalità, seppur di pregiata fattura, perché questi cinque ragazzi, come già prima puntualizzato, hanno prerogative stilistiche di qualità. E allora forse servirebbe più coraggio e intraprendenza ma nel frattempo va bene così.

domenica 13 luglio 2014

Pas De Deux

Martha J. & Francesco Chebat

Clessidra

Tornano in duo, la vocalist Martha J. e il pianista Francesco Chebat, così come avevano iniziato la loro collaborazione nel 2008. Lei, diplomata all'accademia delle belle arti N.A.B.A. di Milano, ha iniziato accompagnandosi con la chitarra e interpretando canzoni di cantautori americani e brani di folk irlandese, fino a quando nel 1999 non è approdata al jazz. Chebat ha studiato al Conservatorio di Milano, ha frequentato successivamente seminari e corsi di perfezionamento vari, ai quali ha fatto seguito un'intensa attività di sideman. Si chiamava No One But You quel primo album che raccoglieva la loro personale interpretazione di alcuni standard del jazz. Dopo altri tre cd in quartetto i due ritrovano una dimensione più intimista, voce e pianoforte, questa volta alle prese con otto composizioni originali. Lei ne ha scritto i testi, lui ne ha composto le musiche, ad esse hanno  aggiunto: un classico come “Night and Day” e una delle perle del songbook di Joni Mitchell “Both Sides now”. Pas De Deux è un album senza veli e senza inganno, che rivela fin dalla prima traccia la sua reale essenza, ovvero, il feeling tra una pianoforte e una voce, tra una vocalist e un pianista. Un canto jazz intriso di blues, raffinato, intenso, supportato da un pianismo tecnicamente ineccepibile, emotivamente profondo e struggente, pronto a sottolineare i cambi d'atmosfera che la vocalità luminosa ed estesa della J. infondono alla performance esecutiva. Con l'iniziale “Here and Now” si entra nell'universo musicale del duo e si apprezza la discrezione, l’espressività semplice ma intensa di lei e il pianismo variegato di lui, con i contrappunti, i fraseggi tra un ventaglio di note, le parti improvvisate mai debordanti oltre le coordinate armoniche del brano. La successiva “Martha’s Same Old Blues” è un blues verace, nervoso, interpretato con scioltezza dal duo, una parentesi esclusiva all’interno della selezione che poi torna su atmosfere più delicate e ricercate, come quelle del brano che da il titolo all'album e di “Run The Risk of Love” struggenti e velate di soul. Ricca di introspezione e fedele all’interpretazione dell’autrice il reprise di “Both Sides Now” di Joni Mitchell; magistrale e personalissima la versione della notissima “Night and Day”. Dieci pregevoli episodi per un album decisamente raccomandabile.

martedì 8 luglio 2014

XY Quartet

XY Quartet

nusica.org



A certificare la buona salute del jazz italiano oggi sono in tanti: addetti ai lavori, critici, musicisti stessi e sopratutto il pubblico che frequenta i concerti. Una certificazione che non può non passare, in primo luogo, da quell'ambito di diversità e completezza che è l'etichetta discografica nusica.org che già definire etichetta è più che riduttivo. Da anni il  musicista veneto Alessandro Fedrigo, bassista, che di essa è l'anima, ha promosso produzioni discografiche di notevole rilievo e privilegiata originalità. Ne è ulteriore esempio anche questo secondo lavoro del XY Quartet preceduto da una campagna di crowdfunding via web. Una produzione che è anche l'emissione n.5 dell'etichetta trevigiana e che mette insieme le filosofie musicali del sassofonista Nicola Fazzini e quelle di un cultore della chitarra basso acustica quale è Alessandro Fedrigo. Due identità di pensiero sicuramente diversi l'uno dall'altro che mostrano però di poter essere complementari nelle otto composizioni, 4 per ognuno, inserite in questo omonimo cd in cui i due musicisti si avvalgono del contributo del vibrafonista Saverio Tasca e del batterista Luca Colussi. Un avvicendamento quindi rispetto al quartetto che realizzò l'ottimo Idea F dove al vibrafono c'era Luigi Vitale. Fazzini fa riferimento alla teoria degli insiemi per descrivere il suo tratto compositivo, il sassofonista si concentra su gruppi di note che modella a suo piacimento secondo formule innovative in cui convivono, in armonia alla parte scritta, spazi riservati all'improvvisazione. Fedrigo, dal canto suo, predilige composizioni dalle strutture ad intervalli che, via via, si evolvono in assoluta coerenza con l’idea compositiva iniziale, anche loro impinguate di porzioni di libera improvvisazione. In entrambi gli ambiti sono poi le parti ritmiche a ricoprire un ruolo fondamentale, dando corpo e dinamica allo sviluppo dei brani. L’album si apprezza sempre di più ad ogni nuovo ascolto, mostrando l’ingegno musicale della coppia Fazzini-Fedrigo che già col precedente lavoro ci avevano introdotto al loro linguaggio espressivo che, se da una parte mette in campo strutture che farebbero supporre una ferrea rigidità, dall’altra traccia aperture scompaginanti, pur sempre nell’ambito di un contesto armonico assolutamente aderente al tema di base. C’è nei fatti una sintesi decisamente originale fra arte musicale contemporanea e interattività ed estemporaneità tipicamente jazzistiche. A tutto questo si aggiungono le peculiarità stilistiche dei quattro protagonisti e la loro non comune sensibilità  musicale. Fazzini risulta sempre essenziale e mai debordante di inutili personalismi; Fedrigo, in un contesto sovrabbondante di dinamiche ritmiche, eleva come meglio non potrebbe il ruolo della sua chitarra basso acustica; Il vibrafono di Tasca si colloca come elemento determinante nella giunzione di armonie ritmiche e melodiche e la batteria di Colussi si erge con un tratto percussivo fondante per l’espressività del combo. Da “Spazio Angusto” di Fazzini che apre l’album a “Futuritmi” di Fedrigo che lo chiude il percorso di ascolto è avvincente e vario e tra gli episodi più intensi non posso non segnalare “Astronautilo” di Fedrigo, dalle tante sfaccettature ritmico-melodiche; “H2O” di Fazzini che prende vita da una sorta di impulsi poliritmici in continuo crescendo, la frenetica e jazzistica “Jon Futuru” ancora di Fedrigo, nonché l’esotica e mutante “Tatami” di Fazzini.


venerdì 27 giugno 2014

Last Dance

Keith Jarrett / Charlie Haden

Ecm


Si ritrovano insieme dopo anni Keith Jarrett e Charlie Haden, in duo, piano e contrabbasso, e un'altro tassello si aggiunge all'ampia produzione discografica del singolare pianista americano. Anche in questo caso però si tratta del recupero di registrazioni del passato, anche se recente, della sua produzione e come spesso accade risulta difficile non essere attratti dal suo verbo jazz. Se poi accanto al nostro ritroviamo un contrabbassista del calibro di Charlie Haden l'incanto si ripropone anche al cospetto di alcune registrazioni, queste contenute nel cd, datate 2007 e realizzate nello studio privato di Jarrett. Una sorta di continuazione di quanto già ascoltato nell'album Jasmine, uscito nel 2010 e firmato dagli stessi. Nove noti standard, due dei quali “Where Can I go Without You” e “Goodbye” già presenti nel precedente, con una prevalenza di soffuse ballate intervallate dalle bobbistiche Round Midnight di Monk e Dance of the Infields di Powell. Standard straconosciuti che sembrano illuminarsi di una luce soffusa e ammaliante perché il pianista appare particolarmente ispirato, i suoi fraseggi sono intrisi di struggente liricità e Haden, al contrabbasso, puntella con la sua consueta maestria ogni passaggio, ogni porzione di quello che è un intenso interplay. Un dialogo fitto giocato, in egual modo, sia nell'ambito del temi che nelle parti improvvisate, senza sbavature o esagerazioni.   Un incontro informale nato per il solo piacere di suonare insieme, l’uno e l’altro intenti a tracciare un equilibrio espressivo  esclusivo dall’alto di una classe immensa con la quale sfogliano pagine immortali del grande songbook jazz.

sabato 21 giugno 2014

Holding It Down: The Veterans’ Dreams Project

Vijay Iyer & Mike Ladd

Pi


Come già vi avevo annunciato nell'ambito della recensione del cd Mutations, del pianista indiano Vijay Iyer, eccomi a raccontarvi di questo album che il nostro condivide con il produttore e operatore culturale, nonché rapper e poeta, Mike Ladd. Un progetto focalizzato su vicende che hanno riempito pagine di storia in questi ultimi anni, come le guerre in Iraq e in Afganistan. Ebbene, Ladd coadiuvato da Patricia McGregor, scrittrice e regista teatrale  ha incontrato alcuni suoi connazionali di colore, veterani di quelle guerre, intervistandoli e raccogliendo le impressioni di quelle esperienze che tradotte in linguaggio nudo e crudo si chiamano angosce, incubi e traumi, che i sopravvissuti si porteranno addosso per il resto della loro vita. Da questi incontri sono nati dei testi, a volte anche sottoforma di poesie, per le quali il pianista Iyer ha composto delle musiche. Il sodalizio fra quest'ultimo e Ladd non è nuovo ma risale al 2004 quando insieme realizzizzarono l’album In All Language al quale ha fatto seguito nel 2007 Still life With Commentator. Il primo si occupava del  dopo 11 settembre per la gente di colore negli aeroporti americani; il secondo sull'orgia di notizie che si succedono 24 ore su 24 quotidianamente. Questo, di cui sto scrivendo, che chiude una sorta di trilogia, è un album intenso, profondamente coinvolgente per le storie che propone, fortemente rievocative di fatti e riflessioni realmente vissuti. Le voci declamatorie sono quelle dello stesso Mike Ladd, di Maurice Decall, un poeta che ha servito le forze armate in Iraq, di Linn Hill, che ha militato nelle Forze Aeree americane per sei anni, compresi due anni di pilotaggio di droni sui cieli di Iraq e Afghanistan da una base situata a Las Vegas. E ancora per la parte musicale oltre a Iyer al pianoforte, al piano Rhodes e alle elettroniche, troviamo: Pamela Z alle voci e live processing; Guillermo E.Brown, voci ed effetti vocali; Liberty Ellman alle chitarre; Okkyung Lee al violoncello e Kassa Overall alla batteria. Diciassette gli episodi contenuti nel cd in cui voci, parole, suoni e ritmi incalzano l’ascoltatore in un variegato combinato di testi e musiche intriso di lancinanti recitativi, incursioni rap, umori hip hop, vorticosi crescendo armonico-vocali, sprazzi di modern jazz e ambient music. Risaltano in questo caleidoscopio sfaccettato ed eterogeneo le tragedie di queste guerre e i danni che hanno arrecato all’umanità. Dal punto di vista musicale si evidenzia ancora una volta l’irrefrenabile vena compositiva di Iyer, l'ampia visione dell’universo musicale contemporaneo e l' esclusiva sua  capacità di mescolare insieme espressività di varia estrazione culturale e temporale, sempre e comunque fortemente attuali.


mercoledì 4 giugno 2014

Obbligato

Tom Rainey

Intakt



Usiamo comunemente l'aggettivo “obbligato” per indicare qualcosa che non possiamo evitare, come ad esempio un percorso stradale o un compito da assolvere per forza di cose. Ma con “obbligato” si può descrive anche uno status di riconoscenza, verso qualcuno da cui si è ricevuta una cortesia estremamente gradita. Mi viene da pensare, non importa quanto ciò può esser vero, che il batterista Tom Rainey e il quintetto riunito per questo cd si siano sentiti in qualche modo obbligati ad omaggiare la tradizione, da qui il titolo usato, loro che oggi sono tra le punte di diamante della scena jazz internazionale. Il tutto si concretizza con la ripresa di alcuni degli standard piú importanti della storia della musica afroamericana ad opera di un combo che propone, accanto al batterista, Ralph Alessi alla tromba, Ingrid Laubrock al sax, Kris Davis al pianoforte e Dew Gress al contrabbasso. Cinque musicisti dalle peculiarità stilistiche ben definite e decisamente orientati verso ambiti di ricerca e innovazione del linguaggio jazz ma che in questo contesto sembrano concedersi una gioiosa pausa di riflessione. La ripresa si orienta su brani come “Just in Time” che in apertura delle selezioni ci introduce in flusso sonoro fluido e dialettico o sulla soffusa “In Your Own Sweet Way” firmata da Dave Brubeck, con i sinuosi e avvolgenti fraseggi dei due fiati e i contrappunti al pianoforte della Davis. Il quintetto non snatura l’essenza dei vari brani, non ne stravolge la struttura ma sceglie di reinterpretarli a proprio modo, giocando sulle qualità e sulle attitudine dei singoli musicisti in un gioco di reinvenzione dei brani che appaiono arricchiti da un esercizio improvvisativo costantemente attinente la geometria originale e le peculiarità armoniche dei brani stessi. Magistrali in tal senso le riproposizioni della monkiana “Reflections” o di “Prelude To A Kiss” di Ellington, introdotta da un solo di drumming, velato di umori tribali, ad opera di Rainey che accanto al raffinato Gress, al contrabbasso, da vita ad un’asse ritmico di rara pregevolezza. Suadenti  nel loro intreccio di dialoghi, in entrambi i brani, i due fiati e i fraseggi al pianoforte della Davis. Poi la virata  free-bop nella ripresa della “Yesterdays” di Kern ma il tutto appare ancora straordinariamente misurato e godibilissimo come solo i grandi musicisti sanno fare.

lunedì 2 giugno 2014

African Piano

Abdullah Ibrahim

Japo / Ecm


È la sera del 22 ottobre 1969 quando al Jazzhus Montmartre di Copenhagen è di scena Dollar Brand. Mentre prende posto al pianoforte c'è ancora un brusio in sala ma presto il musicista convoglierà a se l'attenzione dei presenti con “Bra Joe From Kilimanjaro” un brano con un ostinato di base gestito con la mano sinistra, mentre la destra é lasciata libera di improvvisare. Una sorta di magia sonora scende su quella sala, impinguata ben presto da una ragnatela di note ricche di pathos, di magia emozionale e soprattutto profumate di Africa. I brani su susseguono senza interruzioni, gli otto minuti e otto secondi di “Moon” appaiono fulminei, folk, soul, gospel, un pout-pourri di umori e sensazioni ipnotizzanti. Poi arriva l'atmosfera struggente di “Kippy” le cascate sonore di “Jabilani - Easter Joy” e il blues insinuante di “Tintiyana” che chiudono questi trentanove esclusivi minuti di quella lontana serata danese. Ebbene non invidiatemi! Non ero a Copenhagen quella sera ma a casa mia alle prese con i miei studi da primo anno di liceo scientifico e peraltro a quei tempi non ascoltavo jazz. E allora?....direte voi…..lo confesso! mi sono lasciato trasportare da questa riedizione di African Piano che condensa quei trentanove minuti di cui ho tentato di rendervi partecipi. Una riedizione di un vinile uscito nel 1973 su etichetta Japo, la stessa di questa riedizione, una sorta di sorella minore della major Ecm. Un vinile che uscì a nome di Dollar Brand perché il musicista non si era ancora convertito all’Islam e non aveva ancora assunto il nome di Abdullah Ibrahim che porta oggi e con il quale viene pubblicata questa riedizione visto che la prima versione in cd, edita direttamente dalla Ecm nel 1999, è ormai fuori catalogo. Un’occasione imperdibile per apprezzare un album seminale nella storia della musica afroamericana.


sabato 31 maggio 2014

Heureux Comme Avec Une Femme

Roberto Bonati / Diana Torto

Parma Frontiere


Sodalizio riuscito quello fra la vocalist Diana Torto e il contrabbassista Roberto Bonati come dimostra questa recentissima realizzazione per l’etichetta Parma Frontiere. Lei porta in dote l’ esuberanza vocale, l’ estrema duttilità interpretativa nonché la ben nota capacità di reinventarsi in ogni nuovo ambito in cui si trova coinvolta; lui contrappone l’esclusiva arte compositiva, il profondo rapporto con lo strumento, di cui sfrutta ogni possibile sfaccettatura sonora, l’alta concezione di un linguaggio che può amalgamare elementi di vari generi e coniare di conseguenza un’espressività variegata e indefinibile. Il loro convivere artisticamente  ci regala tredici episodi assolutamente inediti in cui i due protagonisti danno prova di sapersi districare tra ambiti che vanno dal jazz alla classica passando attraverso il canto popolare, l'avanguardia , il canto mistico, il sonetto medievale, la poesia musicata e altro ancora. Il tutto nell’ambito di un’opera apparentemente minimalista ma nei fatti impinguata da un intenso interplay come nell’iniziale e breve “Ask” dove il contrabbasso suonato con l’archetto e la vocalità della Torto cercano e trovano quelle convergenti assonanze che sono uno dei tanti aspetti da gustare nell’ascolto di questo cd. L’intrigante selezione mi sorprende con la traccia n.3 “Can Vei La Lauzeta – The Song” parole di un trovatore vissuto intorno al XII secolo, tal Berbard De Ventadour e musica di Bonati, che mi fa viaggiare indietro nel tempo prima di essere preda del vortice futurista nell’intro di “Woman Of The Woodlands” . Il riff popolaresco di “Rouge” mi riporta alla realtà mentre rimango inebriato dagli equilibrismi vocali della Torto, contrappuntati con acume ritmico da Bonati che anche questa volta, come fa spesso in tutto l’album, usa l’archetto. Una varietà di climax si succedono con ininterrotta continuità, arduo descriverli in una recensione tanto quanto risulta difficile riportare a parole la dedizione e l’inventiva vocale della Torto nonché il lavoro certosino, essenziale ma nel contempo magistrale, infuso in quest’opera da Bonati. E allora  mi limito, in chiusura, a citarvi la delicata e preziosa parentesi della traccia che da il titolo all’album, ovvero la frase con la quale termina la celebre Sensation di Arthur Rimbaud, la poesia che il francese scrisse nel 1870 qui musicata da Bonati e magnificamente interpretata dalla Torto. Di tutto il resto lascio a voi il piacere di sorprendervi e se ne avrete la voglia vorrà dire che sarò stato capace di farvi capire quanto questo lavoro meriti la vostra attenzione.


mercoledì 14 maggio 2014

Waiting For You To Grow

Kris Davis Trio

Clean Feed


Dopo l’escursione nell’universo del piano solo di Aeriol Piano e di Massive Threds, di quest’ultimo potete leggere qui la mia recensione, Kris Davis propone un piano trio con il contrabbassista John Hebért e con il batterista Toma Rainey, con il quale ha suonato recentemente nel godibilissimo Obbligato di cui presto vi proporrò la recensione. Anche nell’ambito di questo cd la pianista canadese, oggi cittadina newyorkese, mostra il suo incedere da musicista impegnata a coniare un lessico jazzistico incline alla sfera della musica contemporanea, con strutture che si delineano in costante divenire senza schemi rigidi o classici e senza sfaccettature accondiscendenti. La Davis magnificamente supportata da un raffinato, nonché stilisticamente perfetto Hebért,  in ideale sintonia con un attivissimo e mai banale Rainey, traccia geometrie taglienti e fluide a partire dall’iniziale “Whirly Swirly” che muta però varie volte, durante i quindici minuti e trentatre secondi della sua durata, i tempi ritmici del suo svolgersi, aprendosi a parentesi rarefatte e riflessive impinguate di sperimentalismo. Frazioni di ostinati e lampi di free testimoniano, per il trio e per la Davis in particolare, l’evidente orbitare tra i pianeti di un alto lignaggio espressivo. La conferma di quanto detto e di come sia difficile e impossibile, etichettare questa musica, arriva con “Berio” chiaramente ispirata al celebre musicista, dieci minuti introdotti in sordina con una sequenza di accordi del pianoforte sui quali si muove il solo di Hebért al contrabbasso. Poi il ritmo si fa più sostenuto, l’interazione più viva e il brano si delinea in crescendo, con il grande lavorio della Davis al pianoforte e il robusto e ricco drumming di Rainey. C’è un’intensa attività interattiva anche in “Propaganda and Chiclets” che lievità man mano che il brano prende forma, con i tre musicisti che sembrano muoversi in totale simbiosi fino a quasi metà del brano. Poi arrivano dinamiche più acquiescenti, con un dialogo tra pianoforte e contrabbasso contrappuntato con delicatezza da Rainey. La traccia finale, che da il titolo al cd, ci regala un ambient sottilmente armonico, dove si possono apprezzare come non mai le peculiarità stilistiche dei tre musicisti, capaci di rilasciare emozioni coinvolgenti, anche in questo caso, rifuggendo canoni espressivi standardizzati.  All’interno della copertina cartonata, che contiene il cd, la Davis ha inserito la foto del piccolo Benjamin, il figlio appena arrivato e di cui era in attesa, come racconta tra le righe, mentre scriveva i brani di questo lavoro. E si chiede, mamma Kris, se il piccolo ascoltava e gradiva queste composizioni. Non lo sapremo ne io, ne voi e forse neanche la stessa Davis, quello di cui sono certo ora, dopo avere ascoltato e riascoltato questo cd, è che anche questa volta miss Davis ha fatto centro.

lunedì 12 maggio 2014

Alchemy

Amir ElSaffar

Pi


Nato in Canada nel '77 da padre di nazionalità irachena e madre americana Amir ElSaffar, trombettista, è una delle più interessanti novità, in ambito jazz, della scena musicale di New York, città dove risiede dal 2000. Cresciuto ascoltando i dischi jazz del padre è passato da esperienze musicali di varia estrazione, dal folk alla classica al jazz, approdando alla corte di Cecil Taylor e collaborando successivamente con Rudresh Mahanthappa e Vijay Iyer. Numerosi i riconoscimenti collezionati nell’ambito di un’attività che lo ha visto accostare idiomi classici della musica araba con dialettiche jazzistiche. Il quintetto messo su per questo cd consacra il suo concedersi al mondo musicale occidentale e lo fa anche abbandonando ogni strumento esotico di origine orientale per dare spazio alla classicità strumentale di un combo jazz. Al fianco del leader troviamo Ole Mathisen al sax tenore; John Escreet al pianoforte; Francois Moutin al contrabbasso; Dan Weiss alla batteria. Il loro linguaggio mescola aspetti marcatamente evocativi, che ci riportano ad un frizzante hard bop, gli umori moderni di un intrigante post bop, nonchè un elemento imprescindibile nella musica araba quale è il maqam, sistema di scale modali che il trombettista ha più volte fatto sapere di aver studiato in modo circostanziato. Un aspetto, quello modale, che si esplica abbondantemente nelle due suite che costituiscono l’essenza predominante dell’intero lavoro. La prima “Ishtarum” comprende tre brani, la seconda  “Selections from the Alchemy Suite” ben quattro. In entrambi i casi quello che si evidenzia è un’essenza jazzistica impregnata di un fitto dialogo nell’ambito di strutture ben definite che inglobano i temi centellinati con parsimonia e i soli giocati in un contesto di libertà adeguatamente dimensionata. Un album di indubbio valore che ci regala un altro esempio di contaminazione e sintesi fra culture musicali eterogenee.

 Giuseppe Mavilla

martedì 22 aprile 2014

Mutations

Vijay Iyer

Ecm


Anche per il pianista Vijay Iyer arrivano le lusinghe di casa Ecm e la consueta produzione di Manfred Eicher. Nasce così Mutations, suite composta nel 2005, qui eseguita con un quartetto d’archi e incastonata fra tre composizioni di piano solo ed elettroniche, composte in un arco di tempo che va dal 1995 al 2013. Un altro ambito, non del tutto noto del musicista indiano, che si aggiunge alle già conosciute esperienze accanto al poeta Mike Ladd, ultima: Holding it Down: The Veterans’Dreams Project, che racconta dei sogni dei soldati americani sopravvissuti alle guerre in Iraq e in Afghanistan, di cui presto leggerete la recensione su questo blog, nonché all’esperienza in trio con Stephan Crump e Marcus Gilmore nel riuscitissimo Accellerando. Queste le produzioni più recenti di quello che è definito come un intellettuale del jazz contemporaneo che oggi, con questo cd, oltrepassa gli steccati del genere per approdare su territori dove è difficile delineare i contorni di un’espressività che si fa di alto livello ma impossibile da etichettare. Le due tracce che precedono la suite, che da il titolo all’album, ci propongono un Iyer totalmente rapito dallo strumento, impegnato a tracciare l’essenza di una sottile melodia nell’iniziale “Spelbound and Sacrosanct, Cowrie Shells and the Shimmering Sea” dall’ambient intimo in cui traspare tutta la magnificenza del pianismo di Yyer. Con la successiva “Vuln, Part.2” il nostro accosta l’elettronica di un laptop alle note del suo strumento, fino a creare un’atmosfera rarefatta in cui il pianoforte sembra viaggiare tra i meandri futuristici di una ipotetica galassia. Gli spazi appaiono senza confini e suoni proiettati all’infinito. I dieci episodi della suite “Mutetions” vengono introdotti dagli umori cameristici dispiegati dal quartetto d’archi formato da Miranda Cuckson e Michi Wianco ai violini; Karl Armbrust alla viola e Kivie Cahn-Lipman al violoncello, impinguati da inedite sonorità elettroniche. Una suite che propone un’ampia varietà di sfaccettature sonore e strutture variabili che trascinano in un ambient certamente esclusivo, dove il pianoforte del leader diventa elemento di forte interattività con il quartetto. Il combo si rivela un’entità profondamente equilibrata, capace di elevarsi sulle note di una musicalità che si fa sempre più intrigante, con il quartetto che nei sei minuti di “Automata” quinto episodio della suite, si imbatte in un irto tracciato d’avanguardia che frantuma la scatola sonora fin qui nota. I suoni elettronici si fanno più preponderanti e si viaggia dentro un inedito tunnel di suoni. Gli episodi successivi ci riportano dentro atmosfere cameristiche, costellati da passaggi in crescendo e da momenti di profonda riflessione, in un mosaico cangiante e imprevedibile. “Kernel” settimo episodio è un esercizio di variegata interattività tra il pianoforte e gli archi che si muovono come all’unisono nel successivo “Clade”. Così di episodio in episodio giunge la conclusiva “When We’re Gone” terza traccia esterna alla suite, in un contesto ancora profondamente riflessivo che chiude un album che al primo approccio non riesce a rivelare tutta la sua magnificenza ma di cui ora, dopo ripetuti ascolti, sono totalmente convinto. 


domenica 13 aprile 2014

Baida

Ralph Alessi

Ecm


Il trombettista Ralph Alessi vanta collaborazioni importanti, ad esempio con i sassofonisti Steve Coleman e Don Byron, ma sopratutto vanta una duttilità non ricorrente nel sapersi adattare ai vari linguaggi espressivi dei musicisti che chiedono il suo contributo. La produzione a suo nome lo vede ora approdato alla Ecm di Manfred Eicher con un album di raffinata fattura, in singolare equilibrio fra la lirica vocalità della sua tromba, la tessitura armonica e contrappuntistica del pianoforte di Jason Moran e la fluidità ritmica del duo: Dew Gress, contrabbasso, Nasheet Waits, batteria. Un quartetto assemblato con lucido raziocino così ben capace di dare luce abbagliante alle undici composizioni originali, tutte firmate dal leader, che compongono la selezione musicale. E' la title track a dare via con i suoi umori soffusi e intimi tra i vagiti della tromba di Alessi e fraseggi struggenti di Moran. Poi Alessi si erge a condurre e si vola in alto tra le lusinghe del suo strumento. “Gobble Goblins” rivela senza indugi il suo tema ritmico esposto all'unisono dal duo tromba-pianoforte, poi a turno, prima Alessi e di seguito Moran, si lanciano in pregevoli soli. La parte centrale propone due splendide ballate, “Sanity” e “Maria Lidya” che danno ancor più luce al lirismo di Alessi, la prima ci regala un Gress in primo piano nell'intro, la seconda una simbiosi esclusiva tra Alessi e Moran. Ammaliano le carezzevoli note della tromba in “I Go You Go” con la parte centrale tutta di Moran e sezione ritmica, mentre ci si avvia verso la fine con i chiari umori free-bop e il passo variabile di “11/1/10” episodio tra gli più articolati e stimolanti dell’intero lavoro. Album gradevole e ben fatto che prende nome dall’appellativo che la piccola figlioletta di Alessi ha dato alla sua coperta, questo lavoro si rivela con un buon compromesso tra modern jazz e free bop. 

giovedì 10 aprile 2014

Sound Form

Marco Dalpane

A Simple Lunch


Ci sono luoghi per natura deputati all’ascolto della musica dal vivo ed altri che ben si adattano a tale scopo. Di contro, a volte, può accadere di ritrovarsi ad ascoltare musica in ambienti totalmente negati a tale utilizzo. Fin qui tutto normale e risaputo, quello che sorprende invece è che uno dei musicisti più estrosi e imprevedibili del panorama musicale italiano, come il bolognese Marco Dalpane, fondatore e curatore della neo etichetta discografica A Simple Lunch, scelga di utilizzare una normalissima palestra scolastica che, nel suo sofisticato e immenso universo musicale, diventa improvvisamente un elemento complementare nel concepimento di una nuova idea espressiva. L’opera in oggetto, Sound Form, il cui sottotitolo recita: concerto per strumenti acustici e una palestra risonante è una ripresa dal vivo del concerto tenuto da Marco Dalpane presso la palestra della scuola elementare Romagnoli di Bologna il 24.11.2011. Il musicista bolognese, in totale solitudine, utilizza un pianoforte, un toy piano, una fisarmonica e delle percussioni ma soprattutto usa l’ambiente in cui è ospitato, non nel senso che lo rende adeguato al normale uso acustico per cui gli è utile, corregendone, in qualche modo e per quello che si potrebbe, i normali difetti di un ambiente nato per altre finalità. Dalpane sceglie l’esatto contrario, ovvero usa così com’è la palestra per diffondere la sua idea musicale e quindi la sua arte, sfruttando in modo positivo quegli elementi, in qualche modo negativi, come ad esempio i riverberi dei materiali della struttura della palestra. Ma c’è di più perché il nostro invita i presenti a muoversi  liberamente durante lo svolgimento del concerto proprio per fare in modo che si creano ulteriori e imprevedibili suoni-rumori. Inoltre non c’è nessun uso di sistemi elettronici al fine di creare effetti speciali ma soltanto cinque microfoni posti a distanze variabili dagli strumenti. A queste condizioni l'ascolto diventa intrigante perché ci predispone ad uno scenario sonoro del tutto inedito, una condizione in cui l'ambiente influisce in maniera decisiva nella propagazione dinamica dei suoni e nella loro timbrica. L'iniziale “The Center is Everywhere” che Dalpane esegue al pianoforte rivela un ambient minimalista che ritroveremo anche in altri successivi episodi, con le note e gli accordi che creano suggestive risonanze. Dopo due brani per sole percussioni è la fisarmonica ad entrare in scena in “Gulf Stream (North Atlantic Drift)” qui lo strumento sembra ingigantirsi fino a scomporsi in due, fino a darci l’illusione  di essere affiancato da un organo a canne. Dalpane ritorna al piano per regalarci una perla sonora di rara qualità “Mapping The Sky” infinita, avvolgente ed evocativa, sempre permeata da un alone minimalista, e poi l’inciampo ritmico nell’ostinato di “Magnifying  the Microbial World”, la struggente e sottile armonia di “Insight” e tanto altro. Sound Form coinvolge e appassiona, ascolto dopo ascolto, esce dai canoni tradizionali di un’espressività ricorrente per concezione e struttura, stabilisce un nuovo rapporto tra suono e ambiente e il suo autore si rivela come un acuto ricercatore di nuove prospettive per la musica contemporanea.