giovedì 12 aprile 2018

Intervals 1

Franco D'Andrea Octet

Parco della Musica



Dopo le esplorazioni in trio degli ultimi tre album della sua discografia, quelli pubblicati tra l'aprile 2016 e il febbraio 2017, Trio Music vol.1-2-3, Franco D'Andrea riunisce i sei musicisti che con lui hanno suonato in questi lavori e  con l'aggiunta di un chitarrista, forma  un ottetto per un progetto inedito: Intervals 1, registrato dal vivo al Parco della Musica di Roma il 21 marzo 2017 e di cui in autunno verrà riproposta una versione in studio. Otto brani originali concepiti e interpretati, oltre che dallo stesso D'Andrea al pianoforte, da Andrea Ayassot ai sax alto e soprano; Daniele D'Agaro al clarinetto; Mauro Ottolini al trombone; Enrico Terragnoli alla chitarra; Aldo Mella al contrabbasso; Zeno De Rossi alla batteria e Luca Roccatagliati alle elettroniche. 

E' un D'Andrea che apre nuovi orizzonti alla sua musica, che guarda con grande attenzione ad una espressività densa di free, seppure non manca una sorta di strutturazione degli interventi e degli inserimenti che danno vita allo sviluppo dell'idea che sta alla base di ogni brano. E' inoltre un D'Andrea che riporta nell'ottetto quanto già sperimentato in uno dei tre album in trio e più specificatamente nell'ìncontro con il dj Rocca (al secolo Luca Roccatagliati) mentre è totalmente inedito il coinvolgimento del chitarrista Enrico Terragnoli. Il risultato è un album intenso che si apre con un esercizio stilistico del leader che traccia poi le coordinate di quello che sarà il tema del brano che prende forma gradatamente e che si sviluppa in un crescendo vorticoso fino a culminare in una apoteosi corale di libera espressività, prima che tutto si affievolisca per poi scemare. E' invece una sorta di interludio l'intro di “Afro Abstraction” tutto ad appannaggio dei fiati, lamentosi, borbottanti, mentre si fa avanti la ritmica ipnotica, incalzante, ricca di ostinati che intersecano gli interventi svolazzanti di ogni componente l'ottetto. Arduo descrivere tutto ciò che si genera nei 12 minuti di durata del brano che precede la terza traccia “Intervals 2 / m2+m3” che si apre sulle note quasi hard-rock della chitarra di Terragnoli e le elucubrazioni elettroniche di Dj Rocca prima che il tutto si trasmuti in un incedere blues. 

Man mano che l'ascolto scorre di brano in brano ci si rende conto della potenzialità artistica del pianista di Merano di cui non finiremo mai di scrivere anche a costo di annoiare i nostri lettori, un musicista mai appagato di novità e sempre alla ricerca di stimoli nuovi e di sfide intriganti. Nel contesto dell'album in oggetto è straordinaria la capacità sua e dei suoi musicisti di fare sintesi tra tradizione e contemporaneità, basta ascoltare “Intervals 3 / Old Jazz”, di amalgamare suoni elettrici e acustici senza risultare inopportuno e banale, di concepire un'opera certamente unica nella produzione del jazz di oggi. Un musicista che potrebbe sedere sugli allori di una produzione che abbonda di preziose perle sonore a partire da quelle firmate “Perigeo” e che passa ancor prima attraverso un'altra opera unica della sua ampia discografia, quel Modern Art Trio registrato nell'aprile del '70 a Roma insieme a Franco Tonani alla batteria e Bruno Tommaso al contrabbasso. 

Tornando alla realtà di oggi devo aggiungere che D'Andrea con il progetto Intervals interpreta come meglio non potrebbe il concetto di jazz legato alla estemporaneità, ovvero alla sua essenza primaria dell'improvvisazione e quindi connesso alle condizioni ambientali e umorali di ogni singolo musicista. Ed ecco quindi la felice ed opportuna scelta di riproporre in autunno lo stesso progetto, questa volta però attraverso una registrazione in studio, come già anticipato in apertura di questa recensione. 

Nell'attesa godiamoci Intervals 1 una felice intuizione, un'opera di valore assoluto.

domenica 14 gennaio 2018

Harvesting Minds

Filippo Vignato Quartet  

Cam Jazz  


Fino a qualche anno fa si scriveva di Filippo Vignato come di un giovane musicista jazz ricco di talento e molto promettente. Poi sul finire dell'estate 2016 arrivava il suo Plastic Breath in trio con il pianista francese Yannick Lestra e il batterista ungherese Attila Gyarfas e a fine anno il referendum della rivista Musica Jazz lo incoronava “Miglior Nuovo Talento” del Top Jazz 2016. A più o meno dodici mesi dall'uscita di Plastic Breath  ecco Harvesting Minds in quartetto con Giovanni Guidi, Mattia Magatelli e Attila Gyárfás, rispettivamente pianoforte, contrabbasso e batteria, con un album che non ritorna sulle spigolature e sui suoni elettrici del precedente ma viaggia su territori più raffinati utilizzando sonorità prettamente acustiche. Un album che denota una raggiunta maturità compositiva, espressiva e stilistica che il musicista veneto esibisce nelle undici tracce che lo compongono. Il tutto è già evidente nell'intro di piano solo della title track: un tema struggente che ci catapulta nell'universo sonoro di questo album nel quale Vignato sciorina pregevoli melodie. Il suo trombone si esprime con autorevolezza e rara attinenza in ogni situazione, debordante sempre e comunque di una identità sonora che da tempo lo contraddistingue. Coadiuvato come meglio non si potrebbe da Guidi al pianoforte e da una splendida sezione ritmica, sviluppa le sue composizioni tra scrittura e improvvisazione. Brani come “Just Before Leaving” sono insieme alla rassicurante “Home” e alla sofisticata “Neverland Last Days” i migliori esempi di quanto ho appena affermato. Ma non è tutto, perché andando avanti nell’ascolto ci si imbatte in episodi di singolare esclusività che vedono il trombonista vicentino in totale solitudine nell’ironico e clownesco “Dark Glare”;  in tandem con il contrabbasso di Magatelli in “Reflections” e in trio, pianoless, nell’articolata e  conclusiva “Trust”. Il resto è tutto da godere perché con Harvesting Minds il Vignato  degli Omit Five, di cui vi raccontai in questo blog anni fa, ha concepito un album tra i migliori dell’ appena andato 2017.


giovedì 20 aprile 2017

Daylight Ghosts

Craig Taborn

Ecm



Un altro album per l’etichetta Ecm, il terzo, per il pianista americano Craig Taborn questa volta in quartetto con Chris Speed al sax e al clarinetto, Chris Lightcap al contrabbasso e al basso elettrico e con David King alla batteria. Un nuovo ambito dopo il piano solo di Avenging Angel e il trio di Chants. Il climax è quello molto vicino al tipico sound Ecm ma Taborn, che qui fa uso anche di elettroniche, sembra particolarmente ispirato trovandosi ad operare nel cerchio magico di Manfred Eicher. 

Nove brani che formano la selezione dell’intero cd, tutti originali e a firma del leader ad eccezione della traccia n.7, la “Jamaica Farewell” dell’amatissimo Roscoe Mitchell. Un album per certi versi tenebroso, dai toni scuri ma decisamente affascinante per la fluidità di alcuni episodi, come l’iniziale “The Shining One” o per l’imprevedibilità di altri come “Abandoned Reminder” giocato sulle modulazioni di una ballad che in seguito, inaspettatamente, si sviluppa in crescendo attraverso un’essenza improvvisativa collettiva. Quest’ultimo aspetto è insito anche nel fluire dinamico e libero di “New Glory” introdotta dal drumming di King. Accenni lirici, melodie appena tracciate e poi lasciate naufragare tra le onde inerpicanti della sezione ritmica, queste le sfaccettature ricorrenti nell’ascolto della selezione inclusa nel cd. 

Giro di boa con “The Great Silence” traccia n.5 tra l’insinuante intro del clarinetto di Speed e i  risvolti rarefatti del pianoforte del leader, prima che l’intero quartetto riemerga in collettiva assonanza. Il tunnel buio e ridondante, che disegna Lightcamp con il suo contrabbasso in “Ancient” è ostinato, anche quando si illumina dei suoni di pianoforte e fiati e il suo incedere sembra incalzarti. Narrativa e brulicante di fermenti improvvisativi è il reprise di “Jamaican Farewell”  mentre “Phantom Ratio” con il suo ambient iniziale, avvolto di mistero e i percorsi fluenti di ritmo ed umori elettronici che ne seguono, mi conduce alla fine di questo magnifico lavoro. 

Assolutamente da ascoltare e da possedere, questo album di Taborn e compagni si  candida  a raccogliere i fasti di uno dei migliori album di questo 2017.


mercoledì 1 febbraio 2017

A Long Trip / With You

Marco Trabucco

Abeat



Nuovo album per il contrabbassista veneto Marco Trabucco la cui biografia racconta di folti studi e approfondimenti con illustri insegnanti come Glauco Vernier, in prima istanza, poi successivamente Curtis Lundy e Marc Abrams, nonché di esperienze anche in ambiti non esclusivamente jazz. Un album inciso in quintetto con un trio di base che include oltre al leader, al contrabbasso, anche Matteo Alfonso al pianoforte e Marco Carlesso alla batteria e con ospiti Gianluca Carollo alla tromba e Andrea Grezzo alla chitarra.

E’ un jazz, quello di Trabucco e del suo combo, senza pretese innovative, senza spigoli improvvisativi, concepito con un gusto, condensando musicalità e armonia ed eseguito con raffinata professionalità strumentale. La scrittura dei sette brani inclusi nel cd è di pregevole qualità e i temi sono coinvolgenti ed evocativi. 

Il trittico iniziale: “Cicles” “Otranto” e la title track, include gli elementi appena citati e pone in evidenza il fine interplay che alberga nella dialettica del gruppo, pur nel rispetto dei ruoli di primo piano che vengono riservati a turno al contrabbasso del leader, autorevole, espressivo, impinguato di fine liricità; alla tromba di Carollo, dalle venature struggenti e cool; agli umori blues della chitarra di Grezzo. Il tutto supportato dal raffinato pianismo di Matteo Alfonso, denso di contrappunti, ritmicamente essenziale, in cui il nostro si mostra magnifico cesellatore di architetture sonore di rara fattura. Senza dimenticare il drumming mai esorbitante ma sempre espresso con opportunità disarmante, discreto, ma fondamentale, di Carlesso. I tre brani immergono l'ascoltatore nel poetica musicale del contrabbassista veneto, una poetica che si fa fluida fra accenni bop e dinamiche mainstream in “Green Dance” e che esalta l'anima jazz di Alfonso. 

Poi la snella ma intrigante struttura di “How Did The Cat Get So Fat?” tra parti incalzanti ed interludi ballad che mi accompagna verso la fine di un album che sa sempre farsi apprezzare ogni volta che lo lascio in pasto al mio cd-player.

sabato 14 gennaio 2017

Plastic Breath

Filippo Vignato

Auand                                                                                                                                                           

É noto da sempre come la riuscita di un progetto in campo musicale, così come in altri ambiti, nasca dalla sinergia, dalla comunanza di intenti e dalla condivisione degli obiettivi finali fra tutti i soggetti coinvolti nel progetto stesso. Così ha preso vita e si è sviluppato questo recente lavoro del trombonista veneto Filippo Vignato, classe 1987, già apprezzato nelle file del gruppo Omit Five, di cui potete leggere qui la recensione del primo, omonimo album, nonché del successivo Speak Random. 

Musicista impegnato in svariate collaborazioni, non ultima quella con Piero Bittolo Bon e il quartetto Bread & Fox, Vignato ha incontrato qualche anno fa a Parigi Yannick Lestra e Attila Gyarfas, rispettivamente tastierista e batterista, francese il primo; ungherese il secondo, e da lì l’input, dove un’attiva frequentazione, per la realizzazione del primo album a suo nome in cui, il nostro, accosta le sonorità calde ed acustiche del suo trombone ai suoni plastici del Fender Rhodes di Lestra e al mosaico ritmico di Gyarfas. Si è così realizzata un’idea che covava nella mente del trombonista veneto da molti anni.

Nove composizioni, tutte originali, in buona parte firmate dal musicista italiano, altre cofirmate insieme a Gyarfas e Lestra, che coniugano ricercatezza e interplay in un caleidoscopio di sonorità intriganti e innovative. E’ un trombone borbottante ad aprire le selezioni con “The Meeting” che il leader percorre nel finale con una sinuosa armonia. A seguire “Lev & Sveta” pulsante, ostinato, il suo tappeto ritmico e sonoro accoglie a meraviglia il duttile eloquio di Vignato, gracchiante e filtrato nell’intro, denso di feeling e melodia nella parte centrale. Poi gli spasmi free di “Red Skin Hymn” riportano in auge i bagliori di un certo jazz-rock anni ’80. 

La cifra stilistica del trombonista veneto e del suo trio sembra però essere l’arte del variare di brano in brano l’ambient e le strutture delle sue creazioni musicali ed ecco “Provvisorio” insinuante ballad intensa e accattivante. Ancora più sofisticata, di maggior respiro e adulta appare poi “Windy” mentre nel finale colgono di sorpresa il riff trascinante di “Stop These Snooze” e il minimalismo di “Microscopy”. 

Il trio di Vignato delinea un layout inedito che ha già nella configurazione strumentale di base del combo la sua esclusività. C'è da ipotizzare grandi sviluppi ma nel contempo godiamoci questo bellissimo lavoro, uno dei migliori dell'appena andato 2016.

domenica 27 novembre 2016

Rows and Rows

Keefe Jackson / Jason Adasiewicz

Delmark





Il sassofonista e clarinettista Keefe Jackson, da Fayettevile, in Arkansas, dove è nato, si è trasferito a Chicago nel 2001, di lui ho scritto a proposito di uno dei suoi album di qualche anno fa, A Round Goal, leggetene qui la recensione se ne siete curiosi. Nella città del vento il nostro ha trovato gli stimoli giusti per realizzare i suoi progetti, grazie alle opportune collaborazioni con musicisti come Josh Berman, Dave Rempis, Mike Reed, Jason Roebke, solo per citarne alcuni. Tra questi anche uno dei più rappresentativi vibrafonisti del jazz contemporaneo, ovvero: Jason Adasiewicz. Il frutto della collaborazione in duo, con quest'ultimo, è un album registrato a Chicago nel giugno del 2015. Un album giocato tra scrittura e improvvisazione nell'ambito di nove composizioni originali scritti in massima parte da Jackson e in minor misura da Adasiewicz. L'intento è quello dichiarato senza mezzi termini da i due protagonisti: esplorare le composizioni e da lì generare gli elementi per l'improvvisazione. Quindi nulla di trascendentale e nessun elemento inedito nell'arte di suonare jazz. Eppure quello che ne viene fuori è l'insieme di nove episodi intrisi di pregevoli dialoghi ad iniziare dalla introduttiva “Caballo Ballo” ironica in alcuni frammenti, fatta di batti e ribatti, di fughe e rincorse, di porzioni improvvisate giocate su svariate sfaccettature timbriche. Poi c'è il lirismo incantevole di “A Rose Heading” il brio e le sinuosità di “Swap” gli umori bop della title track, le venature blues di “Putting it On Taking it Off” e tanto altro ancora. Jackson e Adasiewicz viaggiano in perfetta sinergia, si scambiano ruoli e posizioni, si inventano storie sonore intrise di rara bellezza travalicando anche i confini del genere jazz e restituendoci un album di grande levatura e quindi altamente consigliato.

lunedì 21 novembre 2016

The Music Of Carla Bley

Andrea Massaria / Bruce Ditmas

nusica.org


Al traguardo della sua decima produzione l’etichetta nusica.org propone il duo Andrea Massaria, chitarrista, Bruce Ditmas, batterista, alla prese con alcune delle pagine più belle del songbook di Carla Bley. Due le componenti che si evidenziano in questo album: la ricerca sonora sulla sei corde elettrica di Massaria, che si aiuta non poco con l'elettronica, nonchè il drumming fluorescente e dinamico di Ditmas. Due aspetti determinanti nel layout espressivo di questo duo che insieme danno una rilettura inedita delle sei composizioni della Bley. Ma c’è di più, perché le composizioni vengono reinterpretate e reinventate in un ambient che alterna esposizione del tema e improvvisazione, il tutto in un contesto a volte rarefatto, altre volte nervoso. La chitarra di Massaria sa essere lirica, velata di una sottile timbrica old-fashioned, quando espone temi come quello dell'iniziale “Ida Lupino”; incalzante, quando mutando totalmente sonorità la si può scambiare per un organo Hammond, mentre si confronta con il drumming dilagante di Ditmas in “And Now The Queen”. Ma i sei episodi di questo godibile lavoro celano anche le rarefazioni ambientali di “Ohlos de Gato”; gli eloqui sonori e le mutazioni percussive della splendida “Vashkar”; lo struggente tema di “Utuiklingssang” e il magma ritmico di “Batterie”. Un mosaico variegato e affascinante di quadri sonori che fanno di questo lavoro un altro prezioso progetto che esce dalla fertile fucina di arte sonica della trevigiana nusica.org.

lunedì 7 novembre 2016

Il Solar Sound del quartetto di Greg Burk al Torresino di Padova

31.10.2016

live concert


Serata da incorniciare quella del 31 ottobre scorso al Torresino di Padova, come tante per l'organizzazione di Centro d'Arte 70. In scena il quartetto del pianista Greg Burk: Marc Abrams al contrabbasso, Enzo Carpentieri alla batteria e con ospite il cornettista Rob Mazurek. Un quartetto che costituiva per tre quarti la struttura del Lunar Quartet del sassofonista danese John Tichai. Eravamo nel 2008, Tichai sarebbe scomparso quattro anni dopo. L'idea di quel quartetto è rinata qualche mese fa, nell'ambito del S.Anna Arresi Jazz Festival, grazie a Greg Burk che ha coinvolto in questa nuova versione di quel combo il cornettista chicagoano Rob Mazurek. 

martedì 25 ottobre 2016

Chicago Conversations

Peter A. Schmid

Creative Works


Classe ’56, svizzero di nascita e residenza, ha trascorsi importanti con musicisti come Evan Parker, Pierre Favre, Barry Guy. E’ il sassofonista e clarinettista svizzero Peter A.Schmid, infatuato di free e degli umori della windy-city a tal punto che pianificando una pausa nella sua attività professionale di medico è volato a Chicago il 31 agosto del 2014 e, arrivato a destinazione, si è chiuso per un giorno allo Strobe Recording  registrando nell’arco di 24 ore questo album ora edito dalla Creative Works. Ventiquattro tracce tra frammenti sonori e brani veri e propri, a differenziali la durata in termini di tempo, alcuni infatti non superano il minuto, in cui il nostro (clarinetto basso e contrabbasso, sax baritono e sopranino) interagisce con le percussioni di Michael Zerang; il clarinetto basso e il sax tenore di Keefe Jackson; il clarinetto contralto di Wacław Zimpel; le percussioni di Frank Rosaly; il contrabbasso di Albert Wildman; la cornetta di Josh Berman e il trombone di di Nick Broste. Un ventaglio di combinazioni variegate riassumibili in quindici duetti e nove trii, una tendenza chiara verso un ambito dì espressività improvvisata, prevalentemente fatta di sonorità cupe e fragori percussivi. Composizioni che prendono vita istantaneamente alle loro esecuzioni, climi nervosi, timbriche spesso estremizzate, fraseggi imprevedibilmente swinganti quando a confrontarsi sono strumenti a fiato e umori cameristici, il tutto a corredo di una produzione certamente di rilievo e, in assoluto, da ascoltare.

domenica 16 ottobre 2016

America’s National Parks

Wadada Leo Smith

Cuneiform


Da qualche tempo il trombettista Wadada Leo Smith sembra aver indirizzato la sua produzione su due percorsi decisamente diversi l’uno dall’altro. Da una parte incisioni con ensemble più o meno nutriti come ad esempio Ten Freedom Summers o The Great Lakes, dall’altra incontri a due come il recentissimo, qui recensito, A Cosmic Rhythm With Each Stroke, a fianco del pianista Vijay Iyer. Quella di cui vado a raccontarvi è un’opera ispirata dal prestigioso patrimonio dei Parchi Nazionali Americani e di cui si prende cura un’istituzione come la National Park Service, creata cento anni fa con atto del congresso, il 25 agosto del 1916, di cui quest’anno ricorre il centenario. Smith a poco meno di due mesi dal suo settantacinquesimo compleanno si concentra su alcune di queste bellezze naturali e dà alla luce quest’album in compagnia del suo Golden Quintet che lo vede a fianco di Anthony Davis, pianoforte; John Lindberg, contrabbasso; Pheeroan akLaff, batteria ed Ashley Walter, violoncello. Ma ad ispirarlo non è come si potrebbe facilmente pensare la bellezza di questi luoghi, bensì come lui stesso dice ………….”la mia attenzione si concentra sulle dimensioni spirituali e psicologiche dell’idea di mettere da parte riserve per la proprietà comune di cittadini americani”...... e su questo nascono le sei composizioni che occupano i due cd. Di fatto sei componimenti musicali che si sviluppano su vari ambiti, ambiti tra i quali Smith si esprime con determinazione attraverso un interplay dalle varie sfaccettature. Come, ad esempio, in “New Orleans: The National Culture Park USA 1718”, dove l’intro si sviluppa in chiave jazz con una sottile velatura blues, ma non mancano intervalli cameristici in cui il violoncello di Walter è protagonista. E’ comunque Smith ad infiltrare con la sua tromba una dialettica che spesso si fa viscerale, cupa e dai toni gravi in cui Davis al pianoforte lancia lampi di luce accecante e illumina l’orizzonte con la maestosità del suo pianismo. Straordinario anche il contributo del contrabbasso di Lindberg,  più volte in simbiosi con il violoncello di Walter e ai quali si affianca  il drumming superlativo di akLaff.  E’ un lavoro di rara magnificenza e completezza questo di Smith che certifica la grandezza compositiva e la visione artistica di un maestro concertatore e di un grande saggio del jazz contemporaneo.


martedì 4 ottobre 2016

The Bell

Ches Smith  Craig Taborn  Mat Manieri

Ecm


Il batterista Ches Smith si è già rivelato, tra l’altro, attraverso il sue essere membro dei Tim Berne’s Skaneoil nonché da leader del gruppo These Arches. Ora approdato alla Ecm ci propone otto composizioni   a sua firma  eseguite con il pianista Craig Taborn e il violinista Mat Manieri. Il trio si muove attraverso un percorso  contaminato da vari elementi: il genero classico, l’improvvisazione jazz, la ricerca nel filone contemporaneo. L’apertura con la title track vede i tre intersecarsi con impulsi sonori, velati accenni di melodie, eruzioni percussive e laceranti sviolinate. Ma è “Isn’t it Over” due brani più avanti, a tracciare un tema breve ma sufficiente a delineare un tratto danzante che la viola di Manieri, prima, e il vibrafono di Smith , dopo, esplicano come fonte irrorante di una porzione improvvisativa che vedrà il trio in totale simbiosi. Poi il verbo espressivo sembra impinguarsi di ritmo brioso e armonia: è la volta di “Wacken Open Air” intensa, avvolta in un turbinio svolazzante. E’ un layout esclusivo, quello dipanato da Smith, Manieri e Taborn , non etichettabile, fantasioso e cangiante, come gli ambiti in cui si svela “It’s Always Winter Somewhere” quasi barocca in qualche passaggio ma al tempo stesso estrosa e ritmicamente sinuosa. Opera di grande pregio questa di Smith e soci che da qualche settimana dimora indisturbata sul mio player.

domenica 25 settembre 2016

Super Petite

The Claudia Quintet

Cuneiform




E' un quintetto eclettico il “Claudia” del batterista John Hollenbeck, tanto quanto il suo leader da sempre impegnato in vari percorsi. Geniale musicista che sembra nutrire un debole verso l'attività di questo ensemble al quale, di tanto in tanto, si dedica. Per quest'ultima produzione, che porta in titolo il soprannome assegnato dal nostro ad uno dei fan più incalliti del quintetto, Hollenbeck ha composto dieci brani, nell'insieme un universo sonoro ricercato, con qualche citazione del passato ma nella maggior parte dei casi proiettato sul presente con un layout raffinato e intrigante che denota la peculiarità stilistica di ognuno dei componenti il quintetto. Quest'ultimo rivela un avvicendamento, Red Wierenga, fisarmonica e pianoforte che sostituisce Ted Rechman, e che si completa con Chris Speed, clarinetto e sax tenore; Dew Gress, contrabbasso; Matt Moran, vibrafono; John Hollenbech, batteria. Per cominciare le citazioni, la prima delle quali è contenuta nell'iniziale “Nightbreak” brano dall'ambient cameristico ma elegantemente colorato e costruito sulla reinvenzione rallentata del tema di “Night Of Tunisia” di Charlie Parker; la seconda “Philly” riferita ad una tipica citazione ritmica del famoso batterista Philly Joe Johnson, è un brano tipicamente jazz di cui è protagonista Chris Speed con una lunga improvvisazione. Per continuare i ritmi e le interazioni funky di “JFK Beagle” la fluidità da modern jazz di “A-List” la poliritmia di “Rose-Colored Rhythm” ispirata ad un'opera del batterista senegalese DouDou N'Diaye Rose; gli umori orientaleggianti dell'ostinato, ritmicamente sostenuto, unisono clarinetto-fisarmonica in Pure Poem” ispirato ad un scritto del poeta Shigeru Matsui. Per finire l'eloquio cameristico di Mangold, una melodia rarefatta a ricordo di un ristorante vegetariano che si trova a Graz in Austria, frequentato da Hollenbeck durante le registrazioni di  Joys & Desires  di cui se ne siete curiosi potete leggerne qui la recensione a mia firma. Tornando a Super Petite e al suo variegato e prezioso mosaico di stili e sonorità non rimane altro che aggiungere che Hollenbech e compagni hanno confezionato un altro ottimo lavoro, tra i migliori, fin qui ascoltati, in questo 2016.  


domenica 18 settembre 2016

Old Locks and Irregular Verbs

Henry Threadgill Ensemble Double Up

Pi


Con il nuovo Ensemble, denominato Double Up, il sassofonista e flautista di Chicago, Henry Threadgill, si propone nel suo recente album dedicato all’amico e grande musicista Lawrence D. “Butch” Morris. Una configurazione singolare che include due pianoforti, quelli di David Virelles e Jason Moran; altrettanti sax alto con Roman Filiu e Curtis MacDonald; Christopher Hoffman: violoncello; Jose Davila: tuba; Craig Weinrib: batteria. Conclusa quindi l’esperienza con il precedente gruppo, Zoid, Threadgill, che in contemporanea alla pubblicazione di questo album ha ricevuto il premio Pulitzer per la sua precedente opera “In for a Penny, In for a Pound” si concentra esclusivamente sulla composizione. Sua la firma sulla suite in quattro parti che da il titolo all'album nonché la conduzione dell'ensemble quasi a ripercorrere le orme del suo grande amico Lawrence. Sono i due pianoforti ad aprire la prima delle quattro parti con fraseggi e interazioni che precedono l’irrompere di un intreccio sonoro con in evidenza un tema che viene ripreso a turno sia dai fiati che dalle tastiere, con spazi ottimamente calibrati per l'improvvisazione. Dialoghi a due nella più contenuta, in termini temporali, parte seconda, fra viola e tuba prima e pianoforte e sax dopo, ai quali si aggiunge un travolgente solo di batteria di Weinrib. Poi il via alla parte terza con il violoncello di Hoffman intento a tracciare una melodia, a tratti struggente, in un contesto che potrebbe apparire inizialmente tipico di una ballad ma che poi si inerpica in dinamiche improvvisative anche in questo caso esplicate a turno da fiati e pianoforti. Straordinarie interazioni e, come prima, una sorta di flusso sonoro dove i vari elementi entrano in gioco al momento giusto e si incastrano l'uno accanto all'altro in maniera perfetta. Grande jazz e grande musica in assoluto che trova naturale sublimazione nella parte finale, la quarta, una partitura di straordinaria bellezza costruita su varie sfaccettature tra momenti riflessivi ed esplosioni di straripante intensità. Musica senza tempo che vive di una forza espressiva di grande impatto, che ingloba la spontaneità del jazz di matrice tradizionale e i percorsi innovativi del jazz di oggi. Un must!


martedì 28 giugno 2016

Convallaria

Thumbscrew

Cuneiform


Dopo il primo album omonimo il trio di May Halvorson, chitarra, Michael Formanek, contrabbasso e Tomas Fujiwara, batteria, ritorna con una nuova produzione. Un lavoro che conferma ancora di più quanto sia stato arguto da parte dei tre protagonisti intuire l’effettiva opportunità che poteva offrire a loro stessi e a noi appassionati ascoltatori, l’unione di tre individualità uniche nel jazz contemporaneo. Sull’esclusività di una musicista come Mary Halvorson mi sono espresso più volte e devo confessare che mi sento di ribadire ogni volta di più, quanto ci fosse bisogno di un’ artista come lei per rivalutare o comunque reinventare il ruolo della chitarra in un ambito jazz. Su Formanek che non è necessario aggiungere altro se non affrettarmi a recensire il suo e dell’ensemble Kolossus The Distance, mentre continua a sorprendermi Fujiwara che in questo ambient si rivela una volta di più fantasioso e raffinato. Ed è così che l’ascolto delle undici tracce fluisce meravigliosamente scandagliando un ampia gamma di intrighi sonori. Tutto è stato generato durante le due settimane di residenza del trio presso la City of Asylum  di Pittsburg, un luogo pensato per poeti in esilio, da qualche tempo aperto a una vasta gamma di artisti tra i quali anche a musicisti. Ebbene i tre hanno messo su undici composizioni originali con le quali tessano una fitta ragnatela sonora fatta di sofisticate interazioni in ambiti che inglobano dinamiche jazzistiche di stampo avant, sfaccettature rockeggianti, velate inflessioni country ed sfumate melodie esotiche. Dall’iniziale  “Cleome” con i suoi risvolti rock, alla conclusiva, quasi danzabile “Inevitable” è tutto un susseguirsi di variegate combinazioni musicali tra le quali vanno citate la ritmica jazz di “Barn Fire Slum Brew”e l’intrigante vibrato di “Trigger” a seguire la solitaria intro di Formanek al contrabbasso; il trionfo dell’elettronica in “Screaming Piha” e i cambi di tempo della title track; i bagliori free di “Tail of The Sad Dog” e le nervose incursioni di “Danse Insensé”; Un festival di suoni e colori tutto da godere.

giovedì 23 giugno 2016

A Cosmic Rhythm With Each Stroke

Vijay Iyer / Wadada Leo Smith

Ecm


Ancora un incontro a due per il trombettista Wadada Leo Smith dopo le sontuose opere in ensemble più ampi negli ultimi anni. In questo nuovo album che vede il suo ritorno alla Ecm troviamo  al suo fianco il pianista Vijay Iyer entrambi alle prese con un’ opera che celebra un’artista indiana il cui nome è Nasreen Mohamedi. A lei è infatti dedicata una suite in sette movimenti che occupa quasi l’intero album con un brano di Leo Smith che la precede e uno Iyer che gli si accoda. Una performance intensa e vissuta in ogni piccola porzione per due musicisti che appartengono a due generazioni diverse eppure risultano essere fortemente ammirati l’uno dell’altro. Ricordo che Iyer ha fatto parte del Golden Quartet che ha accompagnato per molto tempo Leo Smith, due musicisti comunque fra i più interessanti oggi sulla scena del jazz internazionale. Dopo l’iniziale “Passage” una sorta di rilassata e meditativa introduzione all’ascolto dell’album,  è la tromba di Leo Smith a squarciare l’ambient rarefatto dell’intro di “All Becomes Alive” condizionato solo dal loop di un’elettronica di cui si prende cura Iyer. Nel resto del brano ci si imbatte sull’ostinata nota di basso che accompagna prima i preziosi fraseggi al pianoforte del pianista indiano e poi il dialogo fitto fra quest’ultimo e Leo Smith.  Tensioni free costellano “Labyrints” traccia n.4 e un dialogo tra minimalismo e suoni asettici straripa da “Uncut Emeralds”. A chiudere ci pensa “Notes on Water” brano extra suite firmato dal pianista, che sembra proiettarci verso spazi ancestrali. Un’opera questa della coppia Leo Smith / Iyer straordinariamente affascinante e inesauribile fonte emotiva. Indispensabile.


mercoledì 22 giugno 2016

Saadif

Hyper + Amir ElSaffar

nusica.org


Nuovo progetto per tre dei più rappresentativi musicisti che orbitano attorno all’etichetta nusica .org. Sono il sassofonista Nicola Fazzini, lo specialista di chitarra basso, acustica, Alessandro Fedrigo, vera anima dell’etichetta, è lui che l’ha pensata e creata e il batterista Luca Colussi. Si chiama Saadif ,ovvero, incontro e segna la loro collaborazione con  il trombettista iracheno, nato a Chicago ma oggi cittadino newyorkese, Amir ElSaffar, di cui vi ho raccontato a proposito del suo album Alchemy, potete leggerne la recensione qui. Una collaborazione che affianca la matrice jazz europea, fatta di ricercate strutture compositive, da sempre insite nelle produzioni dei tre musicisti italiani, con la musica araba-africaneggiante di ElSaffar. Il risultato è una selezione di pregevoli brani, sei per l’esattezza, che si apre con“Mono Esa Tono”  una ben riuscita coniugazione di passato e presente, di tradizione e contemporaneità. Poi arrivano le orientaleggianti esternazioni vocali di ElSaffar, nell’intro di “Kosh Reng”, quasi una nenia rituale araba che precede l’arrivo di un flusso ritmico ostinato ed ipnotico, splendidamente scandito dalla coppia Fedrigo-Colussi a supporto degli interventi ai fiati del binomio Fazzini-ElSaffar che opera in perfetta simbiosi. Ricca di simili effusioni sonore è anche “13th of November” diversa strutturalmente ma officiante, armonicamente, l’universo arabo. Tra ritmi velatamente funky e inflessioni post-bop si snodano “Hyper Steps” e “Futuritmi” già incisa in una precedente produzione dall’XY Quartet di cui fanno parte i tre musicisti veneti; mentre “Human Tragedy” in chiusura dell’album sembra avvicinare il suono dell’ensemble verso ambiti più mediterranei. Un’opera, questa numero nove di nusica.org, perfettamente riuscita nel suo intento di celebrare musicalmente l’incontro oriente e occidente. Un magnifico esempio di sintesi tra modern jazz ed elementi propri  della cultura musicale araba come il maqâm, che il trombettista iracheno ha già metabolizzato nel suo layout espressivo.


giovedì 2 giugno 2016

Kaze al Torresino di Padova

27 maggio 2016

live concert


Unica data italiana, quella di venerdì 27 maggio, per il quartetto Kaze di Satoko Fujii, Natsuki Tamura, Christian Pruvost e Peter Orins che ha fatto tappa al Torresino di Padova nell'ambito della rassegna del Centro D'Arte degli Studenti dell'Università. Evento atteso, come molti fra quelli programmati dall'associazione nei settantanni di attività. Sulla scena un quartetto dal profilo espressivo certamente unico e stimolante. Una delle tante ramificazioni dell’attività di una musicista, straordinariamente prolifica, che qui prova ad andare abbondantemente oltre i limiti di una convenzionalità sonora  già non tale, in assoluto, nella sua natura artistica.

venerdì 11 marzo 2016

Ah!

Pollock Project

Be Human Records


Nuova produzione per i Pollock Project del compositore e pluristrumentista Marco Testoni, vera anima del gruppo di cui vi ho raccontato in occasione della pubblicazione del precedente album “Quixote”. Di quell’organico oggi rimane il solo Testoni al quale si aggiungono, nel trio di base, la vocalist Elisabetta Antonini e il sassofonista e clarinettista Simone Salza. Quello che invece si riconferma caratterizzante anche in questa occasione, ancor più della precedente, è la capacità dell’ensemble di stupire per la spiccata attitudine ad arricchire e contaminare la propria espressività con svariati elementi provenienti da vari ambiti musicali. Ed allo stesso modo è da sottolineare la vasta gamma di situazioni dalle quali le composizioni della band prendono spunto. C’è anche in questa occasione la conferma di un obbiettivo primario, per Testoni e soci, che è quello della musica visuale attraverso una sintesi di elementi che riconducono chiaramente al jazz, all’elettronica e alla musica per immagini. Scorrendo l’ascolto delle dieci tracce di questo nuovo lavoro, realizzato con l’ausilio di altri musicisti ospiti, c’è da stupirsi non poco già dall’iniziale “Aura” un caleidoscopio di ritmo, armonia e sonorità variegate, dedicato alla città spagnola di Barcellona. Come nel precedente album anche in quest’ultimo ritroviamo la rilettura di un brano di John Coltrane. E’ “Naima” con tutto il suo ventaglio di suggestione, spiritualità e magia. I Pollock Project ne coniano una versione estasiante  sicuramente unica. Le successive tre tracce chiudono una prima metà dell’album densa di suoni world, di interazioni ritmiche, di ironia dissacrante come quella di “Gonzo Entertainment” dedicata alla frivolezza dell’universo televisivo. Le rimanenti cinque tracce si orientano invece verso ambiti più tecnologici, verso musiche più d’avanguardia, come una altra rilettura “Vauro” dei Sigur Ros, una band islandese di post-rock, riproposta provando ad accostare nord europa e mediterraneo attraverso un layout jazzistico minimale. Ed ancora mi ha sorpreso e appassionato la successiva “Anna Blume” che è anche il titolo di una poesia dadaista, scritta da Kurt Schwitters, a cui il brano è ispirato. Mi hanno incuriosito le sue sonorità sintetiche, il  pseudo ostinato che percorre il brano, gli inserti vocali e strumentali così ben amalgamati. Cos’altro aggiungere se non una  lode al trio Testoni-Salza-Antonini per un progetto che nella sua interezza è un’opera esclusiva. 


domenica 1 novembre 2015

Hera

Le Pot

Everest


E' stata la chiesa di St. Romanus a Ranus, in Svizzera, l'esclusiva location scelta dal quartetto elvetico Le Pot per le sedute di registrazione di questo loro recentissimo cd. Manuel Mengis alla tromba ed elettroniche, Hans-Peter Pfammatter ai sintetizzatori, Lionel Friedli alla batteria e Manuel Troller alla chitarra hanno impiegato quattro giorni per dare vita a questa loro produzione in bilico fra jazz, avanguardia, tecno e ambient music. Ma c'è anche un preciso riferimento, in stretta relazione con la loro espressività, ed la musica di Benjamin Britten nel cui repertorio i quattro hanno pescato alcune composizioni che qui hanno sviluppato secondo il loro layout espressivo affiancandole ad altre da loro stessi firmate e privilegiando in entrambi i casi l'improvvisazione. Ed cosi che il percorso, costellato di ben undici episodi, si rivela già dall'iniziale “Eyrie” denso di mistero. I suoni sembrano trascendere la realtà, moltiplicarsi, frammentarsi in una frenetica rincorsa verso l'indefinito. Le sonorità sintetiche e l'intenso flusso ritmico di “Flint” preludono ad un breve episodio caratterizzato da un fraseggio armonico di Mengis alla tromba: è l'intro di “Thus Gamesters United in Friendship/Ungrateful Macheath!” che poi andra ad evolversi in svariate mutazioni sia ritmiche che sonore. Poi l'atmosfera sembra acquietarsi con i rarefatti umori di “Hamada/Requiem Aeternam” e i minimalismi narrativi di “Ranunkel und Viola” con la tromba di Mengis protagonista, qui come in tutto l'album, con una vocalità variamente modulata e fortemente espressiva che lascia spazio nel finale al ritmo quasi tribale di Friedli alla batteria. Arriva in successione, inaspettato con “Meanwhile” traccia n.8, un eloquio di free bop claunesco e ironico mentre “Now Until The Break of Day” con il suo riff ostinato ed elementare chiude con leggerezza un album intriso di imprevedibilità e ricercatezza.


lunedì 17 agosto 2015

Random²

Nicola Fazzini – Minimum Sax

nusica.org




Il collettivo nusica.org ha dimostrato nel corso di questi anni di essere innanzitutto un insieme di musicisti prolifico e ricco di idee. Il tutto ha fin qui prodotto, compresa quest’ultima, ben otto produzioni musicali rilasciate sempre e comunque attraverso la filosofia principe di questa etichetta che è quella della condivisione in rete  a cui si aggiunge, come ho già scritto altre volte recensendo le precedenti produzioni, la possibilità dell’acquisto dei cd fisici che sono stampati in tiratura limitata e numerata. A chiunque fosse interessato ricordo che è possibile leggere le mie recensioni sulle precedenti incisioni inserendo  “nusica” nella casella di ricerca di questo blog. Questa ottava produzione è firmata esclusivamente dal sassofonista Nicola Fazzini, unico interprete al sax alto di un’opera singolare, sia nel suo concepimento che nella sua particolare fruizione. Fazzini ha scritto per questo cd ed incluso in esso  ben 46 composizioni o per meglio dire 46 frammenti sonori, se teniamo conto che solo poche di esse superano di una manciata di secondi il minuto di durata, raggruppate in dieci matrici differentemente  denominate. Fin qui sembrerebbe tutto normale se non fosse che ogni cd reca le 46 composizioni in un ordine diverso dall’altro e che le stesse composizioni possono essere ascoltate in streaming con un ordinamento variabile  soltanto attraverso il refresh della pagina web che li contiene e che potete visitare cliccando qui. Ma non è tutto perché anche l’ipotetico acquirente del cd ha la possibilità di intervenire, durante l’ascolto, nel relativo ordinamento dei brani, attivando sul proprio player la funzione random. E’ chiaro che tutto ciò rende questa produzione unica e sicuramente discutibile, ma la filosofia di nusica.org non teme confronti di sorta. Fazzini si muove nell’ambito di un universo jazzistico d’avanguardia e di ricerca e anche questa sua ultima fatica è densa di stimoli e intuizioni da approfondire e sviluppare.

domenica 16 agosto 2015

Rune

Earth Tongues

Neither/Nor


La Neither/Nor Records è un’etichetta discografica che ha sede a New York e che si presenta come dedita alla musica improvvisata e avventurosa. Finora sono state tre le produzioni edite, tra le quali c’è questo Rune del trio Earth Tongues formato dal trombettista Joe Moffett, dal tubista Dan Peck e dal percussionista Carlo Costa. Alla dotazione strumentale appena descritta si aggiunge un cassette player affidato a Peck, nelle quattro composizioni inserite nel cd. Un’opera certamente diversa dagli standard abituali del jazz contemporaneo che nasce nella New York dei fermenti innovativi, tra musicisti ossessionati dalla ricerca a tutti costi. Ed è così che ci si ritrova ad ascoltare un combo intento a rincorrere una relazione tra suoni di differente natura: rumori, note musicali, battiti di ritmi irregolari e frammenti di melodie. Come entrare in un tunnel sonoro, in puro ambient minimalista e viaggiare tra i meandri di un universo tecnologico e misterioso. Un’esperienza di grande fascino, quasi una scommessa con il pensiero normale di chi arriverebbe a definire inascoltabile questa produzione. E invece….. tutt’altro! perché Moffett, Peck e Costa captano e restituiscono qualcosa di esclusivo, certamente straniante ed imprevedibile. Un’audace scelta espressiva che merita grande attenzione.


domenica 9 agosto 2015

RelativE ResonancE

Devin Gray

Skirl

Che il batterista Devin Gray abbia già rivelato tutte le sue doti di strumentista e di scrittura, di un jazz fortemente imparentato con la contemporaneità, è cosa oramai assodata vista la pregevole fattura della sua opera prima, Dirigo Rataplan, di cui potete leggere qui la recensione. Tre i musicisti a coadiuvarlo in quell'incisione: Dave Ballou alla tromba, Ellery Eskelin al sax e Michael Formanek al contrabbasso, sostituiti dalla pianista Kris Davis, dal contrabbassista Chris Tordini e dal  sassofonista e clarinettista Chris Speed in questo nuovo e avventuroso percorso che si traduce in un concatenato fluire di interazioni soniche e ritmiche racchiuse in otto composizioni originali firmate da Gray. Dopo i due episodi iniziali “City Nothing City” e “In the Cut” fortemente impregnate di free bop arriva l’intensa e magmatica “Notester” un mosaico sonoro, in continuo crescendo fra scrittura e improvvisazione, costruito, passo dopo passo, con il paritario contributo di ognuno dei quattro. Gray e soci esprimono poi un ambient cameristico, nella prima parte dell’intrigante “Jungle for Design” scritta per l’illustratrice Hannan Shaw, che si sviluppa nella sua seconda parte in pieno climax jazzistico. L’ascolto procede con l’incalzante “Transatlantic Transition”  impinguata costantemente di urgenza espressiva, che solo nel finale concede una pausa con le danzanti note del pianoforte della Davis, mentre è la title track scritta per il grande Tadd Dameron a far riemerge umori bebop velati in qualche passaggio di hard. Album di grande fascino e coinvolgimento, questo secondo di Gray, proiettato su orizzonti innovativi e contaminanti, che si ascolta e riascolta senza mai deludere, sorprendendo di volta in volta per l’intensità delle sue trame musicali. Il batterista conferma le sue enormi doti di scrittura e di strumentista, di cui scrivevo prima, il suo drumming è incessante e appropriato in ogni condizione e i musicisti che lo affiancano, come risaputo, sono tra il meglio che la scena d’avanguardia newyorkese possa offrire. La Devis e Speed appaiono straordinariamente ispirati e il contrabbasso di Tordini si mostra vigoroso e dinamico. In definitiva questo è un cd fortemente consigliato.