Kris Davis
Thirsty Ear
La
pianista di origini canadesi Kris Davis é ormai una cittadina newyorkese perché
da anni risiede in quella città, ma é anche una delle musiciste di primo piano
della scena d'avanguardia di Brooklyn. Attivissima da anni ha al suo attivo
numerose incisioni divise in vari ambiti e in questi giorni sta lavorando ad un
progetto ambizioso con un ottetto per il quale ha scritto le musiche. Su questo
progetto non so dirvi per il momento altro tranne che é stato commissionato alla Davis
da parte della Shifting Foundation che
non è nuova a queste sovvenzioni e che dell'ottetto fanno parte Ben Goldberg,
Oscar Noriega, Andrew Bishop, Joachim Badenhorst ai fiati; Nate Radley alla
chitarra, Gay Versace, organo e accordion, Jim Black alla batteria e
naturalmente la stessa Davis al piano. Mentre attendo di ascoltare questo album,
che sembra promettere grandi gesta, sono qui a raccontarvi di questo cd in piano
solo che si colloca come la naturale continuazione ed evoluzione del
precedente cd Aerol Piano inciso
dalla nostra in solitudine. E’ ancora una volta, e questa volta ancor di più
della precedente, una performance fortemente caratterizzato da un rapporto
intimo tra la musicista e il suo pianoforte, quasi un dialogo sottovoce, che
prelude e sottintende ad ogni esclamazione musicale. La Davis si avvale di
qualche sovraincisione e di un pianoforte preparato ma questo aspetto è per
certi versi secondario all'essenza esclusiva che viene fuori durata l'ascolto
del cd. Si naviga ai confini tra scrittura improvvisazione, come ha precisato
la stessa protagonista, tra una visione moderna di una concezione classica
della musica e la creatività tipica del jazz d'avanguardia. Quelle accezioni
avant, che avevo sottolineato quando mi trovai a recensire il suo precedente Aerol Piano per Il Giornale della Musica, qui risultano più accentuate, più spinte
verso orizzonti inediti. Permane poi un grande senso del ritmo come è già
evidente nell'iniziale “Ten
Exorcists” ma anche di un ambient minimalista, di atmosfere rarefatte, appena
spezzate, in qualche caso, da una fioca melodia come accade in “Desolation and Despair”. C’è
anche un validissimo esempio di una traccia dalla struttura articolata che
esordisce in sordina, si sviluppa in crescendo e si affievolisce nel finale e c’è
anche una visionaria versione della “Evidence” di Monk, unico episodio non originale. In poche
parole c’è tutto quello che fa dire che questo è un grande album.
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