Ritorno
al piano solo per Franco D’Andrea dopo gli approfondimenti sulle
aree intervallari degli album IntervalsI e II. L’ultima incisione
in un contesto simile era stata Todaynel 2013 e adesso, a
distanza di sei anni, il musicista di Merano propone un’opera
sicuramente più ambiziosa, frutto dell’evoluzione e della ricerca
operata in questi anni. E’ questa non è certo una novità
nell’attività musicale di D’Andrea, abbondantemente prolifica e
sempre stimolante, piuttosto è un’ulteriore passo avanti con un
album doppio che nei fatti presenta due suite: Morning e
Afternooh.
di Giuseppe Mavilla (english version) translated by Annapaola Mavilla
Twelve albums in
2018, one per month, for the Japanese pianist Satoko Fujii, who has celebrated her 60th birthday, while in 2019
she came back with her cd Stone in solo piano, already reviewed in this blog.
This was followed a few months ago from Confluence
which I am going to tell you about, while these days the cd Four is out, in a
duo with the bassist Joe Fonda. Furthermore, Entity recorded with New York Satoko Fujii Orchestra and Baikamo in duo with the drummer Tatsuya
Yoshida, are coming soon.
L’Università
di Ca’ Foscari Venezia
presenta la nuova stagione concertistica di musicafoscari 2019,
progetto nato nel 2010 con lo scopo di offrire agli studenti
un’esperienza culturale e di condivisione pratica dei linguaggi
musicali attuali, attraverso workshop di improvvisazione e
composizione collettiva.
La
stagione 2019 prosegue la linea di ricerca sulle relazioni aperte fra
composizione e improvvisazione, tecniche strumentali, parola, voce e
immagine, sviluppate a partire dagli anni Sessanta e aggiornate al
contesto attuale.
Il
programma prevede cinque
appuntamenti musicali.
Dodici album nel 2018, uno al mese per la pianista giapponese Satoko Fujii, che l'hanno vista celebrare i suoi sessant'anni, mentre in questo 2019 si è riproposta con il piano solo Stone, già recensito in questo blog. Ad esso ha fatto seguito qualche mese fa Confluence, di cui mi accingo a raccontarvi, mentre è in uscita, in questi giorni, Four in duo con il contrabbassista Joe Fonda. In più sono in arrivo Entity inciso con la Satoko Fujii Orchestra di New York e Baikamo in duo con il batterista Tatsuya Yoshida.
Nuova
produzione per il Mark Dresser Seven, dopo l'ottimo Sedimental
You del 2016. Ancora affiancati ritroviamo Nicole Mitchell
ai flauti; Marty Ehrich ai clarinetti e sax; Keir GoGwilt,
avvicendatosi in questa occasione a David Morales Boroff, al violino;
Michael Dessen al trombone; Joshua White al pianoforte; Jim Black
alla batteria e lo stesso Dresser al contrabbasso. Questo, Ain't
Nothing But a Cyber Coup & You, lo vede ricordare la
scomparsa del sassofonista Arthur Blyte e del pianista Butch Lacy,
musicisti con i quali Dresser ha suonato. A loro sono ispirati e
dedicati rispettivamente la traccia di apertura, "Black Arthur's
Bounce" (in memoria del sassofonista Arthur Blythe) e quella di
chiusura dell'album, "Butch's Balm" (in memoria del
pianista Butch Lacy) la prima caratterizzata da un tema ritmato dai
risvolti funky e dai soli di tutti i componenti il settetto; la
seconda dall'atmosfera pacata a volte struggente, una sorta di nenia
nel ricordo di Lacy.
Laboratori di improvvisazione ed esecuzione di partiture non convenzionali
Da novembre 2019 a maggio 2020, 7 giornate di workshop e concerti con maestri di spicco della scena musicale nazionale ed internazionale.
L'Associazione Culturale “BlueRing-Improvisers” (nelle figure di Tobia e Michele Bondesan e Giuseppe Sardina), attiva da anni nella promozione della ricerca, dell'improvvisazione, della sperimentazione e nell'organizzazione di eventi e workshop in ambito musicale, rinnova anche per l'anno 2019/20, in collaborazione con Pisa Jazz e Fonterossa Records di Silvia Bolognesi, il laboratorio “FONTEROSSA meets BLUERING OPEN ORCHESTRA: laboratori di improvvisazione ed esecuzione di partiture non convenzionali”.
Padova Jazz Festivalpiano edition.
La ventiduesima edizione della kermesse padovana, in scena dal 25
ottobre al 23 novembre, punta decisamente sui pianisti, convocando un cast
in cui brillano i pianoforti di Raphael Gualazzi, Monty
Alexander, Kenny Barron, Vijay Iyer, Benny
Green, Aaron Diehl, nonché l’organo di Dan Hemmer,
che si intreccerà alla batteria di Steve Gadd.
Ferrara In Jazz XXI edizione I Presentata la prima parte di stagione con ENRICO RAVA, BILL FRISELL, FABRIZIO BOSSO, CHRIS POTTER, URI CAINE e moltissimi altri...
Si dice spesso che la
vita inizia a quarant’anni. Di certo il Jazz Club Ferrara -
sulla scena dal 1977 senza alcuna interruzione - pare non sentirli, anzi, la
maturità gli ha giovato conducendolo ad imporsi tra i più importanti jazz club
europei, conseguendo prestigiosi riconoscimenti: dall’inclusione nella guida
alle migliori jazz venues del globo stilata
dall’internazionale DownBeat Magazine, al podio del Jazzit
Awards nella categoria “Jazz club Italia” da sette anni a questa
parte.
Nuovi appuntamenti Centrodarte19 per un autunno denso di eventi imperdibili tra jazz, elettroacustica, opera multimediale
Dopo l'anteprima, salutata da un grande
successo di pubblico, con il concerto dei Four Blokes di Louis Moholo-Moholo,
si prepara un fittissimo autunno per Centrodarte19: ben quattordici
serate si svolgeranno da qui a fine dicembre, offrendo una gamma di occasioni
d’ascolto mai come quest’anno fitta di proposte, che vanno dal jazz alla musica
strumentale/elettroacustica, alla performance solistica, all’opera multimediale.
“Molti
anni fa un amico mi invitò ad ascoltare una registrazione in cui
suonavano due bassisti, Jimmy Garisson e Reggie Workman. Il brano era
India di John
Coltrane. Da quel momento, dopo aver ascoltato quella musica ed
essere entrato in contatto con quel suono, ho deciso che avrei
suonato il contrabbasso”
Si
esprime così il contrabbassista Roberto Bonati in un breve estratto
dalle note di presentazione del suo ultimo album Vesper
and Silence inciso
per l'etichetta Parma
Frontiere. Dopo
varie esperienze con orchestre e più o meno piccoli ensemble (di lui
ho già scritto in questo blog recensendo il suo Heureux
Comme Avec Une Femme,inciso
con la cantante Diana Torto nel 2014, potete leggerne qui la
recensione) Bonati confeziona un album registrato dal vivo in una
location quasi magica: l'Abbazia di Valserena, magnificamente adatta
al layout espressivo del contrabbassista. Si tratta di una chiesa
del XIII secolo, situata nella periferia nord di Parma dove il 20
luglio del 2017, davanti ad un pubblico attento, Bonati ha proposto i
dodici brani che costituiscono la selezione musicale di questo cd.
Il
tutto attraverso un rapporto simbiotico con il suo contrabbasso e
l'utilizzo di un linguaggio variegato che incorpora modalità
espressive di vari generi musicali che danno l'esatta dimensione
delle potenzialità sonore del contrabbasso e di quella che è, così
come la definisce lo stesso musicista parmense, la sua reale anima
musicale.
L'apertura è con la title track, che mette in evidenza un
approccio fisico con lo strumento, come un voler prenderne contatto,
saggiandone le peculiarità più acerbe. Poi dopo una sorta di loop
elettrico ecco elevarsi, nell'atmosfera intimamente rarefatta dell'
Abbazia, una delicata melodia. Il musicista ha impugnato l'archetto, il suono
sembra danzare negli ampi spazi e fra le arcate del tempio. La
successiva “Morning On A Winter Shore” in continuità con la
precedente ha umori improvvisativi, è incalzante, estrosa. La
traccia n.4 “An Angel Game” ha un andamento classico prima che
Bonati metta da parte l'archetto e ci presenti il suo contrabbasso
jazz con “Mr on Hammer on”. Un brano dall'urgenza espressiva
debordante che trasmuta in divenire nella lirica, fluida e
ritmicamente sostenuta “October 13th” brano dalla struttura
tipicamente jazz con esposizione del tema, improvvisazione e ripresa
del tema. Poi è “Campane” a sorprendermi, un'apoteosi tra
musicista e strumento tra svariate mutazioni di umori e ritmi,
dall'etnico al jazz più avanzato. E come non citare la ricerca di
timbri e suoni sperimentali di “Trumpeting and Dance” e così
fino alla fine non si riesce a rimanere insensibili ad un'opera
veramente riuscita e straordinariamente interessante.
In definitiva questo
lavoro di Roberto Bonati si colloca tra i migliori album fin qui prodotti, in europa ed oltre oceano, nel 2019.
Il chitarrista Bill Frisell ha coniugato nel tempo la sua espressività musicale in innumerevoli declinazioni cercando e trovando commistioni con vari generi ed oggi è certamente un'icona di grande riferimento per il jazz contemporaneo e non solo. In questi ultimi due anni il suo incontro con il giovane, ma ormai affermato contrabbassista, Thomas Morgan ci ha regalato due splendidi album, Small Town e questo Epistrofy, entrambi registrati dal vivo al Village Vanguard di New York nel marzo del 2016. Il primo uscito nel 2017, il secondo rilasciato in questo 2019 e di cui mi occupo qui di seguito.
Con una selezione di nove brani che mette insieme alcune ballads del pregiato songbook americano, noti standard del jazz, una perla dalla sua collaborazione con il batterista Paul Motian e la ripresa, come già era avvenuto in Small Town, di un brano tratto dalla colonna sonora della serie televisiva dedicata a James Bond, il duo Frisell / Morgan ci immettono in una dimensione intima e raffinata in cui ogni brano è cesellato con personalissima maestria e ricercatezza. Episodi sonori che il linguaggio delicato e l'esposizione analitica di ogni parte scritta o improvvisata, a secondo dei casi, rendono esclusivi. Dall'iniziale, a dir poco deliziosa "All in Fun" del 1939 a firma Jerome Kern, alla conclusiva gemma"In the Wee Small Hours of the Morning", scritta da David Mann nel 1955 per Frank Sinatra, è tutto un susseguirsi di fraseggi lirici, di dialoghi compiacenti, di invenzioni inedite nate tra le note risapute di questi classici senza tempo. In tutto questo Frisell e Morgan sanno dove incrociarsi, dove affiancarsi, dove l'uno andrà a chiudere la frase dell'altro. Tra inflessioni jazz, sconfinamenti blues, spruzzate di tex-mex e melodie incorniciate, eccoli portare in trionfo il medley "Wildwood Flower / Save The Last Dance For Me" inaspettato e godibile; l'estasi soprannaturale di "Mumbo Jumbo" pescata nel repertorio del trio Paul Motion, Joe Lovan, Bill Frisell, dove si va oltre ogni canone di risaputa musicalità e si celebra la grandezza del grande batterista; l'ebrezza nostalgica dell'indomabile Bond in "You Only Live Twice" e il fascino senza tempo di un classico di Billy Strayhorn prima di finire imbrigliati nella fitta ragnatela ritmica della title track o scoprire di essere preda dell'avvolgente feeling di "Pannonica".
C’è
una musicista unica nel panorama musicale contemporaneo con una ampia
visione del jazz che spesso travalica per invadere altri orizzonti
espressivi. E’ la pianista Satoko Fujii, sicuramente prolifica più
di quanto si possa immaginare, con le sue orchestra sparse in varie
parti del mondo, i diversi gruppi di cui è parte, il sodalizio con
Natsuki Tamura, suo compagno di vita e le collaborazioni più o meno
durature con vari musicisti. Lo scorso anno ha superato ogni
aspettativa realizzando un album al mese per dodici mesi e celebrando
in questo modo i suoi sessantanni.
Ad
oggi la sua vena espressiva non mostra segni di cedimento se è vero
che ha già pubblicato un nuovo album che, allo stesso modo della sua
prima uscita del 2018, è un lavoro in totale solitudine. Questo
recente Stone è però totalmente diverso dal solo
dello scorso anno che evidenziava la vena lirica della pianista
nipponica, è un album di ricerca, di approfondimento delle
potenzialità espressive del pianoforte. Un gioco di invenzioni
sonore, contaminando ogni parte dello strumento, generando un’
espressività che oltrepassa gli aspetti tradizionali e libera rumori
ambientali e inusuali, magari attraverso l’uso di vari oggetti che
nulla hanno a che vedere con uno strumento musicale.
E
allora accade che, ad esempio, la sua mano destra lavori sulla
tastiera e la sinistra si intrufoli fra le corde interne o viceversa.
Si inizia con “Obsius” minimalista, scarna e un po’ spettrale,
seguita da “Trachyte” un impulso ostinato come un pensiero fisso
e minimi segni di presenze umane. All’improvviso una parentesi
lirica “River Flow” che trascende la cruda e rumorosa realtà
della successiva “Lava” rumore di tuoni prima che giunga la
magia dei tasti bianchi e neri. E allora è una festa, un diluvio di
note, la materia è diventata arte. E ancora “Icy Wood” un
feedback, una nota, un fraseggio, un suono dal cuore dello strumento,
una melodia che prova a prendere vita e il pianoforte conquista la
scena. Sarà così fino alla fine, tra suoni distorti, ritorni al
minimalismo, rumori urbani e lampi di liricità.
Ed
è la sua arte, l’arte di una musicista, Satoko Fujii, che non pone
confini e limiti alla sua creatività, appassionata e determinata a
ricercare ogni possibile soluzione esplorativa del suono, della
composizione, dell’improvvisazione.
Ultimo recente
lavoro per il trombettista Wadada Leo Smith pubblicato lo scorso febbraio in
concomitanza con l'anniversario della nascita dell'eroina dei diritti civili
americani, Rosa Parks, a cui questo album è profondamente ispirato. Un album
che Smith ha voluto anche dedicare alla sua famiglia e in particolare alle sue
otto figlie, per il supporto che gli assicurano nell'esercizio della sua arte.
Un album con il quale ha voluto anche ricordare gli anni della Creative
Construction Company, gruppo di cui è stato componente accanto ad Anthony
Braxton e agli ormai defunti Leroy Jenkins e Steve McCall.
Sette porzioni sonore che comprendono in totale ben 15 brani, sono la sostanza
di un album variamente articolato dove Smith convoglia il jazz più avanzato, la
musica classica, quella da camera e il canto lirico, nelle loro forme
contemporanee, nonché il suo unico linguaggio espressivo Ankhrasmation qui
codificato in vari panel. Per tutto ciò si attornia del Blue Trumpet Quartet
dove lo troviamo al fianco di Ted Daniel, Hugh Ragin e Graham Haynes; di un
batterista (Pheeroan akLaff); dell' elettronica (Hardedge); di tre vocalist:
un' afro-americana (Karen Parks), un' asiatica (Min Xiao-Fen) e una latina
(Carmina Escobar). E ancora di un quartetto d'archi (RedKoral Quartet) che ha
suonato con lui per l'incisione di Ten Freedom Summers, con Shalini
Vijayan e Mona Thian, violini; Andrew McIntosh, viola; Ashley Walters,
violoncello). In più ad intervallare alcuni di questi brani ci sono i brevi
estratti di “Composition 8D” di Anthony Braxton tratta da For
Alto; il drum set “N.2” tratto da Air Time degli Air;
“Keep On Trucking, Brother (A Message To Bruce)” tratto da Solo
Concert di Leroy Jenkins ed “EP-1” dello stesso Wadada Leo Smith
tratto da Creative Music -1.
Un nutrito numero di musicisti per vari ambiti, quelli su cui l'album si muove,
ad iniziare dalle songs di cui Smith ha scritto oltre la musica anche i testi,
a parte in un caso dove è stato usato un testo della stessa Rosa Parks. “The
Montgomery Bus Boycott – 381 Days of Fire” è la prima delle sette songs
contenute nell'album ed è interpretata da Min Xiao-Fen, accompagnata dal
Redkoral Quartet, con il quale l'interprete asiatica interagisce non solo con
la sua sublime vocalità ma anche con la pipa, strumento musicale a corde
cinese. Racconta, il testo, dei giorni della rivolta, quelli che seguirono a
quel 1° dicembre del 1955, quando la Parks si rifiutò di cedere il suo posto a
sedere ad un bianco sul Montgomery Bus in Alabama.
L'album si apre con l'irruzione di fiati e batteria in un clima teso che
lievita non poco nella successiva “Vision Dance 1: Resistance and Unity” dove
il Redkoral Quartet ed il Blue Trumpet Quartet intrecciano i loro furori
espressivi. L'ambient si dipana attraverso momenti di grande introspezione,
quello creato dai vari brani interpretati dalle tre vocalist, e porzioni
esclusivamente strumentali dove si susseguono scrittura e improvvisazione.
Interpretazioni struggenti, attraverso il canto lirico, che toccano argomenti
quali la conquista della libertà, l'esercizio della democrazia, il profondo
rispetto per ogni essere umano; interludi sonori che si alternano alle
interpretazioni vocali sintetizzando, in un'unica espressione musicale, varie
forme espressive all'interno un mosaico così magnificamente tracciato da
risultare immenso ma meravigliosamente racchiuso, con razionalità e misura, in
un'opera unica e irrinunciabile.
Altro
evento da non perdere a Padova per il prossimo venerdì 24 maggio
2019 quando, ancora a cura del Centro d'Arte degli Studenti
dell'Università di Padova, alla Sala dei Giganti al Liviano
arriveranno Satoko Fujii e Myra Melford due esponenti dell'avant
jazz. In concerto in duo così come nel loro album registrato dal
vivo al Maybech Studio di Berkeley in California il 14 settembre del
2007 e poi pubblicato nel 2009 dalla Libra Records.
Mi
piace qui riproporvi la mia recensione dell'album che scrissi
quell'anno per Il Giornale della Musica pubblicata sul numero
9 del settembre 2009.
ll Top Jazz 2018 ha eletto Franco D'Andrea musicista dell'anno
premiando nel contempo Intervals I, inciso in ottetto, come
migliore disco italiano dell'anno. Un verdetto che arricchisce il già cospicuo
palmarès del pianista di Merano che ha di fatto collezionato, nell'ambito del
riconoscimento assegnato annualmente dalla rivista Musica Jazz, ben
12 Top Jazz come miglior artista italiano, cinque per il migliore album e due
per la migliore formazione. Riconoscimenti sicuramente strameritati dal
nostro mentre lo scorso novembre , come già annunciato al momento
dell'uscita dell'album premiato, veniva pubblicato il secondo capitolo del
progetto, ovvero, Intervals
II.
Se avete letto la recensione e se conoscete Intervals I saprete che
in esso è contenuta la registrazione del concerto tenuto dall'ottetto al Parco
della Musica di Roma il 21 marzo del 2017,mentre in questo
secondo capitolo è inclusa la relativa sessione di prove svoltasi il pomeriggio
dello stesso giorno. E' un'interessate scelta, quella fatta da D'Andrea, che
intende così mostrare come cambia l'approccio ai brani e quindi le due
performance in relazione agli ambient in cui si svolgono. E mi viene da
evidenziare, in particolare, la variabilità delle dinamiche fra l'una e l'altra
incisione. In Intervals I l'ottettosembra viaggiare
spedito senza guardarsi troppo intorno; in Intervals II D'Andrea e
soci appaiono impegnati nell'approfondimento di quella sintesi esclusiva e
riuscita fra passato e presente, fra guardarsi indietro e nello stesso tempo
sporgersi verso il futuro che è poi l'essenza della filosofia jazz
del musicista di Merano. Due facce, in qualche modo diverse, della stessa
medaglia ma egualmente interessanti ognuna per le peculiarità che la
distinguono dall'altra.
Rimandandovi a questo punto alla mia recensione di Intervals I, che potete
leggere qui, in
questo secondo capitolo ritroviamo naturalmente la stessa formazione, con
D'Andrea affiancato da Andrea Ayassot ai sax alto e soprano; Daniele D'Agaro al
clarinetto; Mauro Ottolini al trombone; Enrico Terragnoli alla chitarra; Aldo
Mella al contrabbasso; Zeno De Rossi alla batteria e Luca Roccatagliati alle
elettroniche. E ritroviamo il medesimo layout espressivo dell'ottetto, ultimo e
recente traguardo di un percorso che D'Andrea svolge da anni forte della sua
ampia cultura musicale e dell' inesauribile voglia di innovare il suo verbo
jazz.
Nel progetto Intervals il
nostro è particolarmente concentrato sulle cosiddette aree intervallari ossia
temi, frasi musicali, riff che diventano punti di partenza di un'
improvvisazione collettiva e di un'interazione a cui prendono parte tutti i
componenti dell'ottetto e in cui si mescolano sonorità timbriche di varia
estrazione. E' un caleidoscopio sonoro ed espressivo inedito che si sviluppa in
modo estemporaneo sia quando si eseguono brani dai temi già ben definiti come
“Traditions n.2” e sia quando ci si imbatte nell'ostinazione ritmica di
“Monodic”. Brani in cui tutto ha origine da brevi spunti o micro intuizioni che
diventano punti di partenze di quelle improvvisazioni di cui scrivevo prima. Penso
ad “Intervals 5” abrasiva e incalzante, alla frenetica “Intervals 6” ma anche a
“Air Waves” una tavolozza sonora assolutamente imprevedibile nelle sue
evoluzioni e nelle sue debordanti inflessioni. E ancora come non evidenziare la
geniale e contaminata riproposizione di una delle perle del repertorio di Lenny
Tristano, quella “Turkish Mambo” nota anche perché per inciderla, per la prima
volta nella discografia jazz di quei tempi, siamo nel 1955, viene utilizzata la
registrazione multitracce.
Potrei dilungarmi ancora a descrivere altri episodi di questa
produzione ma mi fermo qui per lasciarvi il piacere di scoprire da voi le
magnificenze di “Intervals II” un’altra tappa del più recente progetto di
Franco D’Andrea.
Il giro del mondo in…100 giorni: quelli del festival Crossroads, che celebra la sua ventesima edizione con una cifra tonda e altisonante, coinvolgendo oltre 500 artisti in più di 70 concerti, sparsi su tutto il territorio dell’Emilia-Romagna. Un vero festival itinerante non solo nelle scelte artistiche ma anche nel continuo spostamento da un estremo all’altro della regione passando per oltre venti comuni. Dal 28 febbraio al 7 giugno, star e nuove leve del jazz, dellatin, delle contaminazioni etniche e delle più varie musiche improvvisate saranno on the road lungo le strade emiliano-romagnole. Simbolo altisonante degli incroci tra stili, culture e geografie è il duetto di pianoforti che riunisce due stelle come Stefano Bollani e il cubano Gonzalo Rubalcaba, che suoneranno assieme in prima assoluta a Piacenza (27 marzo, Teatro Municipale): una prima mondiale che è anche la loro unica data italiana.
Crossroads 2019 è organizzato come sempre da Jazz Network in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna e con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e di numerose altre istituzioni.
Mentre il nuovo album di Rosa Brunello Y Los
Fermentos è in uscita o forse è già uscito, dipende da quando leggete questa
recensione, voglio comunque raccontarvi di questo Volverse, terzo album del gruppo della contrabbassista già
apprezzata nell’ambito degli Omit Five di cui potete leggere qui e qui le
relative mie recensioni.
Questa è la terza opera per la musicista veneta, dopo
i già apprezzati “Camarones A La Plancha”e “Upright Tales” realizzati con formazioni diverse, il primo in
quintetto, il secondo con Y Los Fermentos, gruppo formato oggi da Alessandro Presti alla tromba; Luca Colussi alla batteria, Filippo Vignato al
trombone e all'elettronica e dalla stessa Brunello al contrabbasso.
Un album
registrato dal vivo alla Casa del Jazz di Trieste nel febbraio del 2017 e
pubblicato poco meno di un anno fa. Un album di modern jazz con una selezione
musicale che alterna a composizioni dalla struttura legata alla tradizione brani dall'articolazione variabile, con sonorità arricchite dalle
manipolazioni elettroniche di Vignato. La leader è il fulcro ritmico di
riferimento del gruppo, lo fa con una presenza
determinata ma non invadente che, accanto al drumming fantasioso, puntuale e
raffinato di Colussi, completa una sezione ritmica di gran pregio.
I due fiati
della coppia Presti-Vignato celebrano innanzitutto l'essenza lirica dei temi,
quattro dei quali a firma della Brunello ed uno ciascuno a firma Vignato e Colussi, per poi concedersi spazi
improvvisativi, sempre pianificati nella struttura dei brani, alimentando così
le dinamiche espressive del combo.
Il
tutto è riscontrabile in brani come “Christamas Tree” introdotto dal solo di
Colussi e dai luminosi fraseggi della tromba di Presti; “Pina Bausch”
ritmicamente sostenuto, con il riff borbottante di Vignato contrappuntato dalla
tromba di Presti. Un brano che si sviluppa in una costante e variegata mutabilità
di ambient e di ritmi. E poi la title track, rarefatta e minimalista nell’intro, lievita velocemente d’intensità
interattiva fino a formare un magma sonoro da cui, quasi magicamente, prende
corpo un tema dai chiari influssi mediterranei che, intervallato da porzioni
improvvisative, porta alla fine del brano.
Gli applausi del pubblico e la presentazione dei musicisti del
gruppo, ad opera della stessa Brunello, chiudono un album di pregevole fattura che difficilmente vi
stancherete di ascoltare.
Non so quanti di voi
conoscano Hale Smith, compositore classico, però per raccontarvi di questa
pubblicazione di Eric Dolphy, sassofonista, clarinettista e flautista, occorre
proprio iniziare da lui. Era l'aprile 1964, quando Dolphy si accingeva a
partire per un tour europeo come parte del gruppo di Charles Mingus, decidendo
di lasciare a Smith una valigetta dove insieme ad alcuni effetti personali
erano conservati delle incisioni relative alle sessioni del 1963 al Music
Makers Studio di New York.
Dolphy, come molti di noi
sanno, da quel tour non tornò più perché un malore, a Berlino, pose fine alla
sua vita e privò la scena jazz di quei tempi di uno dei più grandi musicisti
mai esistiti. La valigetta per mano di Smith finì
sotto la preziosa custodia del flautista James Newton e una parte di quei
nastri registrati sotto la produzione di Alan Douglas, non facenti parte delle
selezioni incluse negli album di Dolphy, Iron Man e
Conversations, furono poi dati nel 2016 da Newton a Zev Feldman della Resonance
Records, grande espolaratore e ricercatore di tesori musicali inediti perché
dimenticati nei polverosi e crepati scaffali di studi di registrazione oramai
dismessi. La conseguenza di questo passaggio da Newton a Feldman, di una parte
dei nastri contenuti in quella famosa valigetta di Dolphy (ovvero le copie mono
di quelle registrazioni) sono ora un triplo vinile uscito a Novembre e un
cofanetto di tre cd edito lo scorso gennaio. Ad entrambe le edizioni si
accompagna un prezioso libretto denso di foto ma anche di scritti tra i
quali quelli a firma di Newton, Feldman e ancora testimonianze dell'arte e
delle virtù di strumentista di Dolphy, espresse da musicisti come Coltrane,
Mingus, Coleman, Threadgill, Steve Coleman, Nicole Mitchell e tanti
altri.
Ma veniamo all'essenza
vera e propria di quest'opera, ovvero alla selezione musicale in essa
contenuta: tre cd per complessivi 19 brani di cui gli ultimi sette, quelli
contenuti nel terzo cd, alternative takes di altrettanti brani distribuiti negli
altri due. Ad accompagnare Dolphy all' alto
sax, flauto e clarinetto basso, fior di musicisti come William "Prince" Lasha al flauto; Huey
"Sonny" Simmons all’ alto sax,Clifford Jordan al sax soprano; Woody Shaw alla tromba; Garvin Bushell
al fagotto; Bobby Hutcherson al vibrafono; Richard Davis e Eddie Kahn al
contrabbasso; J.C. Moses e Charles Moffett alla batteria.
La saga
si apre con la festosa e danzante “Jitterbug Waltz” con in primo piano le
evoluzioni flautistiche del nostro. Seguono la latineggiante “Music Matador” e l’accorata e solitaria preghiera
d’amore di “Love Me” e ancora il
duetto straripante con Davis, in “Alone
Togheter” nonché le struggenti note delle due parti
inedite di “Muses for Richard Davis”. La febbre sale con la straripante “Iron Man”
e i brividi sopraggiungono all’ascolto di “Come Sunday” ancora in duetto
con Davis. Nel secondo cd troviamo l’immensa
“Burning Spear” altro esempio della grandezza di Dolphy e la trascendenza
sonora di “Ode To Charlie Parker” una composizione di
Jaki Byard ancora in duetto. Il secondo cd si chiude con la
bonus track “A Personal Statement” scritta da Bob James e registrata nel marzo del 1964 che include il contributo
vocale di David Schwartz.
Le sfaccettature della
musica di Dolphy sono tante, come le innovazioni e le intuizioni che nella sua
pur breve carriera ha saputo esprimere, lasciando nella storia del jazz
un’impronta fondamentale per l’evoluzione di questo genere musicale.
Quest’opera che Feldman e Newton hanno fortemente voluto ora è alla portata di
tutti noi appassionati del jazz e credetemi è sicuramente irrinunciabile.
A poco più di un mese dalla conclusione della stagione 2018, il Centro d’Arte torna a proporre la sua rassegna di musiche nuove e nuovissime, un cartellone sempre ricco di occasioni di scoperta per orecchie curiose e irrequiete. La proposta del Centro d’Arte parte da una concezione unica, che da sempre si sottrae alla logica della semplice distribuzione, ma è piuttosto un invito rivolto al pubblico a partecipare e condividere la ricerca che i curatori conducono insieme agli artisti. Musiche diverse, che sfidano generi ed etichette, vengono proposte in nove serate – ma altre ne seguiranno dopo la pausa estiva – a illustrare i molteplici linguaggi della contemporaneità, dal jazz alla composizione, dall’improvvisazione alla ricerca elettroacustica.
Radicato in una storia che si intreccia fin dalle sue origini a quella dell’Università, ma anche della vita musicale di una Padova sempre aperta sulle più vivaci esperienze internazionali, il Centro d’Arte propone sempre progetti originali, intrecciando collaborazioni dentro e fuori la città, con festival e rassegne affini e strutture di produzione attrezzate come SaMPL: il laboratorio di eccellenza del Conservatorio per il trattamento e la diffusione del suono che trasforma l’Auditorium cittadino in una formidabile macchina del suono per esperienze d’ascolto immersive. Questo è specialmente il caso della rassegna di ‘aperitivi acusmatici’ RADIA, che corre parallela ai concerti e offre rari ascolti in una dimensione conviviale.
Nel 2019 il Centro d’Arte muoverà dalla splendida Sala dei Giganti all’atmosfera raccolta del Torresino e all’Auditorium Pollini un pubblico sempre più curioso e consapevole, che sta crescendo in misura incoraggiante, anche grazie a una politica volta a favorire la massima accessibilità, specie ai giovani.
Centrodarte19 si apre l’1 febbraio nella storica cornice, come è ormai tradizione, della Sala dei Giganti, dove il Centro d’Arte è di casa da sempre. In scena gli Heroic Enthusiasts, due artisti ben noti al pubblico di Padova, ovvero il pianista Craig Taborn e il percussionista Dave King (già col trio Bad Plus). Un duo inedito, al suo debutto in Italia proprio al Centro d’Arte, le cui trame si possono soltanto immaginare alla luce delle dense biografie di entrambi, e che sull’idioma jazz innestano visioni sonore di molti e diversi mondi.