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mercoledì 13 marzo 2019

Intervals II

Franco D'Andrea Octet

Parco della Musica



di 
Giuseppe Mavilla

ll Top Jazz 2018 ha eletto Franco D'Andrea musicista dell'anno premiando nel contempo Intervals I, inciso in ottetto, come migliore disco italiano dell'anno. Un verdetto che arricchisce il già cospicuo palmarès del pianista di Merano che ha di fatto collezionato, nell'ambito del riconoscimento assegnato annualmente dalla rivista Musica Jazz, ben 12 Top Jazz come miglior artista italiano, cinque per il migliore album e due per la migliore formazione. Riconoscimenti sicuramente strameritati dal nostro mentre lo scorso novembre , come già annunciato  al momento dell'uscita dell'album premiato, veniva pubblicato il secondo capitolo del progetto, ovvero, Intervals II. 

Se avete letto la recensione e se conoscete Intervals I saprete che in esso è contenuta la registrazione del concerto tenuto dall'ottetto al Parco della Musica di Roma il 21 marzo del 2017, mentre in questo secondo capitolo è inclusa la relativa sessione di prove svoltasi il pomeriggio dello stesso giorno. E' un'interessate scelta, quella fatta da D'Andrea, che intende così mostrare come cambia l'approccio ai brani e quindi le due performance in relazione agli ambient in cui si svolgono. E mi viene da evidenziare, in particolare, la variabilità delle dinamiche fra l'una e l'altra incisione. In Intervals I l'ottetto sembra viaggiare spedito senza guardarsi troppo intorno; in Intervals II D'Andrea e soci appaiono impegnati nell'approfondimento di quella sintesi esclusiva e riuscita fra passato e presente, fra guardarsi indietro e nello stesso tempo sporgersi verso il futuro  che è poi l'essenza della filosofia jazz del musicista di Merano. Due facce, in qualche modo diverse, della stessa medaglia ma egualmente interessanti ognuna per le peculiarità che la distinguono dall'altra. 

Rimandandovi a questo punto alla mia recensione di Intervals I, che potete leggere qui, in questo secondo capitolo ritroviamo naturalmente la stessa formazione, con D'Andrea affiancato da Andrea Ayassot ai sax alto e soprano; Daniele D'Agaro al clarinetto; Mauro Ottolini al trombone; Enrico Terragnoli alla chitarra; Aldo Mella al contrabbasso; Zeno De Rossi alla batteria e Luca Roccatagliati alle elettroniche. E ritroviamo il medesimo layout espressivo dell'ottetto, ultimo e recente traguardo di un percorso che D'Andrea svolge da anni forte della sua ampia cultura musicale e dell' inesauribile voglia di innovare il suo verbo jazz. 

Nel progetto Intervals il nostro è particolarmente concentrato sulle cosiddette aree intervallari ossia temi, frasi musicali, riff che diventano punti di partenza di un' improvvisazione collettiva e di un'interazione a cui prendono parte tutti i componenti dell'ottetto e in cui si mescolano sonorità timbriche di varia estrazione. E' un caleidoscopio sonoro ed espressivo inedito che si sviluppa in modo estemporaneo sia quando si eseguono brani dai temi già ben definiti come “Traditions n.2” e sia quando ci si imbatte nell'ostinazione ritmica di “Monodic”. Brani in cui tutto ha origine da brevi spunti o micro intuizioni che diventano punti di partenze di quelle improvvisazioni di cui scrivevo prima. Penso ad “Intervals 5” abrasiva e incalzante, alla frenetica “Intervals 6” ma anche a “Air Waves” una tavolozza sonora assolutamente imprevedibile nelle sue evoluzioni e nelle sue debordanti inflessioni. E ancora come non evidenziare la geniale e contaminata riproposizione di una delle perle del repertorio di Lenny Tristano, quella “Turkish Mambo” nota anche perché per inciderla, per la prima volta nella discografia jazz di quei tempi, siamo nel 1955, viene utilizzata la registrazione multitracce. 

Potrei dilungarmi ancora a descrivere altri episodi di questa produzione ma mi fermo qui per lasciarvi il piacere di scoprire da voi le magnificenze di “Intervals II” un’altra tappa del più recente progetto di Franco D’Andrea.

giovedì 14 febbraio 2019

Volverse

Rosa Brunello Y Los Fermentos

Cam Jazz




di  
Giuseppe Mavilla

Mentre il nuovo album di Rosa Brunello Y Los Fermentos è  in uscita o forse è già uscito, dipende da quando leggete questa recensione, voglio comunque raccontarvi di questo Volverse, terzo album del gruppo della contrabbassista già apprezzata nell’ambito degli Omit Five di cui potete leggere qui e qui le relative mie recensioni. 

Questa è la terza opera per la musicista veneta, dopo i già apprezzati “Camarones A La Plancha”  e “Upright Tales” realizzati con formazioni diverse, il primo in quintetto, il secondo con Y Los Fermentos, gruppo  formato oggi da Alessandro Presti alla tromba; Luca Colussi alla batteria, Filippo Vignato al trombone e all'elettronica e dalla stessa Brunello al contrabbasso. 

Un album registrato dal vivo alla Casa del Jazz di Trieste nel febbraio del 2017 e pubblicato poco meno di un anno fa. Un album di modern jazz con una selezione musicale che alterna a composizioni dalla struttura legata alla tradizione  brani dall'articolazione variabile, con sonorità arricchite dalle manipolazioni elettroniche di Vignato. La leader è il fulcro ritmico di riferimento del gruppo, lo fa  con una presenza determinata ma non invadente che, accanto al drumming fantasioso, puntuale e raffinato di Colussi, completa una sezione ritmica di gran pregio. 

I due fiati della coppia Presti-Vignato celebrano innanzitutto l'essenza lirica dei temi, quattro dei quali a firma della Brunello ed uno ciascuno a firma  Vignato e  Colussi, per poi concedersi spazi improvvisativi, sempre pianificati nella struttura dei brani, alimentando così le dinamiche espressive del combo. 

Il tutto è riscontrabile in brani come “Christamas Tree” introdotto dal solo di Colussi e dai luminosi fraseggi della tromba di Presti; “Pina Bausch” ritmicamente sostenuto, con il riff borbottante di Vignato contrappuntato dalla tromba di Presti. Un brano che si sviluppa in una costante e variegata mutabilità di ambient e di ritmi. E poi la title track, rarefatta e minimalista nell’intro,  lievita velocemente d’intensità interattiva fino a formare un magma sonoro da cui, quasi magicamente, prende corpo un tema dai chiari influssi mediterranei che, intervallato da porzioni improvvisative, porta alla fine del brano. 

Gli applausi  del pubblico e la presentazione dei musicisti del gruppo, ad opera della stessa Brunello, chiudono un album di pregevole fattura che difficilmente vi stancherete di ascoltare.

domenica 3 febbraio 2019

Musical Prophet: The Expanded 1963 New York Studio Session

Eric Dolphy

Resonance



di  Giuseppe Mavilla

Non so quanti di voi conoscano Hale Smith, compositore classico, però per raccontarvi di questa pubblicazione di Eric Dolphy, sassofonista, clarinettista e flautista, occorre proprio iniziare da lui. Era l'aprile 1964, quando Dolphy si accingeva a partire per un tour europeo come parte del gruppo di Charles Mingus, decidendo di lasciare a Smith una valigetta dove insieme ad alcuni effetti personali erano conservati delle incisioni relative alle sessioni del 1963 al Music Makers Studio di New York. 

Dolphy, come molti di noi sanno, da quel tour non tornò più perché un malore, a Berlino, pose fine alla sua vita e privò la scena jazz di quei tempi di uno dei più grandi musicisti mai esistiti. La valigetta  per mano di  Smith finì sotto la preziosa custodia del flautista James Newton e una parte di quei nastri registrati sotto la produzione di Alan Douglas, non facenti parte delle selezioni incluse negli album di Dolphy, Iron Man e Conversations, furono poi dati nel 2016 da Newton a Zev Feldman della Resonance Records, grande espolaratore e ricercatore di tesori musicali inediti perché dimenticati nei polverosi e crepati scaffali di studi di registrazione oramai dismessi. La conseguenza di questo passaggio da Newton a Feldman, di una parte dei nastri contenuti in quella famosa valigetta di Dolphy (ovvero le copie mono di quelle registrazioni) sono ora un triplo vinile uscito a Novembre e un cofanetto di tre cd edito lo scorso gennaio. Ad entrambe le edizioni si accompagna un prezioso libretto denso di foto ma anche di scritti  tra i quali quelli a firma di Newton, Feldman e ancora testimonianze dell'arte e delle virtù di strumentista di Dolphy, espresse da musicisti come Coltrane, Mingus, Coleman, Threadgill, Steve Coleman, Nicole Mitchell e tanti altri. 

Ma veniamo all'essenza vera e propria di quest'opera, ovvero alla selezione musicale in essa contenuta: tre cd per complessivi 19 brani di cui gli ultimi sette, quelli contenuti nel terzo cd, alternative takes di altrettanti brani distribuiti negli altri due. Ad accompagnare Dolphy all' alto sax, flauto e clarinetto basso, fior di musicisti come William "Prince" Lasha al flauto; Huey "Sonny" Simmons all’ alto sax, Clifford Jordan al sax soprano; Woody Shaw alla tromba; Garvin Bushell al fagotto; Bobby Hutcherson al vibrafono; Richard Davis e Eddie Kahn al contrabbasso; J.C. Moses e Charles Moffett alla batteria. 

La saga si apre con la festosa e danzante “Jitterbug Waltz” con in primo piano le evoluzioni flautistiche del nostro. Seguono la latineggiante “Music Matador” e l’accorata e solitaria preghiera d’amore di “Love Me” e ancora il duetto straripante con Davis,  in “Alone Togheter” nonché le struggenti note delle due parti inedite di “Muses for Richard Davis”. La febbre sale con la straripante “Iron Man” e i brividi sopraggiungono all’ascolto di “Come Sunday” ancora in duetto con   Davis. Nel secondo cd troviamo l’immensa “Burning Spear” altro esempio della grandezza di Dolphy e  la trascendenza sonora di  “Ode To Charlie Parker” una composizione di Jaki  Byard ancora in duetto. Il secondo cd si chiude con la bonus track “A Personal Statement” scritta da Bob James e registrata  nel marzo del 1964 che include il contributo vocale di David Schwartz.

Le sfaccettature della musica di Dolphy sono tante, come le innovazioni e le intuizioni che nella sua pur breve carriera ha saputo esprimere, lasciando nella storia del jazz un’impronta fondamentale per l’evoluzione di questo genere musicale. Quest’opera che Feldman e Newton hanno fortemente voluto ora è alla portata di tutti noi appassionati del jazz e credetemi è sicuramente irrinunciabile.


lunedì 22 ottobre 2018

Secondo Solitario

 Alessandro Fedrigo

nusica.org


E' sul finire del 2011 che prende corpo un'idea di Alessandro Fedrigo, bassista. che predilige la chitarra basso acustica. Si tratta di nusica.org, etichetta discografica che ad oggi ha prodotto quattordici album, un catalogo inaugurato proprio dallo stesso Fedrigo con un lavoro per solo basso acustico intitolato Solitario, album di cui potete leggere la recensione qui. A distanza di sette anni arriva Secondo Solitario, nuovo capitolo del progetto del musicista di Treviso, in cui il nostro prosegue la sua esperienza, anche qui in totale solitudine, con uno strumento a quattro corde. E' un Fedrigo in totale simbiosi con il suo strumento, una condizione esclusiva che gli consente di esprimersi nell'intimo dei suoi sentimenti. Ed ecco allora, dopo l'iniziale “Nel vuoto” tutto dedito ad un uso estremo del suo strumento, “Marziana” dedicato alla moglie e “Fetita” scritto per la figlia. Due temi delicati prima sussurrati poi esclamati e pulsati con eleganza e decisione il primo; zigzagando e danzando il secondo, con dentro in entrambi la consueta porzione improvvisativa incastonata a perfezione e mai ostentata più di tanto. Per questo, c'è spazio e opportunità nelle due tracce intitolate semplicemente “Improvvisazione n.4” e “Improvvisazione n.5”. Poi c'è la ripresa di “Hipersteps” scritta dall'amico Nicola Fazzini, compagno di avventure musicali e altro nume tutelare dell'etichetta nusica.org. Una composizione che riprende la sequenza accordiale della famosa “Giant Steps” di Coltrane, qui restituita da Fedrigo in una versione straordinariamente intensa, intrisa della purezza del suono acustico. E ancora “Futuritmi” brano dal riff rockeggiante, scritta per l'XY Quartet, altra espressione della coppia Fedrigo-Fazzini. In chiusura l'articolata e cangiante “Hans” e la ricercata “Due Lune” un pò minimalista nei ritmi ma sofisticata nell'armonia. Il tutto in un lavoro concepito con raro equilibrio nei toni, nei suoni, nei tempi di durata dei brani,  in una riuscita sintesi tra scrittura e improvvisazione.

lunedì 24 settembre 2018

Zero

Matthew Shipp

Esp


di Giuseppe Mavilla

In quartetto, in trio, ma anche in duo, nonché al piano solo, il pianista e compositore Matthew Shipp è da sempre attivissimo sulla scena jazz newyorkese, in questo ultimo album Zero, pubblicato per la Esp in contemporanea con Sonic Fiction, altro album realizzato sempre per la stessa etichetta ma in quartetto con Whit Dickey, Michael Bisio e Mat Walerian, il nostro, reinventa in totale solitudine il concetto di improvvisazione attraverso undici brani tutti autografati. Nessun elemento ispirativo dell'opera, lo Zero del titolo non è una scelta casuale e così l'apertura, con la title track, è densa di fraseggi improvvisati interrotti qua e là da un tema lirico che spiazza per l'intensità espressiva che esplica. E' un musicista, Shipp, che sembra anche questa volta elevare il suo strumento, renderlo maestoso, assolutamente coinvolgente, come accade quando le sue gesta alla tastiera si vestono di una velatura classicheggiante. Ed ecco “Abyss Before Zero” minimalista nell'intro e nella prima parte, tutta in crescendo nella seconda. E' ciò che ritroviamo anche in “Cosmic Sea” che arriva dopo due episodi contrassegnati da un'urgenza espressiva incalzante tanto quanto la ragnatela di note di “Skip and a Jump” che precedono uno dei brani più sofisticati dell'intero album: “Zero Subtract From Jazz” che si apre con un tema accattivante e si eleva in varie direzioni prima di lasciare la scena ai rivoli blues di “Blue Equation”. A chiudere “After Zero” quasi una conseguenza, una deduzione di quanto percorso attraverso i dieci brani che hanno preceduto quest'ultima. Shipp abbandona i risvolti swinganti, le sfumature classicheggianti e le tortuose traiettorie improvvisative sulle quali ci eravamo imbattuti per dare spazio ad un ballad rarefatta, spigolosa e dai toni freddi che a tratti ammicca una debole melodia mentre inciampa su improvvisati ostinati e grovigli di note. 
Uno sguardo al futuro? ..........di certo un altro tassello di pregevole fattura nella discografia di Shipp.

domenica 22 aprile 2018

D'Agala

Sylvie Courvoisier Trio

Intakt


Se si va a leggere la biografia della pianista svizzera Sylvie Courvoisier si scopre con quali musicisti si è trovata a suonare (John Zorn, Mark Feldman, Mary Halvorson, Ingrid Laubrock, Tim Berne, Joey Baron, Joëlle Léandre,Butch Morris, Evan Parker, Nate Wooley, Tomazs Stanko, Susie Ibarra, Wadada Leo Smith) solo per citarne alcuni e quanti album ha inciso (25 da leader e altrettanti come co-leadert) e allora ci si rende conto di quale sia la statura artistica della musicista nata a Losanna ma dal 1998 cittadina di Brooklyn.

Tutto ciò per introdurvi nella sfera artistica della Courvoisier che ha inciso questo album  in trio con Drew Gress al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria. 

Una serie di brani, nove in tutto, ognuno dei quali dedicati ad altrettanti personaggi, a partire dall'iniziale “Imprint Double” dedicata al padre Antoine, percussiva, dirompente, con pause minimalistiche che accennano delicate riflessioni liriche. Brano variegato con aperture pianistiche di ampio respiro che da già l'idea di una musicista che abbraccia, sia nella composizione che nell'interpretazione, vari ambiti come quello del jazz più libero, infatti troviamo “E'clats For Ornette” dedicata ad Ornette Coleman, con i tratti urgenti e free tipici del musicista a cui è ispirata. Ci sono poi elementi del mondo classico e del jazz più avanzato così ben affiancati in “Simone” dedicata alla francese Simon Veil; c'è tristezza e introspezione nella title track, intrisa di minimalismo e dedicata alla pianista Geri Allen, scomparsa nel giugno del 2017. A seguire ancora un omaggio ad una pianista, la conterranea Irène Schweizer, paladina di grandi incursioni in ambito free qui peraltro rappresentate magnificamente, rese vivide e pulsanti da una sezione ritmica, la coppia Gress-Wollesen, veramente esemplare.

Si chiude con la celebrazione di un altro musicista scomparso, il chitarrista John Abercrombie, con “South Side Rules” introdotta dal binomio ritmico e illuminata, di seguito, dal pianismo intenso e cangiante della Courvoisier.

D'Agala è la prova maiuscola di una grande musicista e del suo trio.

Giuseppe Mavilla

mercoledì 18 aprile 2018

Hecate’s Hounds

Dogwood

nusica.org


E’ l’inedito duo italo americano Dogwood a firmare la dodicesima produzione di nusica.org, un duo che di fatto potrebbe definirsi a stelle e strisce vista la residenza newyorkese del musicista, chitarrista italiano, Nico Soffiato, veneto di Padova, ormai da tanti anni cittadino di Brooklyn, New York, e dal contrabbassista Zach Swanson originario del Massachusetts, ma anche lui da tempo a Brooklyn.

Due musicisti che vivono e sono parte della scena musicale di quella città, aperti a varie tipologie di esperienze in ambito jazzistico come Soffiato che fa parte tra l'altro dell' Ost Quartet di cui qui troverete la recensione di un album, mentre Swanson è da sempre attivo per qualsiasi genere di collaborazione musicale. 

In questo album, insieme, danno vita a un dialogo fitto, a volte soffuso, altre volte intrigante, a tratti improvvisato. Un dialogo, comunque, sempre impinguato da una straordinaria voglia di celebrare il jazz attraverso dieci brani originali, autografati, nella maggior parte dei casi, dal chitarrista italiano. È un intreccio sonoro sfaccettato, una ragnatela di note da cui sbucano qua e là accenni di melodie, blues ballad, ricercatezze d'avanguardia e appunti cameristici. 

Lampi di luce e fumosi angoli bui di assoluta introspezione.


martedì 17 aprile 2018

Orbite

XY Quartet

nusica.org


L'undicesima produzione dell'esclusiva etichetta nusica.org è il terzo lavoro discografico dell'XY Quartet di Nicola Fazzini e Alessandro Fedrigo, due dei musicisti più rappresentativi dell'etichetta trevigiana. Rispettivamente al sax e alla chitarra basso acustica, sono affiancati da Saverio Tasca al vibrafono e Luca Colussi alla batteria in un album ispirato alle prime avventure spaziali di cui furono protagonisti i cosmonautici russi e statunitensi e a cui sono intitolati i vari brani. 

Con questo lavoro si fa sempre più definita ed esclusiva l'identità del quartetto e si fa sempre più raffinata e ricercata l'espressività che lo contraddistingue. Un layout in cui si rafforza una certa predisposizione a rendere fluida e articolata l'esecuzione e in cui si riservano notevoli spazi all'improvvisazione. Su questo versante si muovono il vibrafono di Tasca e il sax di Fazzini tra i quali si inserisce puntualmente  anche la chitarra basso acustica di Fedrigo, vero specialista e cultore di questo strumento. Fazzini è chiaramente la vocalità primaria del quartetto, Tasca l'elemento illuminante le traiettorie dello sviluppo del brano e le sinergie tra i vari strumenti; Fedrigo e Colussi deputati alla ritmica che da corpo e vigore alle dinamiche sonore. Quelle che si ascoltano sono otto tracce nate dalle fervide menti di tre dei quattro componenti il quartetto, tre composizioni a testa per Fazzini e Fedrigo e due per Tasca, che danno l'idea di un jazz fortemente ancorato all'esercizio compositivo, una scrittura che apre sempre all'improvvisazione strutturata ad incastro all'interno dei brani. 

In definitiva l' XY Quartet con Orbite continua a tracciare geometrie sonore inedite, un'infuso di ambient cameristico e stratificazioni colemaniane tutte da ascoltare e approfondire, anche attraverso l'ampia documentazione, partiture e altro, disponibile sul sito dell’etichetta.


giovedì 12 aprile 2018

Intervals 1

Franco D'Andrea Octet

Parco della Musica



Dopo le esplorazioni in trio degli ultimi tre album della sua discografia, quelli pubblicati tra l'aprile 2016 e il febbraio 2017, Trio Music vol.1-2-3, Franco D'Andrea riunisce i sei musicisti che con lui hanno suonato in questi lavori e  con l'aggiunta di un chitarrista, forma  un ottetto per un progetto inedito: Intervals 1, registrato dal vivo al Parco della Musica di Roma il 21 marzo 2017 e di cui in autunno verrà riproposta una versione in studio. Otto brani originali concepiti e interpretati, oltre che dallo stesso D'Andrea al pianoforte, da Andrea Ayassot ai sax alto e soprano; Daniele D'Agaro al clarinetto; Mauro Ottolini al trombone; Enrico Terragnoli alla chitarra; Aldo Mella al contrabbasso; Zeno De Rossi alla batteria e Luca Roccatagliati alle elettroniche. 

E' un D'Andrea che apre nuovi orizzonti alla sua musica, che guarda con grande attenzione ad una espressività densa di free, seppure non manca una sorta di strutturazione degli interventi e degli inserimenti che danno vita allo sviluppo dell'idea che sta alla base di ogni brano. E' inoltre un D'Andrea che riporta nell'ottetto quanto già sperimentato in uno dei tre album in trio e più specificatamente nell'ìncontro con il dj Rocca (al secolo Luca Roccatagliati) mentre è totalmente inedito il coinvolgimento del chitarrista Enrico Terragnoli. Il risultato è un album intenso che si apre con un esercizio stilistico del leader che traccia poi le coordinate di quello che sarà il tema del brano che prende forma gradatamente e che si sviluppa in un crescendo vorticoso fino a culminare in una apoteosi corale di libera espressività, prima che tutto si affievolisca per poi scemare. E' invece una sorta di interludio l'intro di “Afro Abstraction” tutto ad appannaggio dei fiati, lamentosi, borbottanti, mentre si fa avanti la ritmica ipnotica, incalzante, ricca di ostinati che intersecano gli interventi svolazzanti di ogni componente l'ottetto. Arduo descrivere tutto ciò che si genera nei 12 minuti di durata del brano che precede la terza traccia “Intervals 2 / m2+m3” che si apre sulle note quasi hard-rock della chitarra di Terragnoli e le elucubrazioni elettroniche di Dj Rocca prima che il tutto si trasmuti in un incedere blues. 

Man mano che l'ascolto scorre di brano in brano ci si rende conto della potenzialità artistica del pianista di Merano di cui non finiremo mai di scrivere anche a costo di annoiare i nostri lettori, un musicista mai appagato di novità e sempre alla ricerca di stimoli nuovi e di sfide intriganti. Nel contesto dell'album in oggetto è straordinaria la capacità sua e dei suoi musicisti di fare sintesi tra tradizione e contemporaneità, basta ascoltare “Intervals 3 / Old Jazz”, di amalgamare suoni elettrici e acustici senza risultare inopportuno e banale, di concepire un'opera certamente unica nella produzione del jazz di oggi. Un musicista che potrebbe sedere sugli allori di una produzione che abbonda di preziose perle sonore a partire da quelle firmate “Perigeo” e che passa ancor prima attraverso un'altra opera unica della sua ampia discografia, quel Modern Art Trio registrato nell'aprile del '70 a Roma insieme a Franco Tonani alla batteria e Bruno Tommaso al contrabbasso. 

Tornando alla realtà di oggi devo aggiungere che D'Andrea con il progetto Intervals interpreta come meglio non potrebbe il concetto di jazz legato alla estemporaneità, ovvero alla sua essenza primaria dell'improvvisazione e quindi connesso alle condizioni ambientali e umorali di ogni singolo musicista. Ed ecco quindi la felice ed opportuna scelta di riproporre in autunno lo stesso progetto, questa volta però attraverso una registrazione in studio, come già anticipato in apertura di questa recensione. 

Nell'attesa godiamoci Intervals 1 una felice intuizione, un'opera di valore assoluto.

domenica 14 gennaio 2018

Harvesting Minds

Filippo Vignato Quartet  

Cam Jazz  


Fino a qualche anno fa si scriveva di Filippo Vignato come di un giovane musicista jazz ricco di talento e molto promettente. Poi sul finire dell'estate 2016 arrivava il suo Plastic Breath in trio con il pianista francese Yannick Lestra e il batterista ungherese Attila Gyarfas e a fine anno il referendum della rivista Musica Jazz lo incoronava “Miglior Nuovo Talento” del Top Jazz 2016. A più o meno dodici mesi dall'uscita di Plastic Breath  ecco Harvesting Minds in quartetto con Giovanni Guidi, Mattia Magatelli e Attila Gyárfás, rispettivamente pianoforte, contrabbasso e batteria, con un album che non ritorna sulle spigolature e sui suoni elettrici del precedente ma viaggia su territori più raffinati utilizzando sonorità prettamente acustiche. Un album che denota una raggiunta maturità compositiva, espressiva e stilistica che il musicista veneto esibisce nelle undici tracce che lo compongono. Il tutto è già evidente nell'intro di piano solo della title track: un tema struggente che ci catapulta nell'universo sonoro di questo album nel quale Vignato sciorina pregevoli melodie. Il suo trombone si esprime con autorevolezza e rara attinenza in ogni situazione, debordante sempre e comunque di una identità sonora che da tempo lo contraddistingue. Coadiuvato come meglio non si potrebbe da Guidi al pianoforte e da una splendida sezione ritmica, sviluppa le sue composizioni tra scrittura e improvvisazione. Brani come “Just Before Leaving” sono insieme alla rassicurante “Home” e alla sofisticata “Neverland Last Days” i migliori esempi di quanto ho appena affermato. Ma non è tutto, perché andando avanti nell’ascolto ci si imbatte in episodi di singolare esclusività che vedono il trombonista vicentino in totale solitudine nell’ironico e clownesco “Dark Glare”;  in tandem con il contrabbasso di Magatelli in “Reflections” e in trio, pianoless, nell’articolata e  conclusiva “Trust”. Il resto è tutto da godere perché con Harvesting Minds il Vignato  degli Omit Five, di cui vi raccontai in questo blog anni fa, ha concepito un album tra i migliori dell’ appena andato 2017.


giovedì 20 aprile 2017

Daylight Ghosts

Craig Taborn

Ecm



Un altro album per l’etichetta Ecm, il terzo, per il pianista americano Craig Taborn questa volta in quartetto con Chris Speed al sax e al clarinetto, Chris Lightcap al contrabbasso e al basso elettrico e con David King alla batteria. Un nuovo ambito dopo il piano solo di Avenging Angel e il trio di Chants. Il climax è quello molto vicino al tipico sound Ecm ma Taborn, che qui fa uso anche di elettroniche, sembra particolarmente ispirato trovandosi ad operare nel cerchio magico di Manfred Eicher. 

Nove brani che formano la selezione dell’intero cd, tutti originali e a firma del leader ad eccezione della traccia n.7, la “Jamaica Farewell” dell’amatissimo Roscoe Mitchell. Un album per certi versi tenebroso, dai toni scuri ma decisamente affascinante per la fluidità di alcuni episodi, come l’iniziale “The Shining One” o per l’imprevedibilità di altri come “Abandoned Reminder” giocato sulle modulazioni di una ballad che in seguito, inaspettatamente, si sviluppa in crescendo attraverso un’essenza improvvisativa collettiva. Quest’ultimo aspetto è insito anche nel fluire dinamico e libero di “New Glory” introdotta dal drumming di King. Accenni lirici, melodie appena tracciate e poi lasciate naufragare tra le onde inerpicanti della sezione ritmica, queste le sfaccettature ricorrenti nell’ascolto della selezione inclusa nel cd. 

Giro di boa con “The Great Silence” traccia n.5 tra l’insinuante intro del clarinetto di Speed e i  risvolti rarefatti del pianoforte del leader, prima che l’intero quartetto riemerga in collettiva assonanza. Il tunnel buio e ridondante, che disegna Lightcamp con il suo contrabbasso in “Ancient” è ostinato, anche quando si illumina dei suoni di pianoforte e fiati e il suo incedere sembra incalzarti. Narrativa e brulicante di fermenti improvvisativi è il reprise di “Jamaican Farewell”  mentre “Phantom Ratio” con il suo ambient iniziale, avvolto di mistero e i percorsi fluenti di ritmo ed umori elettronici che ne seguono, mi conduce alla fine di questo magnifico lavoro. 

Assolutamente da ascoltare e da possedere, questo album di Taborn e compagni si  candida  a raccogliere i fasti di uno dei migliori album di questo 2017.


mercoledì 1 febbraio 2017

A Long Trip / With You

Marco Trabucco

Abeat



Nuovo album per il contrabbassista veneto Marco Trabucco la cui biografia racconta di folti studi e approfondimenti con illustri insegnanti come Glauco Vernier, in prima istanza, poi successivamente Curtis Lundy e Marc Abrams, nonché di esperienze anche in ambiti non esclusivamente jazz. Un album inciso in quintetto con un trio di base che include oltre al leader, al contrabbasso, anche Matteo Alfonso al pianoforte e Marco Carlesso alla batteria e con ospiti Gianluca Carollo alla tromba e Andrea Grezzo alla chitarra.

E’ un jazz, quello di Trabucco e del suo combo, senza pretese innovative, senza spigoli improvvisativi, concepito con un gusto, condensando musicalità e armonia ed eseguito con raffinata professionalità strumentale. La scrittura dei sette brani inclusi nel cd è di pregevole qualità e i temi sono coinvolgenti ed evocativi. 

Il trittico iniziale: “Cicles” “Otranto” e la title track, include gli elementi appena citati e pone in evidenza il fine interplay che alberga nella dialettica del gruppo, pur nel rispetto dei ruoli di primo piano che vengono riservati a turno al contrabbasso del leader, autorevole, espressivo, impinguato di fine liricità; alla tromba di Carollo, dalle venature struggenti e cool; agli umori blues della chitarra di Grezzo. Il tutto supportato dal raffinato pianismo di Matteo Alfonso, denso di contrappunti, ritmicamente essenziale, in cui il nostro si mostra magnifico cesellatore di architetture sonore di rara fattura. Senza dimenticare il drumming mai esorbitante ma sempre espresso con opportunità disarmante, discreto, ma fondamentale, di Carlesso. I tre brani immergono l'ascoltatore nel poetica musicale del contrabbassista veneto, una poetica che si fa fluida fra accenni bop e dinamiche mainstream in “Green Dance” e che esalta l'anima jazz di Alfonso. 

Poi la snella ma intrigante struttura di “How Did The Cat Get So Fat?” tra parti incalzanti ed interludi ballad che mi accompagna verso la fine di un album che sa sempre farsi apprezzare ogni volta che lo lascio in pasto al mio cd-player.

sabato 14 gennaio 2017

Plastic Breath

Filippo Vignato

Auand                                                                                                                                                           

É noto da sempre come la riuscita di un progetto in campo musicale, così come in altri ambiti, nasca dalla sinergia, dalla comunanza di intenti e dalla condivisione degli obiettivi finali fra tutti i soggetti coinvolti nel progetto stesso. Così ha preso vita e si è sviluppato questo recente lavoro del trombonista veneto Filippo Vignato, classe 1987, già apprezzato nelle file del gruppo Omit Five, di cui potete leggere qui la recensione del primo, omonimo album, nonché del successivo Speak Random. 

Musicista impegnato in svariate collaborazioni, non ultima quella con Piero Bittolo Bon e il quartetto Bread & Fox, Vignato ha incontrato qualche anno fa a Parigi Yannick Lestra e Attila Gyarfas, rispettivamente tastierista e batterista, francese il primo; ungherese il secondo, e da lì l’input, dove un’attiva frequentazione, per la realizzazione del primo album a suo nome in cui, il nostro, accosta le sonorità calde ed acustiche del suo trombone ai suoni plastici del Fender Rhodes di Lestra e al mosaico ritmico di Gyarfas. Si è così realizzata un’idea che covava nella mente del trombonista veneto da molti anni.

Nove composizioni, tutte originali, in buona parte firmate dal musicista italiano, altre cofirmate insieme a Gyarfas e Lestra, che coniugano ricercatezza e interplay in un caleidoscopio di sonorità intriganti e innovative. E’ un trombone borbottante ad aprire le selezioni con “The Meeting” che il leader percorre nel finale con una sinuosa armonia. A seguire “Lev & Sveta” pulsante, ostinato, il suo tappeto ritmico e sonoro accoglie a meraviglia il duttile eloquio di Vignato, gracchiante e filtrato nell’intro, denso di feeling e melodia nella parte centrale. Poi gli spasmi free di “Red Skin Hymn” riportano in auge i bagliori di un certo jazz-rock anni ’80. 

La cifra stilistica del trombonista veneto e del suo trio sembra però essere l’arte del variare di brano in brano l’ambient e le strutture delle sue creazioni musicali ed ecco “Provvisorio” insinuante ballad intensa e accattivante. Ancora più sofisticata, di maggior respiro e adulta appare poi “Windy” mentre nel finale colgono di sorpresa il riff trascinante di “Stop These Snooze” e il minimalismo di “Microscopy”. 

Il trio di Vignato delinea un layout inedito che ha già nella configurazione strumentale di base del combo la sua esclusività. C'è da ipotizzare grandi sviluppi ma nel contempo godiamoci questo bellissimo lavoro, uno dei migliori dell'appena andato 2016.

domenica 27 novembre 2016

Rows and Rows

Keefe Jackson / Jason Adasiewicz

Delmark





Il sassofonista e clarinettista Keefe Jackson, da Fayettevile, in Arkansas, dove è nato, si è trasferito a Chicago nel 2001, di lui ho scritto a proposito di uno dei suoi album di qualche anno fa, A Round Goal, leggetene qui la recensione se ne siete curiosi. Nella città del vento il nostro ha trovato gli stimoli giusti per realizzare i suoi progetti, grazie alle opportune collaborazioni con musicisti come Josh Berman, Dave Rempis, Mike Reed, Jason Roebke, solo per citarne alcuni. Tra questi anche uno dei più rappresentativi vibrafonisti del jazz contemporaneo, ovvero: Jason Adasiewicz. Il frutto della collaborazione in duo, con quest'ultimo, è un album registrato a Chicago nel giugno del 2015. Un album giocato tra scrittura e improvvisazione nell'ambito di nove composizioni originali scritti in massima parte da Jackson e in minor misura da Adasiewicz. L'intento è quello dichiarato senza mezzi termini da i due protagonisti: esplorare le composizioni e da lì generare gli elementi per l'improvvisazione. Quindi nulla di trascendentale e nessun elemento inedito nell'arte di suonare jazz. Eppure quello che ne viene fuori è l'insieme di nove episodi intrisi di pregevoli dialoghi ad iniziare dalla introduttiva “Caballo Ballo” ironica in alcuni frammenti, fatta di batti e ribatti, di fughe e rincorse, di porzioni improvvisate giocate su svariate sfaccettature timbriche. Poi c'è il lirismo incantevole di “A Rose Heading” il brio e le sinuosità di “Swap” gli umori bop della title track, le venature blues di “Putting it On Taking it Off” e tanto altro ancora. Jackson e Adasiewicz viaggiano in perfetta sinergia, si scambiano ruoli e posizioni, si inventano storie sonore intrise di rara bellezza travalicando anche i confini del genere jazz e restituendoci un album di grande levatura e quindi altamente consigliato.

lunedì 21 novembre 2016

The Music Of Carla Bley

Andrea Massaria / Bruce Ditmas

nusica.org


Al traguardo della sua decima produzione l’etichetta nusica.org propone il duo Andrea Massaria, chitarrista, Bruce Ditmas, batterista, alla prese con alcune delle pagine più belle del songbook di Carla Bley. Due le componenti che si evidenziano in questo album: la ricerca sonora sulla sei corde elettrica di Massaria, che si aiuta non poco con l'elettronica, nonchè il drumming fluorescente e dinamico di Ditmas. Due aspetti determinanti nel layout espressivo di questo duo che insieme danno una rilettura inedita delle sei composizioni della Bley. Ma c’è di più, perché le composizioni vengono reinterpretate e reinventate in un ambient che alterna esposizione del tema e improvvisazione, il tutto in un contesto a volte rarefatto, altre volte nervoso. La chitarra di Massaria sa essere lirica, velata di una sottile timbrica old-fashioned, quando espone temi come quello dell'iniziale “Ida Lupino”; incalzante, quando mutando totalmente sonorità la si può scambiare per un organo Hammond, mentre si confronta con il drumming dilagante di Ditmas in “And Now The Queen”. Ma i sei episodi di questo godibile lavoro celano anche le rarefazioni ambientali di “Ohlos de Gato”; gli eloqui sonori e le mutazioni percussive della splendida “Vashkar”; lo struggente tema di “Utuiklingssang” e il magma ritmico di “Batterie”. Un mosaico variegato e affascinante di quadri sonori che fanno di questo lavoro un altro prezioso progetto che esce dalla fertile fucina di arte sonica della trevigiana nusica.org.

martedì 25 ottobre 2016

Chicago Conversations

Peter A. Schmid

Creative Works


Classe ’56, svizzero di nascita e residenza, ha trascorsi importanti con musicisti come Evan Parker, Pierre Favre, Barry Guy. E’ il sassofonista e clarinettista svizzero Peter A.Schmid, infatuato di free e degli umori della windy-city a tal punto che pianificando una pausa nella sua attività professionale di medico è volato a Chicago il 31 agosto del 2014 e, arrivato a destinazione, si è chiuso per un giorno allo Strobe Recording  registrando nell’arco di 24 ore questo album ora edito dalla Creative Works. Ventiquattro tracce tra frammenti sonori e brani veri e propri, a differenziali la durata in termini di tempo, alcuni infatti non superano il minuto, in cui il nostro (clarinetto basso e contrabbasso, sax baritono e sopranino) interagisce con le percussioni di Michael Zerang; il clarinetto basso e il sax tenore di Keefe Jackson; il clarinetto contralto di Wacław Zimpel; le percussioni di Frank Rosaly; il contrabbasso di Albert Wildman; la cornetta di Josh Berman e il trombone di di Nick Broste. Un ventaglio di combinazioni variegate riassumibili in quindici duetti e nove trii, una tendenza chiara verso un ambito dì espressività improvvisata, prevalentemente fatta di sonorità cupe e fragori percussivi. Composizioni che prendono vita istantaneamente alle loro esecuzioni, climi nervosi, timbriche spesso estremizzate, fraseggi imprevedibilmente swinganti quando a confrontarsi sono strumenti a fiato e umori cameristici, il tutto a corredo di una produzione certamente di rilievo e, in assoluto, da ascoltare.

domenica 16 ottobre 2016

America’s National Parks

Wadada Leo Smith

Cuneiform


Da qualche tempo il trombettista Wadada Leo Smith sembra aver indirizzato la sua produzione su due percorsi decisamente diversi l’uno dall’altro. Da una parte incisioni con ensemble più o meno nutriti come ad esempio Ten Freedom Summers o The Great Lakes, dall’altra incontri a due come il recentissimo, qui recensito, A Cosmic Rhythm With Each Stroke, a fianco del pianista Vijay Iyer. Quella di cui vado a raccontarvi è un’opera ispirata dal prestigioso patrimonio dei Parchi Nazionali Americani e di cui si prende cura un’istituzione come la National Park Service, creata cento anni fa con atto del congresso, il 25 agosto del 1916, di cui quest’anno ricorre il centenario. Smith a poco meno di due mesi dal suo settantacinquesimo compleanno si concentra su alcune di queste bellezze naturali e dà alla luce quest’album in compagnia del suo Golden Quintet che lo vede a fianco di Anthony Davis, pianoforte; John Lindberg, contrabbasso; Pheeroan akLaff, batteria ed Ashley Walter, violoncello. Ma ad ispirarlo non è come si potrebbe facilmente pensare la bellezza di questi luoghi, bensì come lui stesso dice ………….”la mia attenzione si concentra sulle dimensioni spirituali e psicologiche dell’idea di mettere da parte riserve per la proprietà comune di cittadini americani”...... e su questo nascono le sei composizioni che occupano i due cd. Di fatto sei componimenti musicali che si sviluppano su vari ambiti, ambiti tra i quali Smith si esprime con determinazione attraverso un interplay dalle varie sfaccettature. Come, ad esempio, in “New Orleans: The National Culture Park USA 1718”, dove l’intro si sviluppa in chiave jazz con una sottile velatura blues, ma non mancano intervalli cameristici in cui il violoncello di Walter è protagonista. E’ comunque Smith ad infiltrare con la sua tromba una dialettica che spesso si fa viscerale, cupa e dai toni gravi in cui Davis al pianoforte lancia lampi di luce accecante e illumina l’orizzonte con la maestosità del suo pianismo. Straordinario anche il contributo del contrabbasso di Lindberg,  più volte in simbiosi con il violoncello di Walter e ai quali si affianca  il drumming superlativo di akLaff.  E’ un lavoro di rara magnificenza e completezza questo di Smith che certifica la grandezza compositiva e la visione artistica di un maestro concertatore e di un grande saggio del jazz contemporaneo.


martedì 4 ottobre 2016

The Bell

Ches Smith  Craig Taborn  Mat Manieri

Ecm


Il batterista Ches Smith si è già rivelato, tra l’altro, attraverso il sue essere membro dei Tim Berne’s Skaneoil nonché da leader del gruppo These Arches. Ora approdato alla Ecm ci propone otto composizioni   a sua firma  eseguite con il pianista Craig Taborn e il violinista Mat Manieri. Il trio si muove attraverso un percorso  contaminato da vari elementi: il genero classico, l’improvvisazione jazz, la ricerca nel filone contemporaneo. L’apertura con la title track vede i tre intersecarsi con impulsi sonori, velati accenni di melodie, eruzioni percussive e laceranti sviolinate. Ma è “Isn’t it Over” due brani più avanti, a tracciare un tema breve ma sufficiente a delineare un tratto danzante che la viola di Manieri, prima, e il vibrafono di Smith , dopo, esplicano come fonte irrorante di una porzione improvvisativa che vedrà il trio in totale simbiosi. Poi il verbo espressivo sembra impinguarsi di ritmo brioso e armonia: è la volta di “Wacken Open Air” intensa, avvolta in un turbinio svolazzante. E’ un layout esclusivo, quello dipanato da Smith, Manieri e Taborn , non etichettabile, fantasioso e cangiante, come gli ambiti in cui si svela “It’s Always Winter Somewhere” quasi barocca in qualche passaggio ma al tempo stesso estrosa e ritmicamente sinuosa. Opera di grande pregio questa di Smith e soci che da qualche settimana dimora indisturbata sul mio player.