lunedì 24 marzo 2014

Meets Zappafrank

Orchestra Spaziale

A Simple Lunch


Ripensare l'opera di Zappa, riscriverne le partiture, riarrangiarne le parti, reinterpretarla alla luce delle esperienze musicali che la storia della musica ha evidenziato in questi anni è di certo una tentazione, un cruccio per ogni musicista attento alla contemporaneità. L'esperienza dell'Orchestra Spaziale di cui vado ad occuparmi è certamente una delle più positive in tal senso e giunge a noi, adesso, grazie all'attività della A Simple Lunch neo etichetta discografica indipendente con sede a Bologna, diretta da Marco Dalpane, bolognese, musicista dalle ampie vedute e dalle mille attività, attento alla classica così come alla contemporanea, al jazz e a tutto ciò che ha a che fare con le sette note. Meets Zappafrank è un progetto nato nel 2000 che, come racconta Giorgio Casadei nelle note di copertina, fu suggerito dal musicologo Giordano Montecchi  nell'ambito della rassegna Il suono e l'onda in programma quell'anno a Reggio Emilia, il quale immagino un omaggio al grande Frank Zappa e identificò nell'Orchestra Spaziale l'ensemble ideale per poterlo realizzare. Un progetto dispiegatosi nei cinque anni successivi con una serie di concerti ed esibizioni pubbliche per poi essere, successivamente in studio, definito con una serie di revisioni e remix fino a renderlo un'opera discograficamente fruibile. Una selezione di undici brani che abbracciano i due periodi più significativi dell'era zappiana ovvero l'esperienza con i Mothers of Invention e quella con il Joe's Garage che fa rivivere lo spirito dell'indimenticabile Frank a partire dall'iniziale “Regyptian Strut” pomposa e dilagante subita seguita dalla dirompente “Let's Make The Water Turn Black” introdotta dal fraseggio lirico del sax tenore di Marco Zanardi e che prelude all' esordio della singolare vocalità di Vincenzo Vasi in “The Torture Never Stops” che ricorda, con la giusta enfasi, quella di Zappa ma senza scontate scimmiottature. Straripante poi, nella seconda parte del brano, il dialogo fra la chitarra di Alessandro Lamborghini e la voce dello stesso Vasi in una orgia sonora lancinante e partecipata. Ogni brano, ogni frazione esecutiva riporta viva e presente la magia del grande genio italo americano, pur nella costante sovrapposizione, alle strutture basi dei brani, di dinamiche jazzistiche che vedono riservare notevoli spazi all'improvvisazione. E’ ciò accade, ad esempio, in “Uncle Meat / Right There” che vede in primo piano la esclusiva dialettica del mai dimenticato Alfredo Impullitti al pianoforte. Sono varie le peculiarità riscontrabili nei vari brani, nella maggior parte dei casi densi di improvvisi cambi di tempo e di ambient, difficili peraltro da descrivere in una recensione, allo stesso modo dei soli, senza rischiare di annoiare il pur dedito lettore. Il tutto per il fatto che nel progetto sono stati coinvolti ben 20 musicisti che si sono alternati nei vari concerti e tra i quali vanno citati Giorgio Casadei che ha curato gli arrangiamenti e la direzione orchestrale oltre a suonare la chitarra elettrica nonchè Marco Dalpane che ha suonato in alcuni brani il pianoforte e le tastiere e curato la produzione insieme a Riccardo Nanni. Quella che mi ritrovo ad ascoltare si delinea come un’opera singolare e coraggiosa che va ascoltata senza pregiudizi e con dovuta attenzione. Solo in tal modo è possibile carpirne la valida essenza.

mercoledì 12 marzo 2014

Yuria's Dream

Adasiewicz / Erb / Roebke

Veto


Ho avuto diverse opportunità, in questi ultimi mesi, di ascoltare le produzioni del sassofonista e clarinettista svizzero Christoph Erb, musicista fino a pochi mesi fa a me sconosciuto e che ho scoperto grazie ad un contatto in rete tracciato nei miei confronti dallo stesso. Questo è il quarto cd di cui scrivo fra quelli da lui realizzati, potete leggere le recensioni dei precedenti pubblicate qui, qui e qui, e anche questo è stato inciso al King Size studio di Chicago questa volta in compagnia di Jason Adasiewicz al vibrafono e Jason Roebke al contrabbasso. Cambiano i compagni di scena, come scoprirete se andate a leggere le precedenti recensioni, ma non il gusto di improvvisare e di dialogare senza nessun canone preordinato. Un incontro fra i tre datato novembre 2013 avvenuto naturalmente nella città del vento, un incontro dilatato attraverso una suite, da cui prende nome il cd, della durata di circa 43 minuti. L'intro è, come logico che sia, quasi da studio, un primo contatto per coordinarsi per trovare territori comuni  in cui l'espressività abbia una precisa relazione. A tracciare il percorso è il tenore di Erb con i suoi fraseggi sinuosi, imprevedibili per dinamica e timbrica, a volte al limite dell'udibile, altre volte soffocati o inaspettatamente lirici, contrappuntati dalle pregevole sonorità del vibrafono e puntellati dal contrabbasso. Ma in questa performance dopo i primi otto minuti si incomincia a respirare un'atmosfera diversa dalle precedenti esperienze che mi sono note nella discografia del musicista svizzero. Avverto una piacevole omogeneità sonora, una convergenza spontanea su un layout esente, quasi totalmente, da spigolature abrasive, un andamento sempre più votato all'intreccio dei ruoli da parte dei tre attori unici dell'atto performante. Dopo poco più di un quarto d'ora, dallo start d'avvio, i tre musicisti proseguono con fluidità nello svolgimento della loro attività d'interazione, lasciando subito dopo spazio ad una pausa minimalista affidata a suoni appena pronunciati. Una breve pausa utile a riprendere l'interplay che vede in primo piano sonorità intense che creano atmosfere surreali, con Erb che passa al clarinetto basso, Roebke che impugna l'archetto e Adasiewicz a chiudere il triangolo con le note cromatiche del suo vibrafono. La parte rimanente ci riserverà ancora porzioni minimaliste, dialoghi in qualche momento più intensi tra fiati e vibrafono ma rimarrà intatta quella fluidità e quella leggerezza dialettica che già si avvertiva fin dall'inizio e che rende questa produzione veramente speciale e riuscita. Un plauso sincero ai tre protagonisti.

martedì 11 marzo 2014

Floodstage

John Hébert Trio

Clean Feed


Il contrabbassista John Hébert riunisce il suo trio con il batterista Gerand Cleaver ed il pianista francese Benoit Delbecq, con i quali ha già inciso il riuscitissimo Spiritual Lover, per dare vita ad un album che accosta le dinamiche afroamericane, ben gestite da un'accorta sezione ritmica, un binomio tra i più attivi sulla scena newyorkese, con il layout espressivo, sicuramente personalissimo, del pianista francese, segnato da una forte influenza della cultura musicale europea. Undici composizioni della quali dieci originali, nove firmate da Hébert e una da Delbecq ai quali si aggiunge la ripresa di “Just A Closer Walk With Thee” brano di gospel tradizionale. Ricercato, e per alcuni aspetti innovativo, il pianismo di Delbeq che spesso fa pensare a Jarrett, già dalla prima traccia “Cold Brewed” dal climax sospeso nella quale il musicista introduce l'uso del sintetizzatore che si aggiunge ai suoi pregevoli fraseggi sulla tastiera acustica. Grande il lavorio sulle quattro corde del contrabbasso di Hébert, pulsante e dialogante mentre Cleaver da par suo cesella ogni passaggio con un accurato e sopraffino drumming. Poi due soffuse ballad “Tan Hands” e “Red House in NOLA” in cui il trio si immerge in un'atmosfera magnificamente aderente al modus operandi di Delbecq. Si passa dalle dinamiche fluide e contrappuntate di “Holy Trinity” prima di arrivare al già citato rifacimento di “Just A Closer Walk With Thee” in cui trovano naturale esplicazione quegli umori blues, che già mi era apparso di avvertire nel pianismo di Delbecq, durante i brani precedenti. Poi è il clavinet a fare la sua comparsa in “Saints” in totale solitudine e con la timbrica di una marimba o di un xilofono, mentre nella successiva “Sinners” rimane in primo piano ma torna la sezione ritmica. Un album questo Floodstage che potrebbe risultare leggermente ostico ai primi ascolti e non rivelare di contro tutta la sua specifica e singolare bellezza, fortemente insita in ognuno degli episodi che compongono la selezione. E allora, se necessario, provate a perseverare, ascolto dopo ascolto e finirete per appassionarvi.

Giuseppe Mavilla

martedì 4 marzo 2014

Twine Forest

Angelica Sanchez & Wadada Leo Smith

Clean Feed


Registrato ai Systems Two Studios di Brooklyn, New York, nell’aprile del 2013, questo incontro tra la pianista Angelica Sanchez e il trombettista Wadada Leo Smith. Otto composizioni originali scritte dalla Sanchez, già componente di uno dei gruppi, l’Organic nella fattispecie, che solitamente accompagnano il trombettista, restituite attraverso un climax rarefatto e introspettivo, di grande respiro intellettuale, che pervade l’intera selezione. La Sanchez è ormai definita la nuova stella nell’universo jazzistico  newyorkese, le sue due produzione Life Between e A Little House sono state recensite favorevolmente da importanti riviste del settore e le sue collaborazioni sono innumerevoli e prestigiose (Paul Motian, Ralph Alessi, Susie Ibarra, Tim Berne, Mario Pavone, Trevor Dunn, Mark Dresser) solo per citarne alcune. Wadada Leo Smith, certamente più noto, è una sorta di filosofo del jazz contemporaneo post-davisiano, il suo layout espressivo travalica la sfera jazz per attingere ad ambiti contemporanei. La sua immensa discografia è ricca di esempi validi e importanti come le più recenti Ten Freedom Summers  e Occupy the World. All’interno di Twine Fores troviamo sprazzi di un intenso dialogo in cui il grado di interazione tra i due protagonisti si alza improvvisamente. La Sanchez espone i temi con fraseggi e attacchi improvvisi riservando grande attenzione verso i volubili umori del trombettista che dal canto suo si conferma profondamente immerso nella pregevole e sopraffina scrittura compositiva della Sanchez. Ampi gli spazi improvvisativi per i due protagonisti che hanno la possibilità in tal modi di spingersi verso territori spigolosi e audaci che testimoniano una concezione moderna, ricercata e singolare del loro fare jazz. “Veinular Rub” ne è un esempio rappresentativo, giocata tra tensioni e rilassamento in un’atmosfera sospesa tra armonia e ricerca di sonorità estreme, mentre nell’intro della successiva “Retinal Sand” il duo si sporge totalmente  verso ambiti d’avanguardia, salvo poi a convogliare insieme, in perfetta sinergia, verso un fitto interplay attraverso una dialettica più standardizzata. “Light Black Birds” esalta la sensibilità musicale della Sanchez in contrapposizione alla forza espressiva di Leo Smith. La sintesi appare magnificamente riuscita anche nella traccia che da il titolo all’album dove la pianista converge, in simbiosi con il suo compagno d’avventura, sulle dinamiche variabili, prima frementi poi armoniosamente placate, di un dialogo intenso e coinvolgente. Un’opera, questo Twine Forest, assolutamente raccomandabile.