giovedì 30 giugno 2011

There Was…

Aram Shelton’s Arrive

 Cleanfeed Records
C’è qualcosa di rassicurante e confortevole che coglie al primo ascolto di quest’album del quartetto Arrive del sassofonista Aram Shelton. Accanto a quest’ultimo, all’alto, scopriamo: Jason Adasiewics, attuale vibrafonista di punta, Jason Roebke al contrabbasso e il notissimo, per via delle sue frequentazioni con Ken Vandermark,  Tim Daisy alla batteria. Il loro jazz è un  assortito mix di sonorità old fashioned  su dinamiche e interazioni strutturate in chiave moderna. Il sax  alto di Shelton dal timbro caldo e dall’incedere sinuoso e le conturbanti acrobazie armoniche del vibrafono di Adasiewics sono gli elementi primari su cui si gioca l’intera produzione che mette  ben in evidenza anche l’apporto determinante e sempre in primo piano della sezione ritmica Robke-Daisy. Il tutto è stato registrato nell’agosto del 2008 allo Shape Shoppe di Chicago, città natale di Shelton dove quest’ultimo ama spesso ritornare  e il tutto è oggi a nostra disposizione grazie al certosino lavoro di ricerca e selezione che da sempre l’etichetta portoghese Cleanfeed mette in atto. La traccia iniziale “There Was…” è all’insegna della fluidità   dopo un’intro segnata dal fraseggio lirico del sax del leader; ritmo e contrappunti, in cui si alternano i soli di sax e vibrafono e dialogo tutto ad opera del trittico Adasiewics-Robke-Daisy. Interessante parentesi improvvisativa in “Lost” traccia n.3 con coinvolti esclusivamente il duo Robke-Daisy che poi lascia spazio ad uno sviluppo in trio e in chiave ritmica con Adasiewics in primo piano per chiudersi con un trascinante solo di Shelton intriso di passionalità e feeling. Un dialogo a due, sax-batteria, risalta piacevolmente nella seguente “Fifteen” che mostra anche timidi trasbordi sonori che mutano subito dopo in atmosfere pacate e riflessive. E’ questa in definitiva la tipica struttura dei brani di Shelton che accostano fraseggi dalla sfaccettatura cool o post bop ad una tendenziale esigenza improvvisativa moderna che trova realizzazione ben congegnata e ben collocata all’interno di ogni singola composizione senza per questo inficiarne una piacevolezza armonica che non viene mai meno e che a volte predomina anche certi dialoghi a due come accade tra vibrafono e batteria nella penultima “Frosted”.

Giuseppe Mavilla 

venerdì 17 giugno 2011

Desert Ship

Satoko Fujii  Ma-Do
 
Not Two Records
Il quartetto Ma-Do è un altro dei tanti progetti che vedono impegnata la pianista Satoko Fujii. Musicista attivissima nell’ambito di un jazz fortemente influenzato da componenti d’avanguardia, la giapponese non ha mai risparmiato energia e dirompenza attraverso i suoi tumultuosi umori, dentro e fuori il pentagramma, in ogni progetto in cui è stata coinvolta. Valido e appropriato suo partner sul palcoscenico, in sala d’incisione e nella vita è il trombettista Natsuky Tamura consolidato componente del quartetto peraltro già alla sua seconda esperienza discografica. A dare manforte alla coppia troviamo:  Norikatsu Koreyasu al basso e Akira Horikoshi alla batteria, tutti coinvolti in una selezione di nove brani, esclusivamente originali e totalmente a firma di quella che è poi nei fatti leader del quartetto ovvero della Fujii. Impeto nervoso e interazione avvinghiata si susseguono alternate a qualche frangente appena riflessivo, riempito da  frasi liriche, ad appannaggio di tromba e pianoforte, che tracciano nel suo insieme una performance fortemente intensa intrisa di una libertà espressiva abbondantemente permissiva. Il tutto nell’ambito di uno schematismo preconfezionato ma indubbiamente necessario per disciplinare le inaspettate ma preventivabili bizzarrie di quattro primi attori nell’esercizio dell’improvvisazione. Un drumming percussivo fluorescente e di grande impatto si accosta ai travolgenti contrappunti  della Fujii al pianoforte mentre la tromba di Tamura sventola il suo infinito campionario di tonalità che arriva  a trasbordare in rumorose e stridenti elucubrazioni. Unico in questo suo proporsi, in un illimitato uso delle potenzialità sonore di uno strumento come la tromba, Tamura non esita a rivelarsi anche come delicato dispensatore di sottili melodie dai risvolti struggenti. Sorprendente anche il ruolo di Norikatsu Koreyasu al basso elettrico che da peso e nerbo alla sfaccettatura hard della band; da sottolineare la ricchezza inventiva della sua improvvisazione su una frase ripetuta al piano dalla leader sulla quale poi si innestano i contributi di tromba e batteria. Solo in chiusura i furori sembrano affievolirsi perché la traccia finale “Vapour Trail” sembra disegnare una sorta di quiete dopo la tempesta con il quartetto che volge verso una dimensione più ambient  sulla quale emerge il pianismo straordinariamente delicato, per certi versi intriso d’oriente e così magistralmente adoperato per l’occasione da questa grande artista del jazz contemporaneo.




venerdì 10 giugno 2011

Enesco Re-Imagined

Lucian Ban & John Hébert

Sunnyside Records
Lucian Ban, musicista contemporaneo rumeno, pianista e apprezzato jazzman anche a livello internazionale, incontra il contrabbassista John Hébert, figura tra le più preminenti dell’attuale jazz newyorkese per un progetto sull’opera del suo conterraneo, compositore e direttore d’orchestra, George Enesco. Quest’ultimo virtuoso di violino, vissuto tra il 1881 e il 1955, e da tempo oggetto di culto a Bucarest a tal punto che in quella città si svolge ogni anno un festival per ricordarlo. Dall’edizione 2009 di questo festival, nato nel 1958, ecco materializzarsi il progetto del binomio Ban-Hébert grazie alla partecipazione di un ensemble messo su dai due autori  e che comprende: Ralph Alessi: tromba, Tony Malaby: sax tenore; Mat Maneri: viola; Albrecht Maurer: violino: Gerald Cleaver: batteria; Badal Roy: tabla e percussioni. E’ una sorta di riproposizione in chiave jazz dell’opera di Enesco attraverso una certosina riscrittura di sette composizioni del musicista rumeno. Si è mantenuto il nucleo primario delle composizioni originali e si è poi proceduto ad un accurato innesto di parti libere che hanno dato modo ai vari solisti di conferire alle partiture una sfaccettatura jazz affiancata alle peculiarità etno-folk che le composizioni  già in natura presentavano. Il cd si apre con “Aria et Scherzino……..” composta nel 1909, una melodia dai contorni struggenti, che ricorda il Morricone di “Nuovo Cinema Paradiso”. E’ un ingresso in punta di piedi nell’universo compositivo di Enesco che prelude a porzioni più effervescenti che trovano l’apoteosi nella conclusiva “Symphony n.4 (Unfinished)…….(1934) che Enesco cominciò a scrivere nel 1928 e mai arrivò ad ultimare, le cui partiture sono state ritrovate negli archivi di un museo a lui dedicato a Bucarest. Nell’esecuzione sembrano convergere e sintetizzarsi magnificamente alcune inedite tendenze velatamente svincolate da schemi esclusivamente classici dell’opera di Enesco e il dna jazz dell’ensemble, mentre l’incompletezza della scrittura costituisce per il gruppo l’intrigante invito ad un libero esercizio improvvisativo. Questa in estrema sintesi l’essenza di un’opera, che realizza una contaminazione magnificamente riuscita tra jazz e classica.

lunedì 6 giugno 2011

Sorapis

Franco D’Andrea Quartet
El Gallo Rojo Records

Fluido nei ritmi, sofisticato nelle armonie, libero nelle interazioni. Così appare questo nuovo lavoro del quartetto di Franco D’Andrea, un combo ormai consolidato e ben delineato nella sua identità. Accanto al pianista di Merano, tra gli esponenti più acuti del miglior jazz italiano e internazionale, troviamo i fedelissimi: Andrea Ayassot (sax alto e soprano); Aldo Mella (contrabbasso); Zeno De Rossi (batteria). Come ormai consuetudine nelle produzioni del quartetto, anche in questo secondo lavoro inciso per l’etichetta “El Gallo Rojo”, avvertiamo un’intensità progettuale ed esecutiva di notevole impatto che pur circoscritta in ambiti decisamente jazzistici si mostra impregnata di un'esclusiva originalità in cui predomina il verbo musicale di D’Andrea. Quest’ultimo sintetizza nella sua poetica  un forte elemento insito nella  tradizione jazz che esplica attraverso dinamiche cool e una certa attitudine all’innovazione che trova un suo materializzarsi nell’esercizio dell’improvvisazione che anche questa volta coinvolge in contemporanea i quattro membri del quartetto. C’è poi quell’ idea, riproposta anche in questo contesto, di legare l’uno all’altro due o tre brani a mò di suite intervallandole con piccole pause riflessive dando così maggiore risalto al fattore  mutabilità che si riflette, con ideale regolarità, nell’aspetto evolutivo che questo jazz si porta dentro. Dall’iniziale trittico di  “Tritoni” – “Seste” – “Old Jazz” al finale ironico di “New Calipso” è tutto un susseguirsi di affreschi sonori che richiamano passato e presente del jazz. Ci imbattiamo così nei colori di “Latin Sketch”, nella riproposizione della ellingtoniana “The Single Petal of a Rose” in una versione totalmente ripensata in chiave moderna e nella controllata avanguardia di “Treble and Bass” senza dimenticare il brano che dà il titolo al cd “Sorapis” che già il maestro aveva inciso in solitudine nel 1980. Ovunque brilla l’incedere di questi quattro musicisti con il pianismo esauriente, fitto e multi sfaccettato di D’Andrea, il timbro caldo e l’andamento brioso del sax di Ayssot a cui si aggiunge l’acume ritmico e interpretativo della sezione ritmica Mella-De Rossi.