domenica 27 novembre 2011

Dogon A.D.

Julius Hemphill

International Phonograph Inc.


Il 2011 sembra essere l’anno delle ristampe importanti nella discografia jazz, ristampe di album essenziali e nel contempo introvabili. Come già accaduto per Intents and Purposes riproposto qualche mese fa e qui recensito, adesso è il turno di Dogon A.D. del sassofonista Julius Hemphill. Stessa etichetta l’ International Phonograph Inc. e stessa presentazione, in forma ridotta ma in rigido e lucido materiale cartonato, di quello che era il contenitore del prezioso vinile pubblicato nel 1972 dalla casa discografica MBARI Records, di cui era proprietario lo stesso Hemphill, che però conteneva solo tre della quattro tracce  a suo tempo registrate in uno studio di ST. Louis nel Missouri. Mancava infatti nell’originale lp il brano “The Hard Blues” che poi fu inserito nel successivo album di Hemphill  Coon Bid’ness inciso per l’Arista / Freedom Records nel 1975. Ricompattata quindi l’originale opera, in questa riedizione, ispirata al popolo Dogon, tribù dell’Africa localizzata nel territorio della repubblica del Mali, e alle loro danze rituali che a volte venivano  riviste nella loro forma e adattate ai gusti dei turisti occidentali, da qui il sinonimo AD. Questi i riferimenti antropologici, mentre relativamente al linguaggio jazz che -Hemphill al sax e al flauto, Baikida J.E. Carroll, tromba, Abdul Wadud, cello e Philip Wilson, batteria- mettono in gioco ci troviamo di fronte ad un formula del tutto singolare per la capacità di compattare elementi be bop e hard bop, blues e soul-funky tenendo anche in debito conto i fermenti della new thing in piena evoluzione in quegl’anni. L’iniziale “Dogon A.D.” che da il titolo all’album presenta un ostinato riff dagli accenti funky, scandito dal violoncello e dalla batteria e contrappuntato dai fiati, sul quale si libera l’intensa improvvisazione del leader  dai forti umori soul-blues alla quale fa eco quella alla tromba di Carroll, ricca di pathos e di energia debordante. La successiva “Rites” è densa di geometrie free-bop e ritmi frenetici, mentre in “The Painter” l’atmosfera sembra acquietarsi per dare spazio ad una ballata dai toni pacati e riflessivi che evidenzia un ricercato e improvvisato dialogo di Hemphill al flauto con la tromba di Carroll. Si chiude con “The Hard Blues” poco più di venti minuti all’insegna di un blues viscerale e incalzante con l’innesti di improvvisi riff dalla struttura funky. Questi i dettagli della riedizione, per la prima volta in digitale, di un’opera indispensabile per capire la storia del jazz e irrinunciabile per la qualità e la quantità delle intuizioni di chi l’ha concepita. Tenete però in debito conto che la tiratura è limitata a cinquecento copie.




mercoledì 23 novembre 2011

ri-ascolti: - Lost in A Dream - Paul Motian / Chris Potter / Jason Moran


Febbraio 2009, al Village Vanguard di New York si registra il live Lost in A Dream in scena il trio Paul Motian,Chris Potter, Jason Moran. Sarà pubblicato l’anno successivo per la Ecm e sarà presente nelle liste dei migliori album del 2010. Oggi a poco più di ventiquattro ore dalla triste notizia questo live diventa la penultima esperienza discografica di  Motian che all’età di ottantanni ha cessato di vivere. Era da tempo che pensavo a un’altra etichetta con cui classificare le impressioni  d’ascolto  di album non recentissimi, pubblicati ancor prima della nascita di questo mio blog ed oggi do il via a questo genere di post che, più che delle recensioni, sono l’espressione di sensazioni che nascono da un ri-ascolto di album già noti. Lost in A Dream è un album dall’atmosfera soffusa, ricco di sottili melodie a volte appena accennate, quasi sussurrate e arricchite attraverso un dialogo intimo fra i tre musicisti. Straordinariamente lirico, Potter, come poche volte lo abbiamo ascoltato, raffinato e jarrettiano il pianoforte di Moran che appare illuminato da una divinità e poi lui il batterista che ha attraversato la storia del  jazz, iniziando al fianco di musicisti come: Thelonious Monk, Coleman Hawkins, Lennie Tristano, Tony Scott e George Russell, proseguendo poi a metà degli anni ’50 accanto all’indimenticabile Bill Evans. E ancora, negli anni ’60, prima con Paul Bley poi con Keith Jarrett, e come non ricordare il sodalizio con Charlie Haden e potrei continuare così a nutrire una lunga lista. Tornando a questo cd, che sto ascoltando mentre butto giù queste righe, lo sento accarezzare i piatti, strofinare i tamburi con le spazzole. Mi affascina il suo personalissimo musicare con la batteria e mi colpisce l’energia quasi free di “Drum Music” un momento out rispetto all’ambient del resto dei brani alla fine del quale Motian presenta  i suoi compagni di viaggio, in questa selezione di dieci brani tutti a sua firma tranne il reprise di “Be Careful it’s My Heart” composto da  Irving Berlin. Ascoltando oggi questo cd avverto un’ inevitabile  alone di tristezza che prima non avevo captato, probabilmente Motian quella sera era già a conoscenza del male che lo avrebbe portato via e sicuramente avrà ancora goduto per quella magica professione di musicista che le consentiva di essere lì in quel tempio del jazz newyorkese. Grazie Mr. Motian per tutto il jazz di questi anni. 

martedì 22 novembre 2011

Watershed

Satoko Fujii Min-Yoh Ensemble

Libra Records

La pianista Satoko Fujii vanta nel 2011 la pubblicazione di ben tre album in altrettanti contesti diversi:”Rafale” con il quartetto Kaze, “Eto” con la sua orchestra di New York e questo “Watershed” con il Min-Yoh Ensemble. Quest’ultima produzione è ispirata dalla musica tradizionale giapponese in continuità al percorso intrapreso con "Fujin Raijin", altra incisione con il quartetto Min-Yoh datata 2006. In “Watershed” ritroviamo il fidato Tamura alla tromba, Andrea Parkins all’accordion e Curtis Hasselbring, trombone. E’ un’opera condensata in otto brani ognuno dei quali ha una sorgente tematica tradizionale a volte ben delineata altre volte nascosta tra le pieghe di una rielaborazione strutturalmente stravolta del tema. In questo esercizio di traslazione la Fujii e soci riversano molteplici elementi di culture musicali eterogenee: si va dalla musica classica al jazz d’avanguardia con l’aggiunta, in questa specifica occasione, di armonie tipicamente tradizionali che trovano collocazione tra le intense maglie di un’interazione spesso nervosa fatta di accenti ritmici netti e picchi dirompenti, di un incedere in crescendo ma anche di brevi parentesi caratterizzate da melodie danzanti. Le sonorità  rilasciate in questi ambiti contrappongono umori struggenti e irruenze dinamiche, vocalità graffianti e melodie delicate. Il combo ha un’architettura contraddistinta da un amalgama quasi ideale in quanto le timbriche strumentali sembrano incastrarsi e completarsi in una specificità unica, che mette in risalto le doti dei singoli: estroso ed immenso il trombettista Tamura, la vocalità della sua tromba non ha limiti nel suo dimenarsi tra fraseggi delicati e lamentevoli elucubrazioni; genialità poco comune quella della Fujii, il suo pianismo è una sorta di manuale da assimilare ascolto dopo ascolto per capire dove può arrivare la sua personale sintesi lessicale; esemplare, la Parkins, per come inserisce   le peculiarità armoniche del suo accordion in un ambient d’avanguardia che si arricchisce, in tal modo, di coloriture popolari; senza alternativa il contributo di Hasselbring al trombone, viaggia con nonchalance supportando   ogni fermento, ogni esercizio improvvisativo ogni uscita sopra le righe in un componimento musicale immensamente godibile.


mercoledì 16 novembre 2011

Quartet (Mestre) 2008

Anthony Braxton
Diamond Curtain Wall Quartet

Caligola Records
Ha fatto tappa anche a Mestre la tournée dell’estate 2008 di Anthony Braxton e del suo trio-quartetto Diamond Curtain Wall,   nell’ambito del “Candiani Summer Fest”. Chi frequenta questo blog avrà già avuto modo di leggere la recensione del cd edito dalla Leo Records e registrato a Mosca, altra tappa di quella sua venuta in europa, con la medesima formazione. Quella serata di Mestre del 1° luglio 2008, grazie ad una  ripresa live, è oggi interamente disponibile in cd nel catalogo dell’etichetta veneziana Caligola Records che ha voluto corredarne la pubblicazione con  le note di un autorevole studioso del jazz quale è il musicologo Stefano Zenni. Il quartetto  è riproposto nella sua formula conosciuta con, oltre allo stesso Braxton ai fiati e ai live electronics (laptop), Katherine Young al fagotto, Taylor Ho Bynum ai fiati e Mary Harvolson alla chitarra. Il linguaggio usato è l’improvvisazione di cui il sassofonista è riconosciuto pioniere nonché tra i massimi esponenti contemporanei. La metodologia invece predominante è anche per il progetto della Diamod Curtain Wall Music quella che si relaziona con la durata temporale della performance regolata attraverso una clessidra. Il valore del tempo che si consuma con la messa in azione di questo strumento deve essere rigorosamente rispettato ma all’interno del relativo range temporale la libertà per ognuno dei protagonisti è garantita e non solo, in quanto un altro elemento va evidenziato, ovvero la mancanza di un’eccellenza dominante all’interno del quartetto. Così strutturata la performance si sviluppa sulle architetture di un esercizio improvvisativo intenso con i quattro musicisti impegnati ognuno nella propria singolarità a dare luogo nel complesso ad un mosaico di omogenea sinergia performante dalle sembianze cangianti ed in perenne evoluzione. In tutto ciò non posso esimermi dal trarre qualche breve annotazione: la straordinaria, già conosciuta, è vero!, duttilità ed estrosità di Taylor Ho Bynum, l’indefinibile originalità di Mary Harvolson, la rigorosità apparentemente accademica di Katherine Young, l’infinità e insaziabile oralità del grande maestro Braxton e l’incommensurabile campionario di suoni e le variabili ritmiche che si frappongono in quello che poi, nei fatti, è comunque un dialogo interattivo fra i quattro musicisti. Si conferma anche in questa occasione l’oculato e appropriato innesto del laptop e si ha la totale certezza che il progetto DCWM è l'ennesima originale intuizione del jazzman di Chicago.

domenica 13 novembre 2011

Upcoming Hurricane

Pascal Niggenkemper  
Simon Nabatov  
Gerald Cleaver  
  
NoBusiness
Il nome ne rivela le origini europee ma il contrabbassista, franco-teutonico, Pascal Niggenkemper  oggi è cittadino newyorkese e musicista rappresentativo di quella metropoli dove è  arrivato nel 2005 per proseguire i suoi studi al Manhattan School of Music con Jay Anderson grazie ad un premio DAAD concesso quell’anno dal governo tedesco  e dove ha conseguito successivamente il Diploma Master in Music Performance. Scrivo di lui perché mi è pervenuta da qualche settimana la sua ultima produzione discografica che segna un’altra tappa importante nella sua attività, da sempre intensa, malgrado i trentatreanni della sua giovane età, che lo ha visto membro della Henry Mancini  Institut di Los Angeles nel 2006 nonché componente di gruppi  di musicisti a fianco di Maria  Schneider, Vince Mendoza e Gonzalo Rubalcaba. A New York,  Niggenkemper è già stato parte di un trio con Robin Verheyen e Tyshawn Sorey, mentre in questo cd, uscito a settembre per l’etichetta NoBusiness, lo ritroviamo con Simon Nabatov al pianoforte e Gerand Cleaver alla batteria. Due musicisti dediti a frequentazioni d’avanguardia e quindi in ideale sinergia con la tendenziale scelta musicale che anche il contrabbassista ha operato in questi ultimi anni. La sobrietà della copertina che accompagna il cd dà già un’idea di ciò che le sette tracce da lì a poco esprimeranno ovvero un’essenzialità jazzistica che non concede nulla all’estetica formale e che invece risulta fortemente votata ad instaurare una fitta interazione. Il dialogo  si esplica a volte attraverso un  dilagante e magmatico  incedere nervoso, che ha in Cleaver un esaltante dispensatore di ritmi africaneggianti, altre volte creando scarni ambiti dialettici pervasi da reminiscenze classiche europee di cui il pianismo di Nabatov è intriso. In entrambe le condizioni Niggenkemper si mostra non solo a suo agio ma anche stimolato con tutto il suo preponderante campionario inventivo che lo strumento gli consente di esprimere senza dimenticare di rivelare, che ancor prima di dedicarsi al contrabbasso, è stato in tenera età pianista e violinista. Con cotanta dote innata e con il contributo di musicisti come Nabatov e Cleaver, Niggenkemper, ha realizzato una delle produzioni più interessanti di questi ultimi mesi, oltretutto, disponibile anche in vinile.


mercoledì 9 novembre 2011

Planetary Unknown

David S.Ware
Cooper-Moore
William Parker
Muhammad Ali

Aum Fidelity
E’ urgenza espressiva dirompente quella che il sassofonista David S.Ware esprime dai solchi di questo recente cd  dove è affiancato da Cooper-Moore, pianoforte, William Parker, contrabbasso, Muhammed Ali, batteria. Musicista prolifico costantemente impegnato ad interpretare e tradurre in musica ogni stimolo ispirativo indotto dalla sua creatività, S.Ware, è una figura quasi sacerdotale nell’ambito del free-jazz di cui è uno degli esponenti più rappresentativi. I tre musicisti che condividono con lui questa esperienza supportano e dialogano alla pari con il sassofonista: il pianoforte di Cooper-Moore contrappunta con altrettanta frenesia e fluorescenza le scorribande dei sax, William Parker è anche qui l’instancabile motore propulsivo della ritmica che conosciamo, mentre Ali dà corpo e profondità alla performance. Così “Passage Wudang”, traccia iniziale di questo cd, poco meno di 22 minuti di frenesia dialettica che non lascia vuoti di sorta nemmeno quando si assottiglia in un dialogo tra pianoforte e sezione ritmica. Poi il sassofonista torna a tracciare i tortuosi sentieri del suo free, con un incedere segnato da improvvise accelerazioni e puntamenti. Il finale del brano ha però una porzione riflessiva i cui toni si placano in un gioco lirico che coinvolge l’intero quartetto. Dopo i quasi 15 minuti di “Shift” e “Duality is one”, in piena e riconquistata bramosia free, arriva la trilogia: “Divination” / “Crystal Palace” / “Divination Unfathomable”, tre brani intrisi di una spiritualità gridata, con l'ampia vocalità dei suo sax, in piena devozione mistica. L’impeto e la passione di S.Ware riempiono ogni passaggio, il timbro è straordinariamente soul e viscerale, il quartetto sembra vivere momenti di profonda introspezione e anche in questi brani si fa strada un’aspetto sottilmente lirico del linguaggio autenticamente free che ha sempre contraddistinto il jazz di S.Ware. La traccia finale “Ancestry Supramental” ristabilisce il clima terreno e irruente della parte iniziale   e invita a ripremere il tasto play per un ulteriore ascolto e per una nuova esplorazione del Planetary Unknown  di David S.Ware e soci.


martedì 1 novembre 2011

Heart’s Reflections

Wadada Leo Smith’s Organic

Cuneiform
E’ un’opera complessa e densa di contenuti questo recente doppio cd del trombettista Wadada Leo Smith e del suo ensemble Organic. E lo è per gli elementi ispirativi,  per le strutture portanti dei brani , per il fitto intreccio sonoro  nonché per la configurazione dell’ensemble  che consta di ben 14 elementi, con lo stesso leader, e che comprende:  Casey Anderson e Casey Butler rispettivamente alto e tenor sax; Stephanie Smith: violin; Angelica Sanchez: piano ed  electric piano; Michael Gregory,   Brandon Ross, Lamar Smith e Josh Gerowitz: chitarre; Skuli Sverisson: basso e 6-string bass; John Lindberg: contrabbasso; Pheeroan Ak Laff: drums; Mark Trayle  e Charlie Burgin: laptop. Complesso è anche il personaggio e il musicista Wadada Leo Smith con il suo profondo misticismo affiancato ad  un’essenza jazz contemporanea a volte ruvida ma sempre vibrante. Già membro dell’AACM di Chicago, il trombettista, ha fatto parte, con Braxton e Leroy Jenkins, dei Creative Construction Company, gruppo tra i più avanzati espressi dall’associazione.   Profondo sostenitore della filosofia elettrica di Miles Davis e del suo linguaggio contaminato e contaminante che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del jazz e che ancora oggi è oggetto di diatriba tra gli appassionati.  La sua espressività qui si spinge  oltre e si imbeve  di sonorità ancora più abrasive rispetto a Davis, si arricchisce di feedback rock-blues, si fregia dei contributi  di due laptop, si presenta costellata di  episodi  funky e non si fa mancare atmosfere introspettive. Cinque i brani complessivamente contenuti nei due cd, di notevole durata e in taluni casi frastagliati in vari episodi sempre riferiti a personaggi di vari ambiti:  dal trombettista Don Cherry ad un maestro sufi,  dalla scrittrice Tony Morrison al compianto violinista e fraterno amico Leroy Jenkins. Umori dell’anima e passioni della vita di un trombettista d’avanguardia.