martedì 21 ottobre 2014

Reverie

Ivo Perelman / Karl Berger

Leo


Per il sassofonista Ivo Perelman questo è il quarto cd pubblicato nel 2014 a dimostrazione di un momento di grande ispirazione che sembra essere la costante del musicista, brasiliano d’origine, nato nel 1961 a S.Paulo, cittadino newyorkese dal 1990 dopo un periodo di studi a Boston al Berklee College of Music. La sua prima incisione è datata 1989 ed è per celebrare i suoi venticinque anni di registrazioni che Perelman ha rilasciato di recente questo che è il suo cinquantacinquesimo album. Per la prima volta al suo fianco troviamo il pianista tedesco Karl Berger, musicista con un bagaglio di prestigiose di incisioni a suo nome e di frequentazioni privilegiate, come sideman, accanto a jazzman quali Ornette Coleman e Anthony Braxton. Reverie è un dialogo intenso tra un Perelman che sfodera la sua consueta forza espressiva, arricchita da un'inusitata vena lirica e un pianista, Berger, capace di irrorare con i suoi fraseggi, i cambi di ritmo e i puntuali contrappunti l'essenza di un'espressività esclusiva, a tratti malinconica, che veleggia maestosa e trionfante per tutte le sei composizioni. L'iniziale “Trascendence” è l'ampio varco di ingresso nell'ambient empatico dei due protagonisti, avvolti in un'interazione fatta di rincorse e fughe, di ascendenze e discendenze tonali, di tensioni e acquiescenze, prima che arrivi la struggente melodia di “Contemplation”. Si viaggia tra scrittura e improvvisazione, tra riferimenti classici che Berger, ripropone evidenziati con una sottolineatura votata verso canoni di assoluta libertà, rimescolati e proiettati con esuberanza da Perelman. Osservazioni assemblate quasi di botto, le mie, mentre ascolto la sublime “Pensiveness” sofferta nell'esercizio fiatistico, celebrata e percorsa, in ogni sua sfaccettatura possibile, nell'approccio pianistico. Poi le convergenti dinamiche di “Pursuance” e l'inondante liricità di “Placidity” poco più di quattordici minuti di magnificenza artistica con due musicisti superlativi intenti a disegnare un percorso incredibilmente interattivo, travalicante di ogni possibile definizione, imprevedibile nella sua struttura variegata. Si chiude con la traccia che da il titolo all'album, una ballad narrata da Perelman con una forza e una duttilità espressiva disarmante. Reverie è un altro episodio vincente nella discografia del sassofonista (di lui vi ho già raccontato a proposito dei cd The Foreign Legion e The Art of Duet vol.1 potete leggerne le recensioni qui e qui) ma anche uno dei migliori album jazz di questo 2014.


lunedì 6 ottobre 2014

Juggernaut

Indu

Slam




Sulla scena jazz italiana irrompe il duo Indu, ovvero Andrea Grillini e Claudio Vignali, con un album che vede il primo alla batteria e agli effetti speciali e il secondo al pianoforte e tastiere varie. Con loro i fiati di Achille Succi presente in tre dei nove brani che compongono la selezione di un lavoro che annuncia a gran voce la frenesia e l’urgenza espressiva dei due titolari del progetto. Musicisti eclettici che non amano gli steccati di solito interposti tra un genere e un altro, quindi, ampia imprevedibilità di atmosfere. In apertura l’irruenza tecno di “Blastamaniac” a cui fanno seguito le inusitate geometrie di “Van Gundy’s Retreat” firmata da Tim Berne, la sola non originale, che Vignali prima traccia al sinth e poi sviluppa al pianoforte in stretta simbiosi con Grillini. Lo zigzagare del clarinetto di Succi è protagonista di “Le Pommes Alcooloque” terza traccia lampo, poco oltre i due minuti, ancor meno delle precedenti due. Forse un segno di istintive ispirazioni colte al volo dai due musicisti e subito formalizzate. Poi il primo dei tre episodi clou di tutto l'album: “Rabrofiev's View” una composizione che travalica ogni possibile etichettatura, maestosa, evocativa e articolata, mette in evidenza il talento di Vignali in un crogiuolo di elementi classici e di modern jazz che trovano splendida fusione e relazione nell’intenso interplay con il drumming di Grillini. E ancora “Icarus” frenetica, sfuggente, ritmicamente incalzante, esplosiva e poi di colpo struggente, fino a rinascere in un crescendo dirompente, narrata meravigliosamente dai fiati di Succi e dal binomio Grillini-Vignali. E’ la porzione dell’album più intensa quella che vi sto raccontando e che conduce alla traccia finale, all’ipnotica e ostinata ritmicamente “A.N.S.”.  Juggernaut è un lampo di luce abbagliante, un crepitìo sonoro che incuriosisce l’insaziabile appassionato ascoltatore. Non privatelo della vostra attenzione!

 Giuseppe Mavilla

giovedì 2 ottobre 2014

Chris Weller’s Hanging Hearts

Chris Weller’s Hanging Hearts

Self Produced


Trio vincente quello degli Hanging Hearts guidati dal sassofonista Chris Weller affiancato da Cole Degenova alle tastiere e Devin Drobka alla batteria. Weller è stato rapito dal jazz del grande Charlie Parker alla tenera età di 8 anni ed ha studiato, come gli altri due membri, al Berklee College of Music di Boston. Ed è lì che il trio ha preso vita con un linguaggio che propone una sorta di sintesi fra jazz e rock. Brani dalla struttura ben delineata con temi esposti all’inizio e alla fine e con all’interno ampi spazi per l’improvvisazione. La traccia d’apertura “D Rover” evidenzia un ambient fortemente caratterizzato da sonorità energicamente dirompenti e da timbriche naturali. I tre non cercano raffinatezze ma dispiegano una forza espressiva che ascolto dopo ascolto coinvolge sempre di più. Anche la successiva e inaspettata ballad “The Single Petal of a Rose” di Duke Ellington, condotta dal sax di Weller, lirico e avvolgente sull’ oscillante tappeto sonoro delle tastiere di Degenova, è intrisa di una sincera e naturale espressività. E’ un album che brilla di passione, partecipazione e dialoghi, nulla è lasciato in sospeso, ogni porzione è vissuta intensamente dai tre. Ne è un chiaro esempio la trascinante “Early Bird” o l’incalzante “Lucid Dream” con l’ostinato riff di Weller al sax. Ottimo il contributo di Degenova, non fa rimpiangere l’assenza del contrabbasso o di un basso elettrico e la sua presenza è sempre determinante, nel contrappunto e nei soli, così come il drumming dell’infaticabile Drobka denso di fragori rockeggianti. In definitiva un album che si contraddistingue anche per l’invidiabile equilibrio fra passato e presente e che declama a gran voce l’intuizione di layout espressivo singolare che, non ha caso, arriva dalla "wind city".