mercoledì 19 ottobre 2011

The Veil

Berne Black & Cline

Cryptogrammophone
E’ nell’est village di New York che ha sede “The Stone”  voluto da John Zorn per accogliere le anime libere del jazz newyorkese e i fermenti della Downtown. Ed è allo “Stone” che il 30 luglio del 2009 si sono incontrati il chitarrista Nels Cline, il sassofonista Tim Berne e il batterista Jim Black. Nella loro dotazione strumentale di quella sera c’è anche un laptop affidato alle attenzioni di Jim Black nonché gli armamentari elettronici utili all’elettrica di Cline. La performance è vibrante e giocata su toni rock e timbri elettrici come d’altronde la cifra stilistica, già ampiamente nota del chitarrista,  lascia immaginare. Il connubio con Berne è ben riuscito perché il sassofonista riesce ad interagire e confrontarsi con Cline mostrando adeguata  attitudine verso i ritmi fulminanti imposti dallo stesso. Anche per Black il percorso non presenta affanni di sorta perché il batterista arricchisce il suo drumming  di una scoppiettante fluorescenza. La registrazione scivola  dirompente attraverso le nove tracce, distinte solo nell’elenco riportato all’interno della copertina del cd, mentre si susseguono in assoluta continuità all’ascolto. La distinzione mi torna utile per definire con precisione alcune porzioni che si differenziano dall’incedere primordiale della registrazione. E’ il caso di “Momento” che individua una esecuzione dal clima rarefatto dove prevalgono sonorità elettroniche di enfasi contemporanea  con varie sfumature abrasive. E poi “The Barbarella Syndrome” che esplica una dialettica jazz attraverso un’iniziale interazione chitarra elettrica-batteria, ai quali si unisce più avanti il sax, in un intreccio frenetico e labirintico che sembra non avere fine. “The Dawn of The Lawn”, traccia n.5, ha ritmi pulsanti e strali ipnotici mentre le conclusive “Tiny Moment” I e II evidenziano rispettivamente, i fraseggi in crescendo di Berne contrappuntati dal multiforme chitarrismo di Cline e l’ambient imbevuto di effettismo elettronico di cui è opportuno propositore Black al laptop. The Veil nei fatti è un’incursione intensa tra suoni e ritmi mutuati in parte dal rock ma interpretati e reinventati attraverso una metodologia  jazz totalmente free. 

sabato 8 ottobre 2011

The Mancy of Sound

Steve Coleman and Five Elements

PI Recordings
Il sassofonista Steve Coleman appare sempre più concentrato sui dettami della filosofia Yoruba, propria di un popolo originario dell’Africa occidentale, il cui culto sembra proficuamente ispirare il musicista co-fondatore del collettivo M-Base, laboratorio di idee e formulario di innovazioni che ha  avuto nel tempo interpreti come  Greg Osby, Graham Haynes, George Lewis, Geri Allen, Vijay Iyer, Muhal Richard Abrams, Cassandra Wilson ed altri. Dopo il precedente Harvesting Semblances and Affinities Coleman sembra aver ripreso i suoi regolari ritmi di musicista e il tempo trascorso, all’incirca un anno, tra la pubblicazione appena citata e questo cd di cui mi sto occupando in questa recensione, è la prova più inconfutabile della ritrovata vena creativa del nostro. The Mancy of Sound è focalizzato sulle entità divine della religione Yoruba, a cui vengono associati  elementi naturali come acqua, fuoco, terra e aria. Ci sono poi riferimenti alle fasi lunari ed il tutto è traslato nel linguaggio jazzistico del sassofonista che ha nel ritmo  la sua linfa primordiale.  Il combo propone un front-line di fiati a tre voci che include oltre al leader Jonathan Finlayson alla tromba e Tim Albright al trombone, il contrabbassista Thomas Morgan, Tyshawn Sorey e Marcus Gilmore alla due batterie, Ramòn Garcia Pérez alle percussioni e la splendida vocalità della già apprezzata interprete Jen Shyu. Quest’ultima, come nella precedente produzione, è alle prese con il suo esclusivo wordless e non solo, perché in due episodi sono i testi della poetessa Patricia Magalhaes ad impegnarla. Il suo canto si affianca  ai fiati in un gioco di simbiosi, sorprendente per assonanza ritmica e temporale,  e il tutto è scandito  nella maggior parte dei brani da  una ritmica incalzante dalle cui pulsazioni si levano a turno gli interventi solistici improvvisati dei fiati. Il credo ritmico, dell’idea  colemaniana di jazz  mette in secondo piano la frase tematica  e dà risalto sempre più vistoso ad un alone latineggiante qui sempre più marcato grazie alla presenza delle due batterie e delle percussioni di Perez.  Due gli episodi che si rivelano disgiunti dall’architettura appena descritta e sono: “Formation I e II” esclusivamente per fiati e voce dove la simbiosi sopra descritta si realizza in tutta la sua pienezza unita ad un gioco di contrappunti e affiliazioni tra le  parti che è veramente uno dei momenti di più alto livello di una produzione superlativa che ci restituisce un Coleman nel pieno della sua ispirazione.
Assolutamente indispensabile!