mercoledì 28 dicembre 2011

ri-ascolti: - Paragon - Sam Rivers / Dave Holland / Barry Altschul


Dopo Paul Motian ci ha lasciati anche Sam Rivers, tempi tristi per noi cultori del jazz più creativo e libero. La notizia è arrivata ieri mentre tutti eravamo ancora in qualche modo alle prese con i postumi della festività natalizia e a tarda sera mi sono limitato a twittare un mesto goodbye e un sentito R.I.P. Oggi sul mio ipod ho in play uno dei suoi capolavori: e’ Paragon album registrato al Davout Studio di Parigi il 18 aprile del 1977, di cui esiste una sola versione in vinile della Fluid Records, ormai fuori stampa. Rivers è stato uno dei grandi esponenti del free jazz, la sua infanzia a Chicago, figlio di cantante e di una pianista, ne hanno plasmato la personalità di musicista insieme agli studi in una alta scuola cattolica sempre in quella città. Intorno ai vent’anni, era nato il 25 settembre del 1930, approda a Boston dove successivamente diventa insegnante presso la Berklee School. Poi il suo trasferimento  a New York, la sua tournèe con Miles Davis nel 1964 e via di seguito il sodalizio con Cecil Taylor e l’attività con lo studio Rivbea, nel 1973, in un loft di NewYork coadiuvato dalla moglie Beatrice. Da qui in poi sarà tutta un’ascesa nell’olimpo dei più arditi esponenti del free e nel 1978 questo lp con Dave Holland, basso e cello, Barry Altschul, batteria e percussioni. Lui si alterna, da vero pluristrumentista, al sax soprano e tenore, flauto e pianoforte. La prima traccia “Ecstasy” è nervosa, permeata da un’urgenza espressiva dirompente, il trio è impegnato in un interplay fitto dove ogni passaggio ha una sua logica costruttiva ed evolutiva verso un flusso libero lasciato all’inventiva del protagonista. Poi il  minuscolo tema si ripropone imbevuto delle declinazione improvvisate del leader. “Bliss”, di seguito è piatta quasi strascicata con Rivers al flauto e Holland al cello. Cameristica e grigia disegna una melodia indefinita, fragile e del tutto insipida, appena arricchita dalle bolle cromatiche-percussive di Altschul. Con “Rapture” il clima torna frenetico, Rivers sembra sfuggire ai suoi compagni fin quando arriva l’assolo, breve ma intenso, di Alschul: fluorescenti, fluidi e contorti così si percepiscono i tre nel finale del brano. Fin qui la side A del 33 giri mentre nella prima delle due tracce della side B il leader è al pianoforte con l’ombra appena percettibile di Taylor dietro. Splendido il suo confrontarsi alla tastiera   con la frenesia della coppia ritmica. L’ultima traccia, che da il titolo all’intero lp, traccia nel contempo il tratto espressivo e la filosofia free del sassofonista, il suo jazz è frutto di un 'attività di ricerca non è il free votato all’oralità sfrenatamente estemporanea di altri esponenti del genere. “Paragon” in chiusura è mutante, frastagliata, cangiante nei ritmi e nel climax, avanguardia e libertà strutturata e grande passione. In questo brano finale lui è impegnato ai sax, al flauto e al piano incise singolarmente e poi sovrapposte in sede di missaggio. Indimenticabile e indiscutibilmente insostituibile nella storia del jazz, cosi è stato e sarà per sempre Samuel Carthorne Rivers.




 

domenica 18 dicembre 2011

Fremdenzimmer

Baloni

Clean Feed


Sarebbe riduttivo collocare esclusivamente in ambito jazz il trio formato da Joachim Badenhorst, bass clarinet, clarinet e tenor sax, Frantz Loriot, viola e Pascal Niggenkemper, contrabbasso, perché si tratta di musicisti che pur esprimendosi  attraverso una dialettica prettamente jazzistica  caratterizzano il loro linguaggio  con sonorità molto vicine alla musica da camera e con una costante enfasi creativa d’avanguardia. Badenhorst, belga,  è  membro del trio del celebre batterista Han Bennink e attualmente fa anche parte dell’ensemble “Novela” del sassofonista Tony Malaby di cui è appena uscito l’omonimo album. Loriot, franco-giapponese, ha militato nei gruppi di musicisti come Joelle Léandre, Barre Philips, David S.Ware e Anthony Braxton. Niggenkemper, franco-tedesco, è uno dei membri del trio HNH  che ha dato alle stampe l’omonimo cd; è componente del quartetto che ha inciso il pregevole Polylemma ed è  titolare dello splendido Upcoming Hurricane dove è affiancato da due esponenti della downtown newyorkese:  il pianista Simon Nabatov e il batterista Gerard Cleaver.  Questo  recente Fremdenzimmer, inciso per la intraprendente etichetta portoghese Clean Feed, è firmato “Baloni” nome assunto dal trio unendo le prime due lettere  dei  loro cognomi. Si tratta di una produzione di grande valore: un misto di  originalità e  azzardo che premia la ferma volontà del trio di uscire da canoni espressivi già conosciuti. L’iniziale “Lokomotive” è il biglietto da visita del trio, un brano fluido, in continua metamorfosi con i tre musicisti in piena simbiosi interattiva: i tre strumenti sembrano muoversi in assoluta assonanza sonora. Niggenkemper, come fa spesso, usa in prevalenza l’archetto, i suoni si mescolano, si sovrappongono e poi ancora si evidenziano con analiticità. In “Searching” traccia n.3 delle 11 contenute nel cd c’è un dialogo elaborato anche sul versante delle sonorità tra i fiati e la viola con il contrappunto del contrabbasso; frazioni di studio si alternano ad altre imbevute di leggera tensione in un crescendo vibrante di sottile armonia e ritmo. I toni gravi che sopraggiungono spengono i timidi raggi di luminosità poco prima avvistati e l’atmosfera si fa rarefatta con il sopraggiungere di “Torsado” che vede in primo piano la viola di Loriot. Il solo del franco-giapponese è impregnato di grande partecipazione emotiva, l’archetto preme con violenza sulle corde mentre contrabbasso (con l’archetto) e fiati si affiancano con un ciclico giro armonico. Il clima dell’intera produzione si realizza in questa dimensione di ricercata attività improvvisativa e lo si scopre andando avanti nell’ascolto: Badenhorst, Loriot e Niggenkemper ricercano l’assoluto orizzonte di un'ideale commistione tra le varie essenze della musica contemporanea e riuscire a percepirne i contrasti, le affinità e le possibili sintesi per poi riproporle nella dimensione temporale e definita di una produzione discografica è sicuramente di grande merito. Stridulo, delicato, tempestoso ma straordinariamente unico e affascinante: questo è Fremdenzimmer.



BaLoNi at NewAdits Festival 2010 di re1of5de643s2wsd

domenica 11 dicembre 2011

Eto

Sakoto Fujii Orchestra New York

Libra Records


Chi frequenta abitualmente questo blog avrà senz’altro notato che la pianista Satoko Fujii è una delle mie artiste preferite, sono parecchi gli album che la riguardano che io ho già recensito. Apprezzo la sua creatività, la visione ampia del concetto jazzistico che lei promuove, la promiscuità dei suoi progetti, il suo sapersi confrontare e rendersi disponibile anche in collaborazioni dove non risulta impegnata in prima persona. E poi ci sono le orchestre, vere e proprie big band disseminate in quattro città diverse: Kobe, Nagoya, Tokio e New York. Con quest’ultima la Fujii ha di recente realizzato il cd Eto che prende il nome dallo Zodiaco cinese a cui l’intero lavoro è ispirato, un lavoro nato nell’anno in cui il suo compagno, Natsuku Tamura, trombettista al suo fianco anche nelle esperienze artistiche, ha compiuto sessantenni, un’età il cui raggiungimento è considerato in giappone di buon auspicio e che da luogo ad una celebrazione chiamata Kanreki. Ben 17 le tracce presenti di cui 14 brani costituiscono la suite che prende il nome dal titolo dell’album ovvero un’overture e un epilogo uniti da 12 brevi brani scritti dalla Fujii riferendosi ai 12 animali che rappresentano gli altrettanti segni  dello zodiaco cinese. In ognuno di questi brani è stato riservato uno spazio per il solo di ognuno dei dodici fiati coinvolti nell’orchestra newyorkese. Con la Fujii sono infatti partecipi  ben altri 14 musicisti: Noriega, Krauss, Eskelin, Speed, Laster, sax; Ballou, Robertson, London e Tamura, trombe; Hasselbring, Sellers, Fiedler, tromboni, Takeishi, basso, Alexander, batteria. L’apertura della selezione è con il brano “The North Wind and the Sound” dai toni gravi e dall’incedere pomposo, ricco di cambi di tempo e variegate trame musicali spesso in crescendo con in grande evidenza i fiati. Poi la sezione ritmica introduce l’overture della suite ed è tutto un susseguirsi di una miriade di esclamazioni sonore che prendono forma e interazione. Il variegato e affollato frontline dei fiati si esprime evidenziando le singolari e specifiche individualità in rapporto con l’interezza dell’orchestra. I bozzetti si susseguono uno dopo l’altro:  “Rat” evidenzia il solo di Speed che zigzaga fulminante con il pianoforte della leader; “Ox” è un’immagine leggera e vellutata illuminata dal trombone di Sellers, lirico e in crescendo, supportato dall’intera band; riff funkeggianti introducono il solo di Eskelin in “Tiger”; in “Dragon” il trombone distorto di Hasselbring trascina, sullo stesso ambient sopra le righe, gli altri fiati; e poi Tamura in “Snake” rompe ogni indugio, ogni limite ipoteticamente possibile. Il suono della sua tromba e l’articolazione dei suoi interventi  esprimono estro e provocazione. In quest’ambient newyorkese dove il combo elabora le sue idee viene fuori la tipicità unica di un linguaggio indefinibile gestito con una ampia e lungimirante concezione dalla pianista giapponese. Al di là di geometrie, anche in questo caso rispettose delle tradizioni delle big band, ma imbevute di intuizioni visionarie, si materializzano in questo lavoro nuovi stimolanti orizzonti per il jazz interpretato da formazioni allargate.


sabato 3 dicembre 2011

Polylemma

Joe Hertenstein
Thomas Heberer
Joachim Badenhorst
Pascal Niggenkemper

Red Toucan Records


Risiedono a Brooklyn, N.Y., ma sono europei: Joe Hertenstein, batteria e Thomas Heberer, tromba, dalla Germania; Pascal Niggenkemper contrabbasso, franco-tedesco; Joachim Badenhorst clarinetto basso, belga. Dalla loro intensa attività oltre oceano è nato il trio HNH, dalle iniziali dei primi tre, e anche l’omonimo e interessante album per la Clean Feed. Con l’aggiunta di Badenhorst, voluto da Hertenstein, leader di entrambe le formazioni, il trio, divenuto quartetto, ha inciso questo Polylemma, raffinato e ricercato lavoro in bilico tra ambiti strutturati e libere architetture. Otto composizioni divise a metà tra Hertenstein ed Herberer per tracciare una sorta di free bop a tratti imbevuto di fraseggi swing  e sinuosità avvolgenti altre volte intriso di una dialettica d’avanguardia dai toni rarefatti e da un ambient cameristico. In primo piano il fluire e l’intersecarsi delle vocalità dei due strumenti a fiato, tromba e clarino, supportati da una vibrante poliritmia che esalta le doti del duo Hertenstein-Niggenkemper, con il primo impegnato a nutrire la performance con un drumming intenso e mutante, mai slegato dalle dinamiche in atto e soprattutto mai in secondo piano. Niggenkemper, di cui è stato recensito qui il recente Upcoming Hurricane non è da meno con il suo puntiglioso contrabbasso e non disdegna anche in questa occasione di dare ulteriore prova della versatilità del suo strumento. La selezione si sviluppa su due binari paralleli, rispecchiando la diversa metodologia compositiva di Hertenstein e Herberer: da una parte una irrinunciabile ricerca di armonia e una modularità che delinea una struttura definita dei brani; dall’altra la conservazione di una tensione interattiva, di un dialogo nudo, non necessariamente strutturato, ma orale.  La successione dei brani è stata opportunamente finalizzata a creare un alternarsi di questi ambient, allo scopo di evidenziare la natura del progetto fortemente creativo e impregnato dei fermenti innovativi dei luoghi in cui i quattro protagonisti operano.


Polylemma [DEMO] by b-artist-relations

domenica 27 novembre 2011

Dogon A.D.

Julius Hemphill

International Phonograph Inc.


Il 2011 sembra essere l’anno delle ristampe importanti nella discografia jazz, ristampe di album essenziali e nel contempo introvabili. Come già accaduto per Intents and Purposes riproposto qualche mese fa e qui recensito, adesso è il turno di Dogon A.D. del sassofonista Julius Hemphill. Stessa etichetta l’ International Phonograph Inc. e stessa presentazione, in forma ridotta ma in rigido e lucido materiale cartonato, di quello che era il contenitore del prezioso vinile pubblicato nel 1972 dalla casa discografica MBARI Records, di cui era proprietario lo stesso Hemphill, che però conteneva solo tre della quattro tracce  a suo tempo registrate in uno studio di ST. Louis nel Missouri. Mancava infatti nell’originale lp il brano “The Hard Blues” che poi fu inserito nel successivo album di Hemphill  Coon Bid’ness inciso per l’Arista / Freedom Records nel 1975. Ricompattata quindi l’originale opera, in questa riedizione, ispirata al popolo Dogon, tribù dell’Africa localizzata nel territorio della repubblica del Mali, e alle loro danze rituali che a volte venivano  riviste nella loro forma e adattate ai gusti dei turisti occidentali, da qui il sinonimo AD. Questi i riferimenti antropologici, mentre relativamente al linguaggio jazz che -Hemphill al sax e al flauto, Baikida J.E. Carroll, tromba, Abdul Wadud, cello e Philip Wilson, batteria- mettono in gioco ci troviamo di fronte ad un formula del tutto singolare per la capacità di compattare elementi be bop e hard bop, blues e soul-funky tenendo anche in debito conto i fermenti della new thing in piena evoluzione in quegl’anni. L’iniziale “Dogon A.D.” che da il titolo all’album presenta un ostinato riff dagli accenti funky, scandito dal violoncello e dalla batteria e contrappuntato dai fiati, sul quale si libera l’intensa improvvisazione del leader  dai forti umori soul-blues alla quale fa eco quella alla tromba di Carroll, ricca di pathos e di energia debordante. La successiva “Rites” è densa di geometrie free-bop e ritmi frenetici, mentre in “The Painter” l’atmosfera sembra acquietarsi per dare spazio ad una ballata dai toni pacati e riflessivi che evidenzia un ricercato e improvvisato dialogo di Hemphill al flauto con la tromba di Carroll. Si chiude con “The Hard Blues” poco più di venti minuti all’insegna di un blues viscerale e incalzante con l’innesti di improvvisi riff dalla struttura funky. Questi i dettagli della riedizione, per la prima volta in digitale, di un’opera indispensabile per capire la storia del jazz e irrinunciabile per la qualità e la quantità delle intuizioni di chi l’ha concepita. Tenete però in debito conto che la tiratura è limitata a cinquecento copie.




mercoledì 23 novembre 2011

ri-ascolti: - Lost in A Dream - Paul Motian / Chris Potter / Jason Moran


Febbraio 2009, al Village Vanguard di New York si registra il live Lost in A Dream in scena il trio Paul Motian,Chris Potter, Jason Moran. Sarà pubblicato l’anno successivo per la Ecm e sarà presente nelle liste dei migliori album del 2010. Oggi a poco più di ventiquattro ore dalla triste notizia questo live diventa la penultima esperienza discografica di  Motian che all’età di ottantanni ha cessato di vivere. Era da tempo che pensavo a un’altra etichetta con cui classificare le impressioni  d’ascolto  di album non recentissimi, pubblicati ancor prima della nascita di questo mio blog ed oggi do il via a questo genere di post che, più che delle recensioni, sono l’espressione di sensazioni che nascono da un ri-ascolto di album già noti. Lost in A Dream è un album dall’atmosfera soffusa, ricco di sottili melodie a volte appena accennate, quasi sussurrate e arricchite attraverso un dialogo intimo fra i tre musicisti. Straordinariamente lirico, Potter, come poche volte lo abbiamo ascoltato, raffinato e jarrettiano il pianoforte di Moran che appare illuminato da una divinità e poi lui il batterista che ha attraversato la storia del  jazz, iniziando al fianco di musicisti come: Thelonious Monk, Coleman Hawkins, Lennie Tristano, Tony Scott e George Russell, proseguendo poi a metà degli anni ’50 accanto all’indimenticabile Bill Evans. E ancora, negli anni ’60, prima con Paul Bley poi con Keith Jarrett, e come non ricordare il sodalizio con Charlie Haden e potrei continuare così a nutrire una lunga lista. Tornando a questo cd, che sto ascoltando mentre butto giù queste righe, lo sento accarezzare i piatti, strofinare i tamburi con le spazzole. Mi affascina il suo personalissimo musicare con la batteria e mi colpisce l’energia quasi free di “Drum Music” un momento out rispetto all’ambient del resto dei brani alla fine del quale Motian presenta  i suoi compagni di viaggio, in questa selezione di dieci brani tutti a sua firma tranne il reprise di “Be Careful it’s My Heart” composto da  Irving Berlin. Ascoltando oggi questo cd avverto un’ inevitabile  alone di tristezza che prima non avevo captato, probabilmente Motian quella sera era già a conoscenza del male che lo avrebbe portato via e sicuramente avrà ancora goduto per quella magica professione di musicista che le consentiva di essere lì in quel tempio del jazz newyorkese. Grazie Mr. Motian per tutto il jazz di questi anni. 

martedì 22 novembre 2011

Watershed

Satoko Fujii Min-Yoh Ensemble

Libra Records

La pianista Satoko Fujii vanta nel 2011 la pubblicazione di ben tre album in altrettanti contesti diversi:”Rafale” con il quartetto Kaze, “Eto” con la sua orchestra di New York e questo “Watershed” con il Min-Yoh Ensemble. Quest’ultima produzione è ispirata dalla musica tradizionale giapponese in continuità al percorso intrapreso con "Fujin Raijin", altra incisione con il quartetto Min-Yoh datata 2006. In “Watershed” ritroviamo il fidato Tamura alla tromba, Andrea Parkins all’accordion e Curtis Hasselbring, trombone. E’ un’opera condensata in otto brani ognuno dei quali ha una sorgente tematica tradizionale a volte ben delineata altre volte nascosta tra le pieghe di una rielaborazione strutturalmente stravolta del tema. In questo esercizio di traslazione la Fujii e soci riversano molteplici elementi di culture musicali eterogenee: si va dalla musica classica al jazz d’avanguardia con l’aggiunta, in questa specifica occasione, di armonie tipicamente tradizionali che trovano collocazione tra le intense maglie di un’interazione spesso nervosa fatta di accenti ritmici netti e picchi dirompenti, di un incedere in crescendo ma anche di brevi parentesi caratterizzate da melodie danzanti. Le sonorità  rilasciate in questi ambiti contrappongono umori struggenti e irruenze dinamiche, vocalità graffianti e melodie delicate. Il combo ha un’architettura contraddistinta da un amalgama quasi ideale in quanto le timbriche strumentali sembrano incastrarsi e completarsi in una specificità unica, che mette in risalto le doti dei singoli: estroso ed immenso il trombettista Tamura, la vocalità della sua tromba non ha limiti nel suo dimenarsi tra fraseggi delicati e lamentevoli elucubrazioni; genialità poco comune quella della Fujii, il suo pianismo è una sorta di manuale da assimilare ascolto dopo ascolto per capire dove può arrivare la sua personale sintesi lessicale; esemplare, la Parkins, per come inserisce   le peculiarità armoniche del suo accordion in un ambient d’avanguardia che si arricchisce, in tal modo, di coloriture popolari; senza alternativa il contributo di Hasselbring al trombone, viaggia con nonchalance supportando   ogni fermento, ogni esercizio improvvisativo ogni uscita sopra le righe in un componimento musicale immensamente godibile.


mercoledì 16 novembre 2011

Quartet (Mestre) 2008

Anthony Braxton
Diamond Curtain Wall Quartet

Caligola Records
Ha fatto tappa anche a Mestre la tournée dell’estate 2008 di Anthony Braxton e del suo trio-quartetto Diamond Curtain Wall,   nell’ambito del “Candiani Summer Fest”. Chi frequenta questo blog avrà già avuto modo di leggere la recensione del cd edito dalla Leo Records e registrato a Mosca, altra tappa di quella sua venuta in europa, con la medesima formazione. Quella serata di Mestre del 1° luglio 2008, grazie ad una  ripresa live, è oggi interamente disponibile in cd nel catalogo dell’etichetta veneziana Caligola Records che ha voluto corredarne la pubblicazione con  le note di un autorevole studioso del jazz quale è il musicologo Stefano Zenni. Il quartetto  è riproposto nella sua formula conosciuta con, oltre allo stesso Braxton ai fiati e ai live electronics (laptop), Katherine Young al fagotto, Taylor Ho Bynum ai fiati e Mary Harvolson alla chitarra. Il linguaggio usato è l’improvvisazione di cui il sassofonista è riconosciuto pioniere nonché tra i massimi esponenti contemporanei. La metodologia invece predominante è anche per il progetto della Diamod Curtain Wall Music quella che si relaziona con la durata temporale della performance regolata attraverso una clessidra. Il valore del tempo che si consuma con la messa in azione di questo strumento deve essere rigorosamente rispettato ma all’interno del relativo range temporale la libertà per ognuno dei protagonisti è garantita e non solo, in quanto un altro elemento va evidenziato, ovvero la mancanza di un’eccellenza dominante all’interno del quartetto. Così strutturata la performance si sviluppa sulle architetture di un esercizio improvvisativo intenso con i quattro musicisti impegnati ognuno nella propria singolarità a dare luogo nel complesso ad un mosaico di omogenea sinergia performante dalle sembianze cangianti ed in perenne evoluzione. In tutto ciò non posso esimermi dal trarre qualche breve annotazione: la straordinaria, già conosciuta, è vero!, duttilità ed estrosità di Taylor Ho Bynum, l’indefinibile originalità di Mary Harvolson, la rigorosità apparentemente accademica di Katherine Young, l’infinità e insaziabile oralità del grande maestro Braxton e l’incommensurabile campionario di suoni e le variabili ritmiche che si frappongono in quello che poi, nei fatti, è comunque un dialogo interattivo fra i quattro musicisti. Si conferma anche in questa occasione l’oculato e appropriato innesto del laptop e si ha la totale certezza che il progetto DCWM è l'ennesima originale intuizione del jazzman di Chicago.

domenica 13 novembre 2011

Upcoming Hurricane

Pascal Niggenkemper  
Simon Nabatov  
Gerald Cleaver  
  
NoBusiness
Il nome ne rivela le origini europee ma il contrabbassista, franco-teutonico, Pascal Niggenkemper  oggi è cittadino newyorkese e musicista rappresentativo di quella metropoli dove è  arrivato nel 2005 per proseguire i suoi studi al Manhattan School of Music con Jay Anderson grazie ad un premio DAAD concesso quell’anno dal governo tedesco  e dove ha conseguito successivamente il Diploma Master in Music Performance. Scrivo di lui perché mi è pervenuta da qualche settimana la sua ultima produzione discografica che segna un’altra tappa importante nella sua attività, da sempre intensa, malgrado i trentatreanni della sua giovane età, che lo ha visto membro della Henry Mancini  Institut di Los Angeles nel 2006 nonché componente di gruppi  di musicisti a fianco di Maria  Schneider, Vince Mendoza e Gonzalo Rubalcaba. A New York,  Niggenkemper è già stato parte di un trio con Robin Verheyen e Tyshawn Sorey, mentre in questo cd, uscito a settembre per l’etichetta NoBusiness, lo ritroviamo con Simon Nabatov al pianoforte e Gerand Cleaver alla batteria. Due musicisti dediti a frequentazioni d’avanguardia e quindi in ideale sinergia con la tendenziale scelta musicale che anche il contrabbassista ha operato in questi ultimi anni. La sobrietà della copertina che accompagna il cd dà già un’idea di ciò che le sette tracce da lì a poco esprimeranno ovvero un’essenzialità jazzistica che non concede nulla all’estetica formale e che invece risulta fortemente votata ad instaurare una fitta interazione. Il dialogo  si esplica a volte attraverso un  dilagante e magmatico  incedere nervoso, che ha in Cleaver un esaltante dispensatore di ritmi africaneggianti, altre volte creando scarni ambiti dialettici pervasi da reminiscenze classiche europee di cui il pianismo di Nabatov è intriso. In entrambe le condizioni Niggenkemper si mostra non solo a suo agio ma anche stimolato con tutto il suo preponderante campionario inventivo che lo strumento gli consente di esprimere senza dimenticare di rivelare, che ancor prima di dedicarsi al contrabbasso, è stato in tenera età pianista e violinista. Con cotanta dote innata e con il contributo di musicisti come Nabatov e Cleaver, Niggenkemper, ha realizzato una delle produzioni più interessanti di questi ultimi mesi, oltretutto, disponibile anche in vinile.


mercoledì 9 novembre 2011

Planetary Unknown

David S.Ware
Cooper-Moore
William Parker
Muhammad Ali

Aum Fidelity
E’ urgenza espressiva dirompente quella che il sassofonista David S.Ware esprime dai solchi di questo recente cd  dove è affiancato da Cooper-Moore, pianoforte, William Parker, contrabbasso, Muhammed Ali, batteria. Musicista prolifico costantemente impegnato ad interpretare e tradurre in musica ogni stimolo ispirativo indotto dalla sua creatività, S.Ware, è una figura quasi sacerdotale nell’ambito del free-jazz di cui è uno degli esponenti più rappresentativi. I tre musicisti che condividono con lui questa esperienza supportano e dialogano alla pari con il sassofonista: il pianoforte di Cooper-Moore contrappunta con altrettanta frenesia e fluorescenza le scorribande dei sax, William Parker è anche qui l’instancabile motore propulsivo della ritmica che conosciamo, mentre Ali dà corpo e profondità alla performance. Così “Passage Wudang”, traccia iniziale di questo cd, poco meno di 22 minuti di frenesia dialettica che non lascia vuoti di sorta nemmeno quando si assottiglia in un dialogo tra pianoforte e sezione ritmica. Poi il sassofonista torna a tracciare i tortuosi sentieri del suo free, con un incedere segnato da improvvise accelerazioni e puntamenti. Il finale del brano ha però una porzione riflessiva i cui toni si placano in un gioco lirico che coinvolge l’intero quartetto. Dopo i quasi 15 minuti di “Shift” e “Duality is one”, in piena e riconquistata bramosia free, arriva la trilogia: “Divination” / “Crystal Palace” / “Divination Unfathomable”, tre brani intrisi di una spiritualità gridata, con l'ampia vocalità dei suo sax, in piena devozione mistica. L’impeto e la passione di S.Ware riempiono ogni passaggio, il timbro è straordinariamente soul e viscerale, il quartetto sembra vivere momenti di profonda introspezione e anche in questi brani si fa strada un’aspetto sottilmente lirico del linguaggio autenticamente free che ha sempre contraddistinto il jazz di S.Ware. La traccia finale “Ancestry Supramental” ristabilisce il clima terreno e irruente della parte iniziale   e invita a ripremere il tasto play per un ulteriore ascolto e per una nuova esplorazione del Planetary Unknown  di David S.Ware e soci.


martedì 1 novembre 2011

Heart’s Reflections

Wadada Leo Smith’s Organic

Cuneiform
E’ un’opera complessa e densa di contenuti questo recente doppio cd del trombettista Wadada Leo Smith e del suo ensemble Organic. E lo è per gli elementi ispirativi,  per le strutture portanti dei brani , per il fitto intreccio sonoro  nonché per la configurazione dell’ensemble  che consta di ben 14 elementi, con lo stesso leader, e che comprende:  Casey Anderson e Casey Butler rispettivamente alto e tenor sax; Stephanie Smith: violin; Angelica Sanchez: piano ed  electric piano; Michael Gregory,   Brandon Ross, Lamar Smith e Josh Gerowitz: chitarre; Skuli Sverisson: basso e 6-string bass; John Lindberg: contrabbasso; Pheeroan Ak Laff: drums; Mark Trayle  e Charlie Burgin: laptop. Complesso è anche il personaggio e il musicista Wadada Leo Smith con il suo profondo misticismo affiancato ad  un’essenza jazz contemporanea a volte ruvida ma sempre vibrante. Già membro dell’AACM di Chicago, il trombettista, ha fatto parte, con Braxton e Leroy Jenkins, dei Creative Construction Company, gruppo tra i più avanzati espressi dall’associazione.   Profondo sostenitore della filosofia elettrica di Miles Davis e del suo linguaggio contaminato e contaminante che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del jazz e che ancora oggi è oggetto di diatriba tra gli appassionati.  La sua espressività qui si spinge  oltre e si imbeve  di sonorità ancora più abrasive rispetto a Davis, si arricchisce di feedback rock-blues, si fregia dei contributi  di due laptop, si presenta costellata di  episodi  funky e non si fa mancare atmosfere introspettive. Cinque i brani complessivamente contenuti nei due cd, di notevole durata e in taluni casi frastagliati in vari episodi sempre riferiti a personaggi di vari ambiti:  dal trombettista Don Cherry ad un maestro sufi,  dalla scrittrice Tony Morrison al compianto violinista e fraterno amico Leroy Jenkins. Umori dell’anima e passioni della vita di un trombettista d’avanguardia.





mercoledì 19 ottobre 2011

The Veil

Berne Black & Cline

Cryptogrammophone
E’ nell’est village di New York che ha sede “The Stone”  voluto da John Zorn per accogliere le anime libere del jazz newyorkese e i fermenti della Downtown. Ed è allo “Stone” che il 30 luglio del 2009 si sono incontrati il chitarrista Nels Cline, il sassofonista Tim Berne e il batterista Jim Black. Nella loro dotazione strumentale di quella sera c’è anche un laptop affidato alle attenzioni di Jim Black nonché gli armamentari elettronici utili all’elettrica di Cline. La performance è vibrante e giocata su toni rock e timbri elettrici come d’altronde la cifra stilistica, già ampiamente nota del chitarrista,  lascia immaginare. Il connubio con Berne è ben riuscito perché il sassofonista riesce ad interagire e confrontarsi con Cline mostrando adeguata  attitudine verso i ritmi fulminanti imposti dallo stesso. Anche per Black il percorso non presenta affanni di sorta perché il batterista arricchisce il suo drumming  di una scoppiettante fluorescenza. La registrazione scivola  dirompente attraverso le nove tracce, distinte solo nell’elenco riportato all’interno della copertina del cd, mentre si susseguono in assoluta continuità all’ascolto. La distinzione mi torna utile per definire con precisione alcune porzioni che si differenziano dall’incedere primordiale della registrazione. E’ il caso di “Momento” che individua una esecuzione dal clima rarefatto dove prevalgono sonorità elettroniche di enfasi contemporanea  con varie sfumature abrasive. E poi “The Barbarella Syndrome” che esplica una dialettica jazz attraverso un’iniziale interazione chitarra elettrica-batteria, ai quali si unisce più avanti il sax, in un intreccio frenetico e labirintico che sembra non avere fine. “The Dawn of The Lawn”, traccia n.5, ha ritmi pulsanti e strali ipnotici mentre le conclusive “Tiny Moment” I e II evidenziano rispettivamente, i fraseggi in crescendo di Berne contrappuntati dal multiforme chitarrismo di Cline e l’ambient imbevuto di effettismo elettronico di cui è opportuno propositore Black al laptop. The Veil nei fatti è un’incursione intensa tra suoni e ritmi mutuati in parte dal rock ma interpretati e reinventati attraverso una metodologia  jazz totalmente free. 

sabato 8 ottobre 2011

The Mancy of Sound

Steve Coleman and Five Elements

PI Recordings
Il sassofonista Steve Coleman appare sempre più concentrato sui dettami della filosofia Yoruba, propria di un popolo originario dell’Africa occidentale, il cui culto sembra proficuamente ispirare il musicista co-fondatore del collettivo M-Base, laboratorio di idee e formulario di innovazioni che ha  avuto nel tempo interpreti come  Greg Osby, Graham Haynes, George Lewis, Geri Allen, Vijay Iyer, Muhal Richard Abrams, Cassandra Wilson ed altri. Dopo il precedente Harvesting Semblances and Affinities Coleman sembra aver ripreso i suoi regolari ritmi di musicista e il tempo trascorso, all’incirca un anno, tra la pubblicazione appena citata e questo cd di cui mi sto occupando in questa recensione, è la prova più inconfutabile della ritrovata vena creativa del nostro. The Mancy of Sound è focalizzato sulle entità divine della religione Yoruba, a cui vengono associati  elementi naturali come acqua, fuoco, terra e aria. Ci sono poi riferimenti alle fasi lunari ed il tutto è traslato nel linguaggio jazzistico del sassofonista che ha nel ritmo  la sua linfa primordiale.  Il combo propone un front-line di fiati a tre voci che include oltre al leader Jonathan Finlayson alla tromba e Tim Albright al trombone, il contrabbassista Thomas Morgan, Tyshawn Sorey e Marcus Gilmore alla due batterie, Ramòn Garcia Pérez alle percussioni e la splendida vocalità della già apprezzata interprete Jen Shyu. Quest’ultima, come nella precedente produzione, è alle prese con il suo esclusivo wordless e non solo, perché in due episodi sono i testi della poetessa Patricia Magalhaes ad impegnarla. Il suo canto si affianca  ai fiati in un gioco di simbiosi, sorprendente per assonanza ritmica e temporale,  e il tutto è scandito  nella maggior parte dei brani da  una ritmica incalzante dalle cui pulsazioni si levano a turno gli interventi solistici improvvisati dei fiati. Il credo ritmico, dell’idea  colemaniana di jazz  mette in secondo piano la frase tematica  e dà risalto sempre più vistoso ad un alone latineggiante qui sempre più marcato grazie alla presenza delle due batterie e delle percussioni di Perez.  Due gli episodi che si rivelano disgiunti dall’architettura appena descritta e sono: “Formation I e II” esclusivamente per fiati e voce dove la simbiosi sopra descritta si realizza in tutta la sua pienezza unita ad un gioco di contrappunti e affiliazioni tra le  parti che è veramente uno dei momenti di più alto livello di una produzione superlativa che ci restituisce un Coleman nel pieno della sua ispirazione.
Assolutamente indispensabile! 

 

giovedì 29 settembre 2011

Envoi

Bill Dixon

Victo Records
Dopo aver postato la recensione di un’importante ristampa per la storia del jazz di tutti i tempi, quale ritengo sia Intents and Porpose, opera prima  del compianto grande trombettista Bill Dixon,   mi ritrovo ora a metter su, con un’inevitabile punta di tristezza la recensione dell’ultimo suo atto musicale: la registrazione del concerto tenuto da  Dixon il 22 maggio 2010, poco meno di un mese prima della sua morte, in occasione del 26° Festival International de Musique Actuelle di Victoriaville in Canada. Dixon è infatti scomparso il 16 giugno del 2010 dopo pochi mesi dall’uscita del suo riuscitissimo e intenso Tapestries for Small Orchestra di cui potete leggere qui la mia recensione pubblicata sul numero 269 de il Giornale della Musica. In Envoi  ritroviamo lo stesso gruppo di musicisti protagonisti del precedente Tapestry….. formato da Stephen Haynes, Taylor Ho Bynum, Rob Mazurek e Graham Haynes ai fiati; Glynis Loman violoncello; Michel Côté e Ken Filiano contrabbassi e Warren Smith vibrafono, batteria e percussioni. Due i brani in esso contenuti in forma di suite, che prendono il nome dal titolo del cd distinti come sezione 1 e 2 entrambi dalla durata intorno ai venticinque minuti seguiti da un breve epilogo finale, parlato, in cui Dixon ringrazia il pubblico. Il trombettista anche in questa occasione esibisce la sua inconfondibile cifra stilistica, il suo linguaggio che frantuma ogni schema precostituito, sia come tipologia che come struttura. Anche qui i timbri sonori sono gravi o lancinanti, le melodie brevi e frastagliate, i contrasti intensi e gli umori dirompenti o minimali. Siamo sempre più di fronte ad una concezione totale della musica, ad una distribuzione paritaria dei ruoli di ogni componente il gruppo, indipendentemente dallo strumento che ne traduce il lessico. Anche questa opera di Dixon somiglia ad un affresco pittorico dalle mille sfumature e dai contorni indefiniti con un elemento in più che si identifica nella dinamica cangiante ed invasiva, emotivamente parlando, verso chi ascolta. Indescrivibile comunque tutto il campionario espressivo di questo straordinario combo che esibisce una sezione di fiati imbevuta di estro e a secco di remore, un percussionista di enormi risorse, quale Smith da sempre è, un violoncello, quello della Loman che si fa puntiglioso e desideroso di protagonismo a fianco del contrabbasso entusiasmante di Filiano. Cos’altro aggiungere se non l’imprescindibile necessità di possedere quest’opera che chiude la preziosa serie di grandi opere di un artista certamente irripetibile nella storia della musica contemporanea.

 Giuseppe Mavilla

domenica 25 settembre 2011

Stars Have Shapes

Exploding Star Orchestra

Delmark Records
Una dedica speciale a due grandi del jazz come Bill Dixon e Fred Anderson, entrambi scomparsi nel giugno del 2010, accompagna questo cd della Exploding Star Orchestra che da tempo ridisegna gli ambiti tradizionali in cui di solito si esprimono gli ensemble allargati. Un orchestra già al fianco dello stesso Dixon che oggi ha in quel Rob Mazurek di CalmaGente, qui recensito qualche settimana fa, il suo leader maximo, nonché conduttore e compositore. Un musicista ispirato e innovativo come ormai dimostra di essere in ognuno dei contesti in cui è presente: dal Chicago Undergrond Duo al trio Starlicker senza dimenticare il quintetto di Sound is. Questo lavoro con l’Exploding Star Orchestra, tra le cui fila ritroviamo tra gli altri i più noti: Nicole Mitchell, Matt Bauder, Greg Ward, Jason Adasiewicz e il Mike Reed di Empathetic Parts già recensito in questo blog, si apre con il brano “Ascension Gost Impression” ed è introdotto da un breve fischio umano al quale si uniscono in rapida sequenza le note di un pianoforte, quelle di un vibrafono, i fraseggi liberi dei fiati e i contrappunti della sezione ritmica fino al formarsi di un intenso flusso sonoro in cui si fa spazio in maniera sempre più soffocante una sorta di rumore urbano. Poi di colpo, come chiudendo una porta che divide da un ipotetico luogo esterno, il rumore cessa e prende forma una splendida e armoniosa melodia. E’ una parentesi relativamente breve perché da lì a poco il fragore riprende alternando pause di fredda interazione in assoluta discontinuità formale. La successiva “Chromo Rocker” ricompone un quadro più omogeneo e mette in mostra un quid nervoso che pervade l’Orchestra sia dal lato ritmico che da quello armonico. “Three Blocks of Light”, terza delle quattro tracce presenti, è un campionario di suoni esotici umani ed elettronici intriso di un’ipnosi latente che avvolge l’ascoltatore: guizzi improvvisi, ora dell’uno ora dell’altro, tra brevi dialoghi spigolosi, in una atmosfera di trascendenza dalle logiche di interplay tradizionale. “Impression” in chiusura ci riporta alla realtà perché giocata su toni più comuni in cui comunque l’impronta tipica di Mazurek e soci è più che avvertibile. Un cd che sintetizza un accostamento riuscito e del tutto inedito tra acustica ed elettronica, e che aggiunge nuova linfa al futuro del jazz.

 

martedì 20 settembre 2011

Empathetic Parts

Mike Reed’s Loosy Assembly
482 Music
Il batterista e compositore Mike Reed, trentaseienne,  è uno degli attuali esponenti della scena d’avanguardia di Chicago nonché  membro dell’ AACM (Association for Advancement of Creative Musicians) di cui è stato nominato vicepresidente nel 2009. Componente della Exploding Star Orchestra ha realizzato lavori di rilievo con il quartetto “People, Places & Things” rielaborando il jazz in auge a Chicago nella seconda metà degli anni ’50 e realizzando in questo contesto ben tre cd: Proliferation,  About us e Stories and Negotiations. Questo  Empathetic Parts  invece è frutto della registrazione live di un  concerto tenuto nel novembre 2009 al Hideout di Chicago in occasione dell'  Umbrella 2009 Music Festival di Chicago. Accanto a  Reed  c’è  questa volta la Loosy Assembly: Greg Ward, sax alto, Tomeka Reid, violoncello, Jason Adasiewicz, vibrafono, Joshua Abrams, contrabasso a cui si aggiunge un ospite importante che unisce il passato e il presente dell’ AACM: Roscoe Mitchell, alto sax, soprano sax e flauto.  La lunga prima traccia, 33 minuti e quarantanove secondi, che da il titolo al cd, concepita con lucida progettualità dal batterista-leader,  consiste in un breve tema composto da Reed e affidato all’inventiva dei suoi compagni di scena. Oltre al tema il leader detta ad ognuno di loro una serie di regole da seguire nello sviluppo dell’improvvisazione soffermandosi su alcuni elementi ben precisi quali: toni prolungati, puntillismo, oscillazione, ostinati, tempi liberi e pause. Forte di questi dettami il gruppo si muove attraverso un’interazione fortemente intrisa di empatia alternando atmosfere cameristiche, con in evidenza il violoncello della Reid, ad un groove prettamente jazzistico che si materializza in tutta la sua fluida dinamicità quando a menar le danze è la sezione ritmica. Ed è qui che viene fuori la mutante contrapposizione  che caratterizza le varie fasi evolutive del brano, un intreccio continuo fra climi rarefatti e controllate tensioni che aprono improvvisi squarci intimistici per dialoghi, in trio o in duo, fra le varie anime del sestetto.  L’empatia fra le parti produce nel contempo un naturale  equilibrio partecipativo fra tutti i musicisti cosicché lo stesso Mitchell, seppure inconfondibilmente individuabile per la timbrica asciutta del suo strumento, per il suo incedere obliquo, per una certa ruvidità di toni, non va mai a caratterizzare in maniera assoluta la struttura esecutiva del brano. In chiusura Reed e soci ripropongono "I'll Be Right Here Waiting," inciso negli anni settanta dagli Air di Henry Threadgill ed è un ulteriore impinguarsi della reale constatazione di trovarsi di fronte ad una delle migliori incisioni da me ascoltate di questo 2011.




martedì 13 settembre 2011

Live at Teatro Donnafugata

ImproGressive Jazz Trio

autoproduzione
L’ImproGressive Jazz Trio è una realtà operante dal 2001 nell’ambito del jazz italiano, almeno nella sua originaria configurazione in duo. Paolo Battaglia e Maurizio Morello, membri fondatori del trio, entrambi chitarristi, hanno esplicato la loro proposta attraverso una produzione, Drops and SilenceGuitar Improvisations, che ha raccolto consensi in Italia e all’estero e con alcune loro esibizioni allargate ad alti strumentisti. In questo Live at Teatro Donnafugata, registrato lo scorso 19 novembre 2010, durante un’esibizione nell’omonimo teatro in quel luogo suggestivo quale è Ragusa Ibla, Battaglia e Morello sono coadiuvati da Enzo Di Raimondo, batterista,  che da anni si dedica all’approfondimento del suo strumento e che si porta dentro una naturale propensione a percorrere ogni tipo di esperienza musicale con la consapevolezza che, in ogni caso, tutto può tradursi in un arricchimento delle proprie capacità artistiche. Il cd è una autoproduzione inizialmente sottovalutata nel senso che un primo e veloce approccio  non evidenzia  tutto il notevole valore dell’opera. L’idea del trio così configurato si dimostra man mano che si va avanti negli ascolti  una scelta azzeccata e originale con le due chitarre posizionate ai lati opposti della scena sonora e con nella zona centrale la batteria. La registrazione  però mostra inevitabilmente tutta la sua artigianalità ma  questo non inficia, più di tanto, il suo  valore; per spiegarmi meglio voglio dire che se curata, sia in sede di ripresa che in studio, l’opera avrebbe senz’altro rivelato in misura maggiore il lavoro del trio. Il dialogo fra le due chitarre è pregevole e si gioca secondo una chiara filosofia jazz  fatta di rimandi e contrappunti in un sottile esercizio di interazione arricchito da sonorità accattivanti che riecheggiano J.J Cale e i Dire Street di Mark Knopler. Melodie e fraseggi ritmici dettate da Battaglia e Morello sui quali si inserisce con costante discrezione il percussionismo di Di Raimondo che, abilmente, non va mai oltre le righe evitando così di spezzare una gradevole atmosfera elettro-acustica intrisa di raffinatezza. I brani, tutti originali a parte la ripresa di “Three of a perfect pair” dei King Crimson, nascono dalla vena compositiva del binomio Battaglia-Morello, che rivelano nel contempo anche le loro doti di strumentisti, e sono caratterizzati da una  struttura ben definita con le porzioni improvvisative  inserite accuratamente  nell’ambito del naturale divenire esecutivo. Qua e là si avverte qualche debito di originalità, sicuramente facile da contrarre quando si è alle prese con un’esibizione live, ma questo trio ha tutte le carte in regola per sviluppare in un imminente futuro una proposta degna di attenzione.



 


lunedì 5 settembre 2011

Ghosts

Peter Evans Quintet

More is More Records
Ancora un trombettista in evidenza: Peter Evans, con un album  Ghosts di intensa musicalità e indovinata propensione a cercare spunto nel passato per abbozzare un linguaggio, senza costrizioni o limiti, libero di spaziare in un inedito presente. La sua biografia rende nota la sua frequentazione, fin dal 2003, della comunità musicale newyorkese, i suoi studi all’Oberlin Conservatory, la sua capacità di misurarsi in diversi ambiti musicali, dall’ironico progetto con i Mostly Other People Do the Killing al duo con Nate Wooley, e ancora il trio con Mary Harvolson e Weasel Walter, il cui ElectricFruit è stato qui recensito, per finire con la sua partecipazione al progetto Electro-Acoustic Ensemble di Evan Parker e questo solo per citarne alcuni. In  Ghosts, prima uscita per la sua neonata etichetta, Evans è in quintetto coadiuvato da Carlos Homs al piano, Tom Blancarte al piano, Jim Black alla batteria e Sam Pluta, live processing. Il lavoro, commissionato in parte dalla  SWR for the Donaueschinger Musiktage 2010 di Baden Baden (Germania), include sette tracce e si apre con “One to Ninety Two” una frenetica incursione tra gli stilemi, non proprio celati, di un post-bop di maniera che però si arricchisce di una carica esecutiva non proprio ricorrente e di intrecci elettronici e temporali che ne smontano i tratti consolidati. Qui Evans estrapola la melodia di un classico di Mel Torme e prova ad operarne, con notevoli risultati, una decostruzione. Il brano si sviluppa su diverse latitudini anche grazie all’impiego dell’elettronica che raddoppia lo strumento del leader su vari registri. La successiva “323” è giocata su due note in ritmo ostinato  con variazioni di tonalità e in atmosfera decisamente free. E’ il preludio alla sofisticata e ariosa ballad che da il titolo al cd il cui tema  questa volta è estrapolato da un noto brano di Victor Young “I Don’t Stand a Gost Whit You”. Il resto del cd propone le fluorescenze di “The  Big Chrunch”, le sciorinate sordinate di “Chorales”, i ritmi e le interazioni d’avanguardia ispirate dal grande Woody Shaw e dalle sue composizioni  in “Articulation” e la spumeggiante rielaborazione di una classica pop song la “Stardust” di  Hoagy Carmichael datata 1927.