venerdì 26 settembre 2014

Root of Things

Matthew Shipp Trio

Relative Pitch


Dopo Piano Sutras, uscito sul finire del 2013 e di cui potete leggere qui la recensione, riecco il pianista Matthew Shipp in trio con i fidati Michael Bisio al contrabbasso e Whit Dichey alla batteria, in questo cd uscito la scorsa primavera mentre oggi sono già disponibili  per i miei prossimi ascolti, i più recenti Cosmic Lieder The Darkseid Recital, in duo con il sassofonista Darius Jones, e il suo nuovo, piano solo, I've Been To Many Places. Di entrambi vi racconterò nelle prossime settimane. Root of Things è un album che travolge lo spazio temporale necessario per il suo ascolto, questo già ad iniziare dalla title track dal tema breve ma sublime sul quale, Shipp, innesca un ostinato e variegato reticolo improvvisativo.  L’intreccio delle parti è intenso, giocato su una miriade di note, di pulsazioni, di ritmi come quello che impingua la quasi interminabile “Jazz it”. C’è un solido legame col passato nel pianismo di Shipp e una grande interpretazione del presente, uno status ottimale raggiunto dal musicista, una sorta di maturata ed equilibrata espressività  dopo anni di esplorazione di orizzonti contaminanti. “Code J” ha una punteggiatura sfaccettata, ricca di accenti e incandescenze, ma non disdegna aperture delicate e morbide. La componente ritmica si sposta in prima linea nelle successive “Path” e “Pulse Code”. Nella prima, come nella seconda, sono le intro a risultare a totale appannaggio rispettivamente di Bisio che sfodera l’archetto alternandolo per buona parte alle dita della mano nell’esplorazione asettica di una scena sonora in cui a breve irromperanno pianoforte e batteria; di Dickey fantasmagoricamente fremente come ad annunciare, con il suo drumming dirompente le nervose e rimbombanti  giravolte di pianoforte e contrabbasso. Un altro capitolo inesauribile, anche dopo vari ascolti, della magnificenza artistica non solo di un grande musicista come Shipp, ma di un superbo trio della scena jazz contemporanea. 


domenica 21 settembre 2014

Oktopus Connection

Oktopus Connection

Setola di Maiale


Se l’etichetta discografica Setola di Maiale dichiara senza mezzi termini di occuparsi di musiche non convenzionali allora è sicuramente lecito trovare nel suo catalogo una produzione unica nel panorama jazz italiano. Oktopus Connection è il suo nome ma anche quello dell’ottetto tutto italiano che l'ha incisa. Otto musicisti che rispondono ai nomi di Riccardo Marogna, Piero Bittolo Bon, Alberto Collodel, Marcello Giannandrea e Nicola Negri ai fiati; Niccolò Romanin alla batteria e agli effetti speciali; Giambattista Tornielli al violoncello e Luca Ventimiglia al vibrafono. Tutti interessati alla ricerca nel campo del jazz sperimentale e guidati dal clarinettista e sassofonista padovano Riccardo Marogna. Come precisato da quest’ultimo, in sede di presentazione del progetto, si tratta di “un’improvvisazione collettiva su partiture grafiche” che tradotto in concreto delinea una serie di notazioni grafiche, tracciate dallo stesso Marogna, che danno vita a degli stadi sonori che vanno via via moltiplicandosi e in cui può ritrovarsi ogni musicista coinvolto. Il tutto si realizza naturalmente in relazione con altri musicisti ed ogni esecuzione ha una sua identità sempre diversa dalla precedente o dalla successiva . C’è nei fatti e alla base di questa concezione dello sviluppo dell’improvvisazione jazz, un preciso riferimento alla teoria dei grafi usata sia in matematica che in informatica. Sei le parti, in cui è suddivisa quella che poi può essere definita una suite, ognuna delle quali è identificata con un preciso numero e tutte denominate “Graph”. L’ascolto riserva sorprendenti paesaggi sonori in ambiti variegati, in cui prendono vita strutture multiforma che alternano intensi contrasti sonori a porzioni rarefatte. Si passa da atmosfere cameristiche ad interazioni puramente free e da un brano all'altro è tutto un brulicare di suoni e dialoghi imprevedibili. Tensioni e rilassamenti si alternano fra dinamiche in continua mutazione. E' un'esperienza di ascolto di grande impegno ma sicuramente ricambiata dalla qualità della performance che ci fa apprezzare un ensemble che guarda oltre il mare del prevedibile, percorrendo territori comuni a quelli battuti da musicisti come Anthony Braxton o Bill Dixon. Marogna e soci hanno molte frecce ai loro archi e sopratutto coltivano il gusto dell'azzardo. Avanti così ragazzi!


martedì 16 settembre 2014

Joy In Spite Of Everything

Stefano Bollani

Ecm



Non sono mai stato un ammiratore del personaggio Bollani, mentre ho sempre apprezzato e riconosciuto le qualità del musicista Stefano Bollani di cui non ho mai dimenticato il pregevole livello di lavori come Piano Solo e I Visionari  entrambi pubblicati nel 2006. Oggi a sorprendermi è questa nuova produzione per la Ecm. Nove composizioni ad esclusiva firma del nostro, tutte nuove di zecca, un quintetto che ingloba il collaudatissimo Danish Trio, con Jesper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria, e che si completa con il sassofono di Mark Turner e la chitarra di Bill Frisell. Un ambient gioioso e vivido, quello in cui si muove l’ensemble che predilige un’espressività intrisa di cool jazz, con temi di elevata fattura e porzioni improvvisative che mettono in stretta correlazione tutti i cinque musicisti. E se l’iniziale “Easy Healing” calipso morbido e sinuoso, annuncia piacevolmente l’alto grado di godibile ascolto che riserverà l’intera selezione, è “No Pope No party” eseguita in quartetto senza Frisell, a non nascondere la consueta ironia del giullare Bollani. Ma l’album offrirà gemme lucenti come “Alobar e Kundra” esempio lusinghiero di piano trio con il leader in cattedra; le armonie gentili di “Vale” questa volta in quintetto; l’estroso, quanto raffinato e cangiante, dialogo a due Bollani-Frisell  in “Teddy”. Torna il quartetto, senza Turner, nella traccia finale che da il titolo al cd ed è ancora un gioco a due tra Bollani e Frisell ma, questa volta, con il supporto solidamente ritmico di Bodilsen e Lund. Prova da dieci e lode per l’esuberante e magistrale pianista che ha integrato, meravigliosamente, un accorto Turner e un cesellatore fine e discreto come Frisell.


venerdì 12 settembre 2014

Mise en Abîme

Steve Lehman Octet

Pi


C’è una grande quantità di frenesia ritmica, di fiati fluttuanti, di concezioni moderne ed espressività alternative nel linguaggio del sassofonista Steve Lehman che, con lo stesso ottetto con il quale realizzò lo stellare Travail, Transformation e Flow, si ripropone in questo riuscitissimo cd. Qui il nostro prova a condensare la tradizione jazz, vedi la rilettura di alcune composizioni di Bud Powell come “Glass Enclosure” e “Parisian Thorougfare”, con i principi di armonia spettrale decantate e applicate dal compositore francese Tristan Murail. Il resto è una ampia apertura a tecniche e linguaggi avanzati della musica contemporanea, che trova l’ensemble in perfetta sintonia, impegnato in un gioco fittissimo di scompaginanti interazioni e fulminanti soli con un front-line di fiati che vede allineati, oltre al leader all’alto sax e ai live eletronics, Jonathan Finlayson, tromba; Mark Shim, sax tenore; Tim Albright, trombone. Poi il comparto ritmico, con Chris Dingman alla prese con un vibrafono preparato su misura, con accordature alternative, Drew Gress al contrabbasso e Tyshawn Sorey alla batteria. Dinamiche travolgenti in un ambient di sonorità urbane che incalzano l’ascoltatore, come nella splendida “Autumn Interlude” che segue l’omaggio in “Codes:Brice Wassy” al grande batterista camerunese o nella percussiva “Chimera / Luchini”. Poi, dopo tanto futurismo, ecco la già citata “Parisian Thorougfare” di Powell, una parentesi nostalgica e rarefatta che unisce, in una atmosfera spettrale, una vecchia registrazione privata di Powell, di cui si ascolta anche un parlato, con i fraseggi del sax di Lehman a chiusura di un disco prezioso da custodire con cura.