PI Recordings
Il
sassofonista Steve Coleman appare sempre più concentrato sui dettami della
filosofia Yoruba, propria di un popolo originario dell’Africa occidentale, il
cui culto sembra proficuamente ispirare il musicista co-fondatore del
collettivo M-Base, laboratorio di idee e formulario di innovazioni che ha
avuto nel tempo interpreti come Greg Osby, Graham Haynes, George Lewis,
Geri Allen, Vijay Iyer, Muhal Richard Abrams, Cassandra Wilson ed altri. Dopo
il precedente Harvesting Semblances and Affinities Coleman sembra aver
ripreso i suoi regolari ritmi di musicista e il tempo trascorso, all’incirca un
anno, tra la pubblicazione appena citata e questo cd di cui mi sto occupando in
questa recensione, è la prova più inconfutabile della ritrovata
vena creativa del nostro. The Mancy of Sound è focalizzato sulle entità
divine della religione Yoruba, a cui vengono associati elementi naturali
come acqua, fuoco, terra e aria. Ci sono poi riferimenti alle fasi lunari ed il
tutto è traslato nel linguaggio jazzistico del sassofonista che ha nel ritmo
la sua linfa primordiale. Il combo propone un front-line di fiati a
tre voci che include oltre al leader Jonathan Finlayson alla tromba e Tim
Albright al trombone, il contrabbassista Thomas Morgan, Tyshawn Sorey e Marcus
Gilmore alla due batterie, Ramòn Garcia Pérez alle percussioni e la splendida
vocalità della già apprezzata interprete Jen Shyu. Quest’ultima, come nella
precedente produzione, è alle prese con il suo esclusivo wordless e non solo,
perché in due episodi sono i testi della poetessa Patricia Magalhaes ad
impegnarla. Il suo canto si affianca ai fiati in un gioco di simbiosi,
sorprendente per assonanza ritmica e temporale, e il tutto è scandito
nella maggior parte dei brani da una ritmica incalzante dalle cui pulsazioni
si levano a turno gli interventi solistici improvvisati dei fiati. Il credo
ritmico, dell’idea colemaniana di jazz mette in secondo piano la frase
tematica e dà risalto sempre più vistoso ad un alone latineggiante qui
sempre più marcato grazie alla presenza delle due batterie e delle percussioni di
Perez. Due gli episodi che si rivelano disgiunti dall’architettura appena
descritta e sono: “Formation I e II” esclusivamente per fiati e voce dove la
simbiosi sopra descritta si realizza in tutta la sua pienezza unita ad un gioco di
contrappunti e affiliazioni tra le parti che è veramente uno dei momenti di
più alto livello di una produzione superlativa che ci restituisce un Coleman nel pieno
della sua ispirazione.
Assolutamente
indispensabile!
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