Mary Halvorson Septet
Firehouse 12 Records
Ingegno e creatività sembrano albergare in
azione costante nell’esercizio compositivo ed esecutivo della giovane Mary
Halvorson, musicista dall’aria di sprovveduta collegiale che affiancheresti
istintivamente a strumenti come il pianoforte o l’arpa e che invece in pochi
anni si è rivelata come un’esponente altamente innovativa dell’impiego di uno
strumento come la chitarra in ambito jazzistico. Amante di contesti vari come
il duo, il trio, il quintetto e da questo album in poi anche del settetto, la
Harvolson ha saputo rivalutare, o per meglio dire, rivelare un ruolo inedito e
affascinante per il suo strumento affiancandogli una ricca pedaliera che le
consente di variarne a proprio piacimento le timbriche. Oramai conosciutissima
in Italia dove arriva spesso in concerto con i suoi vari combo, la chitarrista
ha rilasciato di recente, quasi in contemporanea, due album di notevole
spessore: Sifter in trio con Kirk Knuffke (cornetta) e Matt Wilson (batteria)
nonché questo Illusionary Sea, come ho scritto prima, in settetto. E’ la prima
esperienza della musicista in questa configurazione ma anche questa volta, come le precedenti,
ciò che ci ritroviamo ad ascoltare è un’opera straordinariamente pregevole, certamente di spessore più sopraffino del già
citato Sifter. Per il settetto formato da Jonathan
Finlayson (tromba); Jacob Garchik (trombone); Jon Irabagon (sax alto); Ingrid
Laubrock (sax tenore); John Hébert (contrabbasso); Ches Smith (batteria) e
dalla stessa Halvorson (chitarra) quest’ultima
ha confezionato sette composizioni dai
temi raffinati e dalle strutture narranti che inglobano felicemente scrittura e
improvvisazione. I fiati hanno un ruolo primario condiviso con la chitarra
della leader, sempre sfaccettata e appassionante, mentre la ritmica dosa con
perspicacia il suo apporto forte della lucida professionalità di Hebert e della
fresca e incontaminata classe di Smith. Il layout espressivo del gruppo è
certamente unico e originale e si identifica nell’inedito accostamento tra le coordinate
da jazz moderno, intrise di intenso interplay e le incursioni della chitarra
della Halvorson, protagonista di serrati dialoghi con i fiati ma anche di invidiabili
innesti rockeggianti sempre con quell’esclusiva nonchalance che la contraddistingue.
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