Vijay Iyer
Ecm
Anche
per il pianista Vijay Iyer arrivano le lusinghe di casa Ecm e la consueta
produzione di Manfred Eicher. Nasce così Mutations,
suite composta nel 2005, qui eseguita con un quartetto d’archi e incastonata
fra tre composizioni di piano solo ed elettroniche, composte in un arco di tempo
che va dal 1995 al 2013. Un altro ambito, non del tutto noto del musicista
indiano, che si aggiunge alle già conosciute esperienze accanto al poeta Mike
Ladd, ultima: Holding it Down: The
Veterans’Dreams Project, che racconta dei sogni dei soldati americani sopravvissuti
alle guerre in Iraq e in Afghanistan, di cui presto leggerete la recensione su
questo blog, nonché all’esperienza in trio con Stephan Crump e Marcus
Gilmore nel riuscitissimo Accellerando.
Queste le produzioni più recenti di quello che è definito come un intellettuale
del jazz contemporaneo che oggi, con questo cd, oltrepassa gli steccati del
genere per approdare su territori dove è difficile delineare i contorni di un’espressività
che si fa di alto livello ma impossibile da etichettare. Le due tracce che
precedono la suite, che da il titolo all’album, ci propongono un Iyer totalmente
rapito dallo strumento, impegnato a tracciare l’essenza di una sottile melodia nell’iniziale
“Spelbound and Sacrosanct, Cowrie Shells and the Shimmering Sea” dall’ambient
intimo in cui traspare tutta la magnificenza del pianismo di Yyer. Con la
successiva “Vuln, Part.2” il nostro accosta l’elettronica di un laptop alle
note del suo strumento, fino a creare un’atmosfera rarefatta in cui il
pianoforte sembra viaggiare tra i meandri futuristici di una ipotetica
galassia. Gli spazi appaiono senza confini e suoni proiettati all’infinito. I
dieci episodi della suite “Mutetions” vengono introdotti dagli umori
cameristici dispiegati dal quartetto d’archi formato da Miranda Cuckson e Michi
Wianco ai violini; Karl Armbrust alla viola e Kivie Cahn-Lipman al violoncello,
impinguati da inedite sonorità elettroniche. Una suite che propone un’ampia
varietà di sfaccettature sonore e strutture variabili che trascinano in un
ambient certamente esclusivo, dove il pianoforte del leader diventa elemento di
forte interattività con il quartetto. Il combo si rivela un’entità
profondamente equilibrata, capace di elevarsi sulle note di una musicalità che
si fa sempre più intrigante, con il quartetto che nei sei minuti di “Automata”
quinto episodio della suite, si imbatte in un irto tracciato d’avanguardia che
frantuma la scatola sonora fin qui nota. I suoni elettronici si fanno più
preponderanti e si viaggia dentro un inedito tunnel di suoni. Gli episodi
successivi ci riportano dentro atmosfere cameristiche, costellati da passaggi in
crescendo e da momenti di profonda riflessione, in un mosaico cangiante e
imprevedibile. “Kernel” settimo episodio è un esercizio di variegata
interattività tra il pianoforte e gli archi che si muovono come all’unisono nel
successivo “Clade”. Così di episodio in episodio giunge la conclusiva “When We’re
Gone” terza traccia esterna alla suite, in un contesto ancora profondamente
riflessivo che chiude un album che al primo approccio non riesce a rivelare
tutta la sua magnificenza ma di cui ora, dopo ripetuti ascolti, sono totalmente convinto.