domenica 10 novembre 2013

Trio New York II

Ellery Eskelin

Prime Source


Sembrerà strano che un musicista come Ellery Eskelin, sassofonista da sempre proteso verso un linguaggio free e d’avanguardia, decida di ripescare alcune perle del songbook americano per riproporle in un album Trio New York II che fa seguito a un precedente primo episodio con identico titolo. In entrambi l’esperienza è condivisa con Gay Versace, all’organo Hammond B3 e con il batterista Gerald Cleaver, ma come erroneamente si potrebbe supporre il sassofonista non abbandona del tutto la sua nota propensione, bensì prova a rimodularla in quello che è un ricercato approccio e non una semplice e ruffiana ripresa di noti standard. E peraltro bisogna anche dire che il nostro non è nuovo a questo di esperienza perché è bene ricordare che è del 1996 un suo album per la Soul Note, The Sun Died, dedicato al sassofonista Gene Ammons. Nel 1999 invece arriva un album per Hatology, Five Other Pieces (+2) in cui vengono riproposti brani, tra gli altri, di Coltrane, Tristano e Gershwin. Tornando all’oggetto di questa recensione c’è da precisare che l’organo Hammond  e nella fattispecie, il B3, entra nell’orbita di Eskelin con Gay Versace, musicista più volte a fianco di Maria Schneider, compositrice e direttrice di orchestra multi premiata, ma anche, tra gli altri, del batterista-percussionista John Hollenbeck del quale è stato qui recensito l’ottimo Eternal Interlude con il già citato Versace alle tastiere. A proposito di quest’ultimo non si può sottacere relativamente al grande bagaglio d’esperienza che  si porta dietro insieme alle riconosciute qualità tecniche. Il trio si completa poi, come già scritto prima, con Cleaver alla batteria, vero asso nella manica, non solo per questa formazione ma per chiunque se lo ritrovi al fianco sulla ribalta o in studio. Le sue sensibilità artistiche sono immense accanto alle sue fantasie esecutive e alla incommensurabile capacità di saper captare e condividere al meglio il linguaggio altrui. E’ quindi una formazione quasi ideale quella del Trio New York che regala momenti intensi di piacere d’ascolto e  spunti di jazz d’alto livello attraverso le sei composizioni di questo cd. L’iniziale “The Midnight Sun” firmata da Lionel Hampton e Sonny Burke introduce all’ascolto al meglio, anche perché risulterà, poi, tra gli episodi più significativi dell’intero album. Eskelin e Versace esordiscono con un dialogo sinuoso e interattivo che si trascina piacevolmente per qualche minuto e che non cita per nulla il tema del brano che a sua volta compare solo dopo, quando viene esplicato con grande partecipazione e pervaso da umori struggenti che emozionano. Il trittico iniziale comprende poi una intrigante versione di “Just One Of Those Things” di Cole Porter, poco più di dodici minuti di fluido conversare dei tre musicisti, introdotto dall’esclusivo dialogo tra sax e batteria a cui si affianca successivamente l’organo Hammond deputato a sostituire l’assente contrabbasso. Poi è la volta dei soli: prima Eskelin, a ruota Versace e di seguito Cleaver. Momenti di piacevole ascolto si susseguono anche con la splendida versione della boppistica “We See” di Monk che insieme alle altre tre "My Ideal" "After You've Gone" e "Flamingo" danno l’esatta dimensione di quanto, questa intuizione di Ellery e soci, sia stata azzeccata. Non una scontata reinterpretazione ma molto di più: ovvero un rivivere con stimoli nuovi e un interplay ricercato e intriso di modernità, pagine immortali di americana memoria.


giovedì 7 novembre 2013

Femklang

Soren Kjaergaard
Ben Street
Andrew Cyrille

Ilk

E’ con deplorevole ritardo, ma a volte capita, che scrivo di questo cd firmato da un trio che riunisce il pianista danese Soren Kjaergaard e gli americani Ben Street, contrabbassista e Andrew Cyrille batterista. Il pretesto è una registrazione per l’etichetta danese Ilk Records, che opera dando visibilità all’attivissima scena jazz di Copenaghen e a musicisti che si muovono nell’ambito del free e dell’avant jazz. Questo di Femklang è un combo atipico che presenta una peculiarità propria ben definita. Una sorta di diversificazione del piano trio non come configurazione bensì come layout espressivo. Un tentativo certamente riuscito di elevare una sintassi tipicamente jazz in una forma sottilmente elegante e raffinata, sospesa in una interazione ricercata, interpretata in un ambito per certi versi free e per altri filtrato attraverso una concezione minimalista del lessico jazzistico. Quindi nessuna concessione a forme votate a captare adepti improvvisati ma, di contro, un ferreo percorso tendente ad esplicare una concezione del jazz più sofisticata. Kjaergaard appare come un prezioso cesellatore di fraseggi liberi incastonati con acume nel dialogo fitto con Street e Cyrille, musicisti abili e attenti ad inserirsi nell’orbita filosofica-musicale del giovane pianista danese. Il percorso si snoda attraverso nove composizioni firmate in prevalenza da Kjaergaard (ben 7) una firmata in coppia dallo stesso con Cyrille che a sua volta ne firma un’altra in solitudine. “The Loop” (variation one) introduce l’ascolto con un ritmo looppato, se mi concedete l’azzardo del termine, quindi ripetuto all’unisono su quale arrivano le pennellate al piano di Kjaergaard, mentre Street puntella il ritmo con estrema precisione temporale. Lo stesso brano torna in chiusura come ultima traccia ancora con ritmo ostinato ma leggermente variato. Fra queste prima e ultima traccia l’ascolto passa attraverso il climax rarefatto di “A Diminished Proposal”, la fluidità decisamente jazz di “Row No.!8”, il minimalismo acuto e assoluto di “Tale Of Weaving”, la sospensione celestiale di “Formindskede Smuler” e la luminosità di “Pedestre Pantonale”. Unico per la sua originalità questo è un album assolutamente da ascoltare, ecco perché merita di essere recensito anche se con un po’ di ritardo rispetto alla sua uscita.
  
Giuseppe Mavilla
 

domenica 3 novembre 2013

Shadow Man

Tim Berne’s Snakeoil

Ecm


Per il sassofonista Tim Berne arriva il secondo album con il quartetto Snakeoil, formato da Oscar Noriega al clarinetto e al clarinetto basso, Matt Mitchell al piano acustico, piano tuck e piano Wurlitzer e Ches Smith alla batteria, percussioni e vibrafono. Stessa formazione  del primo lavoro che ha raccolto ampi consensi dalla critica ed stato recensito a suo tempo, favorevolmente, anche in questo blog. Potete leggerne la recensione qui. Un’altra tappa di un viaggio che si fa sempre più avventuroso e ricco di sorprese per questo straordinario quartetto, dotato dell’esclusiva capacità del leader e dei suoi compagni d’avventura nel saper dosare, in un modo assolutamente unico, le parti scritte a quelle improvvisate e nel sapere inserire ed alternare momenti intensi e nervosi ad altri rarefatti. Anche questa volta viene a galla la bontà della scrittura compositiva del leader che firma in totale solitudine quattro dei sei brani inclusi nel cd, mentre per un altro ne condivide la genesi con Marc Ducret. La selezione si completa con il reprise di un brano del grande Paul Motian, “Psalm” riproposto in una versione introspettiva e densa di umori struggenti. Un brano scelto per omaggiare il ricordo di un musicista eccezionale che ha lasciato un vuoto indelebile nella storia del jazz contemporaneo. Scrivevo prima delle qualità eccelse delle composizioni di Berne che trovano ampi riscontri nell’interpretazione dell' intero quartetto capace di  costruire un mosaico variegato e imprevedibile soprattutto nei brani la cui durata ne determina, per gli stessi, la caratteristica di vere e proprie suite. Mi riferisco al secondo terzetto della selezione,  composta da brani la cui durata va dai quasi 23 minuti di “Oc/Dc” ai circa sedici di “Cornered (Duck)”. La prima si apre con un riff dal ritmo sostenuto, la seconda "Socket" con i fraseggi fluidi e nervosi del pianoforte di Michell, ma ben presto, in entrambi i casi, si susseguono momenti eterogenei come dialoghi a due, soli, interludi, crescendi vorticosi in una musicale e temporale continuità che lascia totalmente stupefatti.  La band si contraddistingua per una energia propulsiva incontenibile contrapposta ad una metamorfosi introspettiva che appare dietro l’angolo e si consuma con una naturalezza espressiva di grande fascino. Berne include prima nella scrittura e poi nella performance, una visione a 360 gradi dell’universo musicale, riservando  per se e per i suoi musicisti ampi spazi per l'improvvisazione creativa e interattiva. Il tutto appare strutturato e cadenzato con precisione matematica e nel contempo metabolizzato e condiviso anche dagli altri componenti il quartetto. Musicisti dotati come il leader di grande esuberante inventiva, a cominciare da Michell che affianca al pianoforte tradizionale le sfaccettature intriganti del piano preparato (piano tack) e del piano elettrico. E che dire di Noriega eclettico e ingegnoso con i suoi clarinetti, spesso incontenibile riversa con costanza, in alcuni passaggi, umori cameristici nel layout del gruppo. E non posso non citare Smith oggi tra i batteristi più fantasiosi, con un bagaglio tecnico da far invidia. Cos’altro aggiungere se non che Snakoil è un’altra lucida intuizione di uno straordinario musicista come Tim Berne.


giovedì 31 ottobre 2013

Transylvanian Concert

Lucian Ban / Mat Manieri

Ecm
 

Un newyorkese doc, Mat Manieri, e uno da adozione perché rumeno d’origine, Lucian Ban. Insieme, in concerto, il 5 giugno del 2011, al Culture Palace di Targu Mures in Transilvania. Due musicisti eterogenei per estrazione musicale. Il primo, figlio del sassofonita Joe Manieri è un esponente di punta dell’avanguardia newyorkese, suona il violino e la viola e vanta frequentazioni prestigiose nonché una sostanziosa discografia come leader e come sideman. Lucian Ban è invece un pianista di estrazione classica che di recente ha omaggiato il suo famoso connazionale George Enesco con un album di reintepretazione, in chiave jazz, di alcune composizioni di quest’ultimo circondandosi per l’occasioni di alcuni jazzisti come Ralph Alessi, John Hebért ed altri. Di questa incisione potete leggerne qui la recensione. Il concerto in Transilvania, riproposto in questo cd, ci presenta il duo alle prese con sei composizioni originali, una di Manieri, quattro di Ban, una scritta a quattro mani e il riarrangiamento di un brano tradizionale quale è  “Nobody Knows The Troubles I’ve Seen”. L’album è tra i lavori più suggestivi e intriganti di questi ultimi mesi ed evidenzia il pianismo di Ban denso di riferimenti classici, ma aperto a fraseggi ritmici prettamente jazzistici così come sempre puntale e opportuno nel contrappuntare i vorticosi percorsi della viola di Manieri. Quest’ultimo riesce magnificamente a dare un’ariosità lirica al suo strumento a corde e nel contempo non disdegna di variarne spesso la timbrica. La sua espressività è a volte struggente specialmente se accostata al fraseggio lirico del pianoforte di Ban. La complicità è totale fra i due protagonisti già a partire dalla prima traccia “Not That Kind of Blues” un blues celato in vari momenti del brano tra la struttura ballad del brano stesso.  E poi la successiva “Harlem Bliss” che si consuma tra umori struggenti in un ambient che richiama la tradizione musicale dell’europa dell’est. E ancora da citare la viscerale emozionalità della reinterpretazione di “Nobody Knows The Troubles I’ve Seen” e i toni più marcatamente jazz di “Darn”. Ci saranno giorni freddi e piovosi in questa stagione che avanza e apre le porte al duro inverno e allora lasciatevi accarezzare e godete delle delicate e intense emozioni che quest’opera può regalarvi.


venerdì 25 ottobre 2013

Arc Trio

Mario Pavone

Playscape



E’ il 1° febbraio 2013 quando il contrabbassista Mario Pavone riunisce il suo trio con Craig Taborn al pianoforte e Gerard Cleaver alla batteria. L’appuntamento si consuma al Cornelia Street Cafe di New York  e da quella session ecco  il relativo cd, che in questi giorni ascolto frequentemente dal mio player di casa o dal mio dispositivo mobile. Produzione superlativa che celebra la vitalità e la profonda connessione che i tre musicisti  operano con metodiche e dinamiche ritmiche propriamente afroamericane.  Ci si trova in qualche modo di fronte a  dei puristi del verbo jazz  che danno vita ad una performance vissuta con intensa partecipazione da tutto il combo. Arc Trio traccia, nei fatti, solchi e percorsi molti vicini a quelli di musicisti come Andrew Hill, a cui verosimilmente è dedicato il brano d’apertura, e  Paul Bley, come  riportano le note di copertina.  L’ascolto mette in evidenza le grandi doti del leader avvinghiato al suo contrabbasso in un esercizio esecutivo denso di ritmo e sfumature sottilmente liriche che,  per quanto cupe ed essenziali, affascinano perché debordanti di un’essenza primordiale e definitivamente jazz.  Protagonisti quanto lui sono anche Taborn e Cleaver, oramai approdati nell’olimpo dei  grandi del jazz contemporaneo, con il pianista intento a cesellare ragnatele di note fittissime con frequenti   variazioni ritmiche, spesso in forma di contrappunto altre volte esposte con fraseggi impeccabili. E che dire di Cleaver, drummer di gran pregio, accorto e sensibile ad ogni metamorfosi ritmica, istrionico e mai debordante, sobrio ma attinente in ogni contesto. I temi sono brevi ed accennati all’inizio e alla fine di ogni brano, ma  all’interno la performance si fa straordinariamente coinvolgente,  pervasa da un costante interplay e i tre musicisti si riservano ampi spazi  per l’improvvisazione e per i solo. Un’opera assolutamente essenziale per apprezzare gli elementi costitutivi dell’espressività jazz che Pavone e soci impinguano di esclusiva modernità.


Ascolta i sampler qui