giovedì 10 aprile 2014

Sound Form

Marco Dalpane

A Simple Lunch


Ci sono luoghi per natura deputati all’ascolto della musica dal vivo ed altri che ben si adattano a tale scopo. Di contro, a volte, può accadere di ritrovarsi ad ascoltare musica in ambienti totalmente negati a tale utilizzo. Fin qui tutto normale e risaputo, quello che sorprende invece è che uno dei musicisti più estrosi e imprevedibili del panorama musicale italiano, come il bolognese Marco Dalpane, fondatore e curatore della neo etichetta discografica A Simple Lunch, scelga di utilizzare una normalissima palestra scolastica che, nel suo sofisticato e immenso universo musicale, diventa improvvisamente un elemento complementare nel concepimento di una nuova idea espressiva. L’opera in oggetto, Sound Form, il cui sottotitolo recita: concerto per strumenti acustici e una palestra risonante è una ripresa dal vivo del concerto tenuto da Marco Dalpane presso la palestra della scuola elementare Romagnoli di Bologna il 24.11.2011. Il musicista bolognese, in totale solitudine, utilizza un pianoforte, un toy piano, una fisarmonica e delle percussioni ma soprattutto usa l’ambiente in cui è ospitato, non nel senso che lo rende adeguato al normale uso acustico per cui gli è utile, corregendone, in qualche modo e per quello che si potrebbe, i normali difetti di un ambiente nato per altre finalità. Dalpane sceglie l’esatto contrario, ovvero usa così com’è la palestra per diffondere la sua idea musicale e quindi la sua arte, sfruttando in modo positivo quegli elementi, in qualche modo negativi, come ad esempio i riverberi dei materiali della struttura della palestra. Ma c’è di più perché il nostro invita i presenti a muoversi  liberamente durante lo svolgimento del concerto proprio per fare in modo che si creano ulteriori e imprevedibili suoni-rumori. Inoltre non c’è nessun uso di sistemi elettronici al fine di creare effetti speciali ma soltanto cinque microfoni posti a distanze variabili dagli strumenti. A queste condizioni l'ascolto diventa intrigante perché ci predispone ad uno scenario sonoro del tutto inedito, una condizione in cui l'ambiente influisce in maniera decisiva nella propagazione dinamica dei suoni e nella loro timbrica. L'iniziale “The Center is Everywhere” che Dalpane esegue al pianoforte rivela un ambient minimalista che ritroveremo anche in altri successivi episodi, con le note e gli accordi che creano suggestive risonanze. Dopo due brani per sole percussioni è la fisarmonica ad entrare in scena in “Gulf Stream (North Atlantic Drift)” qui lo strumento sembra ingigantirsi fino a scomporsi in due, fino a darci l’illusione  di essere affiancato da un organo a canne. Dalpane ritorna al piano per regalarci una perla sonora di rara qualità “Mapping The Sky” infinita, avvolgente ed evocativa, sempre permeata da un alone minimalista, e poi l’inciampo ritmico nell’ostinato di “Magnifying  the Microbial World”, la struggente e sottile armonia di “Insight” e tanto altro. Sound Form coinvolge e appassiona, ascolto dopo ascolto, esce dai canoni tradizionali di un’espressività ricorrente per concezione e struttura, stabilisce un nuovo rapporto tra suono e ambiente e il suo autore si rivela come un acuto ricercatore di nuove prospettive per la musica contemporanea.


martedì 8 aprile 2014

Live at Maya Recordings Festival

Evan Parker / Barry Guy / Paul Lytton

NoBusiness
 

Dal Maya Recording Festival, edizione n.20, svoltasi dal 23 al 25 settembre 2011 a Winterthur in Svizzara, ci giunge questa registrazione live con protagonista il trio formato da Evan Parker ai sax soprano e tenore, Barry Guy al contrabbasso e Paul Lytton alla batteria. Poco più di sessanta minuti all’insegna della libera improvvisazione jazz di cui i tre musicisti sono da sempre tra i più qualificati propugnatori. Un esercizio sonoro e interattivo che non regala nulla all’estetica musicale ma che si sviluppa attraverso un’intensa performance intrisa di un’energia dirompente, frutto di un’urgenza espressiva insita nel verbo jazz del trio. L’iniziale “Obsidian” ci rivela, sin dalle prime note, la cifra stilistica del gruppo prima evidenziata che per i primi sette minuti, dei circa ventidue  della sua durata, si esplica in un ambien alimentato da una vibrante interazione ritmica, concedendosi una pausa intorno alla metà del brano quando lascia spazio a veri e propri vagiti sonori impinguati di minimalismo, fra accenni e sussurri fugaci che si intersicano e si aggrovigliano prima di tornare a dare spazio ad una incalzante frenesia che presto torna a predominare. L’ostinato del sax di Parker pervade buona parte della successiva “Chert” che durate i suoi poco più di tredici minuti, ci propone un fenomenale Guy al contrabbasso, suonato con l’archetto, in un’oasi di travolgente inventiva. Suoni viscerali e ruvidi nell’intro di “Gabbro” che impegna l’intero trio e poi un forsennato dialogo tra i due alfieri della ritmica, Guy e Lytton e uno stratosferico solo di quest’ultimo. Vicente ed essenziale nell’espressività del trio la propulsione ai fiati di Parker, incessante il suo contributo, il suo tracciare circonferenze dinamiche avvolgenti, il suo rilasciare impulsi come bagliori taglienti in un mare magnum di stimoli da strutturare in assoluta libertà.

lunedì 24 marzo 2014

Meets Zappafrank

Orchestra Spaziale

A Simple Lunch


Ripensare l'opera di Zappa, riscriverne le partiture, riarrangiarne le parti, reinterpretarla alla luce delle esperienze musicali che la storia della musica ha evidenziato in questi anni è di certo una tentazione, un cruccio per ogni musicista attento alla contemporaneità. L'esperienza dell'Orchestra Spaziale di cui vado ad occuparmi è certamente una delle più positive in tal senso e giunge a noi, adesso, grazie all'attività della A Simple Lunch neo etichetta discografica indipendente con sede a Bologna, diretta da Marco Dalpane, bolognese, musicista dalle ampie vedute e dalle mille attività, attento alla classica così come alla contemporanea, al jazz e a tutto ciò che ha a che fare con le sette note. Meets Zappafrank è un progetto nato nel 2000 che, come racconta Giorgio Casadei nelle note di copertina, fu suggerito dal musicologo Giordano Montecchi  nell'ambito della rassegna Il suono e l'onda in programma quell'anno a Reggio Emilia, il quale immagino un omaggio al grande Frank Zappa e identificò nell'Orchestra Spaziale l'ensemble ideale per poterlo realizzare. Un progetto dispiegatosi nei cinque anni successivi con una serie di concerti ed esibizioni pubbliche per poi essere, successivamente in studio, definito con una serie di revisioni e remix fino a renderlo un'opera discograficamente fruibile. Una selezione di undici brani che abbracciano i due periodi più significativi dell'era zappiana ovvero l'esperienza con i Mothers of Invention e quella con il Joe's Garage che fa rivivere lo spirito dell'indimenticabile Frank a partire dall'iniziale “Regyptian Strut” pomposa e dilagante subita seguita dalla dirompente “Let's Make The Water Turn Black” introdotta dal fraseggio lirico del sax tenore di Marco Zanardi e che prelude all' esordio della singolare vocalità di Vincenzo Vasi in “The Torture Never Stops” che ricorda, con la giusta enfasi, quella di Zappa ma senza scontate scimmiottature. Straripante poi, nella seconda parte del brano, il dialogo fra la chitarra di Alessandro Lamborghini e la voce dello stesso Vasi in una orgia sonora lancinante e partecipata. Ogni brano, ogni frazione esecutiva riporta viva e presente la magia del grande genio italo americano, pur nella costante sovrapposizione, alle strutture basi dei brani, di dinamiche jazzistiche che vedono riservare notevoli spazi all'improvvisazione. E’ ciò accade, ad esempio, in “Uncle Meat / Right There” che vede in primo piano la esclusiva dialettica del mai dimenticato Alfredo Impullitti al pianoforte. Sono varie le peculiarità riscontrabili nei vari brani, nella maggior parte dei casi densi di improvvisi cambi di tempo e di ambient, difficili peraltro da descrivere in una recensione, allo stesso modo dei soli, senza rischiare di annoiare il pur dedito lettore. Il tutto per il fatto che nel progetto sono stati coinvolti ben 20 musicisti che si sono alternati nei vari concerti e tra i quali vanno citati Giorgio Casadei che ha curato gli arrangiamenti e la direzione orchestrale oltre a suonare la chitarra elettrica nonchè Marco Dalpane che ha suonato in alcuni brani il pianoforte e le tastiere e curato la produzione insieme a Riccardo Nanni. Quella che mi ritrovo ad ascoltare si delinea come un’opera singolare e coraggiosa che va ascoltata senza pregiudizi e con dovuta attenzione. Solo in tal modo è possibile carpirne la valida essenza.

mercoledì 12 marzo 2014

Yuria's Dream

Adasiewicz / Erb / Roebke

Veto


Ho avuto diverse opportunità, in questi ultimi mesi, di ascoltare le produzioni del sassofonista e clarinettista svizzero Christoph Erb, musicista fino a pochi mesi fa a me sconosciuto e che ho scoperto grazie ad un contatto in rete tracciato nei miei confronti dallo stesso. Questo è il quarto cd di cui scrivo fra quelli da lui realizzati, potete leggere le recensioni dei precedenti pubblicate qui, qui e qui, e anche questo è stato inciso al King Size studio di Chicago questa volta in compagnia di Jason Adasiewicz al vibrafono e Jason Roebke al contrabbasso. Cambiano i compagni di scena, come scoprirete se andate a leggere le precedenti recensioni, ma non il gusto di improvvisare e di dialogare senza nessun canone preordinato. Un incontro fra i tre datato novembre 2013 avvenuto naturalmente nella città del vento, un incontro dilatato attraverso una suite, da cui prende nome il cd, della durata di circa 43 minuti. L'intro è, come logico che sia, quasi da studio, un primo contatto per coordinarsi per trovare territori comuni  in cui l'espressività abbia una precisa relazione. A tracciare il percorso è il tenore di Erb con i suoi fraseggi sinuosi, imprevedibili per dinamica e timbrica, a volte al limite dell'udibile, altre volte soffocati o inaspettatamente lirici, contrappuntati dalle pregevole sonorità del vibrafono e puntellati dal contrabbasso. Ma in questa performance dopo i primi otto minuti si incomincia a respirare un'atmosfera diversa dalle precedenti esperienze che mi sono note nella discografia del musicista svizzero. Avverto una piacevole omogeneità sonora, una convergenza spontanea su un layout esente, quasi totalmente, da spigolature abrasive, un andamento sempre più votato all'intreccio dei ruoli da parte dei tre attori unici dell'atto performante. Dopo poco più di un quarto d'ora, dallo start d'avvio, i tre musicisti proseguono con fluidità nello svolgimento della loro attività d'interazione, lasciando subito dopo spazio ad una pausa minimalista affidata a suoni appena pronunciati. Una breve pausa utile a riprendere l'interplay che vede in primo piano sonorità intense che creano atmosfere surreali, con Erb che passa al clarinetto basso, Roebke che impugna l'archetto e Adasiewicz a chiudere il triangolo con le note cromatiche del suo vibrafono. La parte rimanente ci riserverà ancora porzioni minimaliste, dialoghi in qualche momento più intensi tra fiati e vibrafono ma rimarrà intatta quella fluidità e quella leggerezza dialettica che già si avvertiva fin dall'inizio e che rende questa produzione veramente speciale e riuscita. Un plauso sincero ai tre protagonisti.

martedì 11 marzo 2014

Floodstage

John Hébert Trio

Clean Feed


Il contrabbassista John Hébert riunisce il suo trio con il batterista Gerand Cleaver ed il pianista francese Benoit Delbecq, con i quali ha già inciso il riuscitissimo Spiritual Lover, per dare vita ad un album che accosta le dinamiche afroamericane, ben gestite da un'accorta sezione ritmica, un binomio tra i più attivi sulla scena newyorkese, con il layout espressivo, sicuramente personalissimo, del pianista francese, segnato da una forte influenza della cultura musicale europea. Undici composizioni della quali dieci originali, nove firmate da Hébert e una da Delbecq ai quali si aggiunge la ripresa di “Just A Closer Walk With Thee” brano di gospel tradizionale. Ricercato, e per alcuni aspetti innovativo, il pianismo di Delbeq che spesso fa pensare a Jarrett, già dalla prima traccia “Cold Brewed” dal climax sospeso nella quale il musicista introduce l'uso del sintetizzatore che si aggiunge ai suoi pregevoli fraseggi sulla tastiera acustica. Grande il lavorio sulle quattro corde del contrabbasso di Hébert, pulsante e dialogante mentre Cleaver da par suo cesella ogni passaggio con un accurato e sopraffino drumming. Poi due soffuse ballad “Tan Hands” e “Red House in NOLA” in cui il trio si immerge in un'atmosfera magnificamente aderente al modus operandi di Delbecq. Si passa dalle dinamiche fluide e contrappuntate di “Holy Trinity” prima di arrivare al già citato rifacimento di “Just A Closer Walk With Thee” in cui trovano naturale esplicazione quegli umori blues, che già mi era apparso di avvertire nel pianismo di Delbecq, durante i brani precedenti. Poi è il clavinet a fare la sua comparsa in “Saints” in totale solitudine e con la timbrica di una marimba o di un xilofono, mentre nella successiva “Sinners” rimane in primo piano ma torna la sezione ritmica. Un album questo Floodstage che potrebbe risultare leggermente ostico ai primi ascolti e non rivelare di contro tutta la sua specifica e singolare bellezza, fortemente insita in ognuno degli episodi che compongono la selezione. E allora, se necessario, provate a perseverare, ascolto dopo ascolto e finirete per appassionarvi.

Giuseppe Mavilla