lunedì 24 settembre 2018

Zero

Matthew Shipp

Esp


di Giuseppe Mavilla

In quartetto, in trio, ma anche in duo, nonché al piano solo, il pianista e compositore Matthew Shipp è da sempre attivissimo sulla scena jazz newyorkese, in questo ultimo album Zero, pubblicato per la Esp in contemporanea con Sonic Fiction, altro album realizzato sempre per la stessa etichetta ma in quartetto con Whit Dickey, Michael Bisio e Mat Walerian, il nostro, reinventa in totale solitudine il concetto di improvvisazione attraverso undici brani tutti autografati. Nessun elemento ispirativo dell'opera, lo Zero del titolo non è una scelta casuale e così l'apertura, con la title track, è densa di fraseggi improvvisati interrotti qua e là da un tema lirico che spiazza per l'intensità espressiva che esplica. E' un musicista, Shipp, che sembra anche questa volta elevare il suo strumento, renderlo maestoso, assolutamente coinvolgente, come accade quando le sue gesta alla tastiera si vestono di una velatura classicheggiante. Ed ecco “Abyss Before Zero” minimalista nell'intro e nella prima parte, tutta in crescendo nella seconda. E' ciò che ritroviamo anche in “Cosmic Sea” che arriva dopo due episodi contrassegnati da un'urgenza espressiva incalzante tanto quanto la ragnatela di note di “Skip and a Jump” che precedono uno dei brani più sofisticati dell'intero album: “Zero Subtract From Jazz” che si apre con un tema accattivante e si eleva in varie direzioni prima di lasciare la scena ai rivoli blues di “Blue Equation”. A chiudere “After Zero” quasi una conseguenza, una deduzione di quanto percorso attraverso i dieci brani che hanno preceduto quest'ultima. Shipp abbandona i risvolti swinganti, le sfumature classicheggianti e le tortuose traiettorie improvvisative sulle quali ci eravamo imbattuti per dare spazio ad un ballad rarefatta, spigolosa e dai toni freddi che a tratti ammicca una debole melodia mentre inciampa su improvvisati ostinati e grovigli di note. 
Uno sguardo al futuro? ..........di certo un altro tassello di pregevole fattura nella discografia di Shipp.

domenica 6 maggio 2018

Il quartetto The Sync e il trio di Sylvie Courvoisier al Torresino di Padova

Un altro appuntamento della rassegna del Centro D'Arte 2018.
di Giuseppe Mavilla

28 aprile 2018




Questa volta è stato una sorta di doppio concerto, quello svoltasi al Torresino di Padova il 28 aprile scorso, un'altra tappa della rassegna che ogni anno  Veniero Rizzardi, Stefano Merighi e Nicola Negri curano per il Centro D'Arte degli studenti dell' Università di Padova. Rassegne che raccolgono puntualmente fior di consensi, sempre strameritati, perché ogni anno nelle consuete location che ospitano i concerti, Sala dei Giganti di Liviano e Teatro Torresino, arrivano musicisti esponenti di quell'area più avant e più stimolante del jazz contemporaneo.

domenica 22 aprile 2018

D'Agala

Sylvie Courvoisier Trio

Intakt


Se si va a leggere la biografia della pianista svizzera Sylvie Courvoisier si scopre con quali musicisti si è trovata a suonare (John Zorn, Mark Feldman, Mary Halvorson, Ingrid Laubrock, Tim Berne, Joey Baron, Joëlle Léandre,Butch Morris, Evan Parker, Nate Wooley, Tomazs Stanko, Susie Ibarra, Wadada Leo Smith) solo per citarne alcuni e quanti album ha inciso (25 da leader e altrettanti come co-leadert) e allora ci si rende conto di quale sia la statura artistica della musicista nata a Losanna ma dal 1998 cittadina di Brooklyn.

Tutto ciò per introdurvi nella sfera artistica della Courvoisier che ha inciso questo album  in trio con Drew Gress al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria. 

Una serie di brani, nove in tutto, ognuno dei quali dedicati ad altrettanti personaggi, a partire dall'iniziale “Imprint Double” dedicata al padre Antoine, percussiva, dirompente, con pause minimalistiche che accennano delicate riflessioni liriche. Brano variegato con aperture pianistiche di ampio respiro che da già l'idea di una musicista che abbraccia, sia nella composizione che nell'interpretazione, vari ambiti come quello del jazz più libero, infatti troviamo “E'clats For Ornette” dedicata ad Ornette Coleman, con i tratti urgenti e free tipici del musicista a cui è ispirata. Ci sono poi elementi del mondo classico e del jazz più avanzato così ben affiancati in “Simone” dedicata alla francese Simon Veil; c'è tristezza e introspezione nella title track, intrisa di minimalismo e dedicata alla pianista Geri Allen, scomparsa nel giugno del 2017. A seguire ancora un omaggio ad una pianista, la conterranea Irène Schweizer, paladina di grandi incursioni in ambito free qui peraltro rappresentate magnificamente, rese vivide e pulsanti da una sezione ritmica, la coppia Gress-Wollesen, veramente esemplare.

Si chiude con la celebrazione di un altro musicista scomparso, il chitarrista John Abercrombie, con “South Side Rules” introdotta dal binomio ritmico e illuminata, di seguito, dal pianismo intenso e cangiante della Courvoisier.

D'Agala è la prova maiuscola di una grande musicista e del suo trio.

Giuseppe Mavilla

mercoledì 18 aprile 2018

Hecate’s Hounds

Dogwood

nusica.org


E’ l’inedito duo italo americano Dogwood a firmare la dodicesima produzione di nusica.org, un duo che di fatto potrebbe definirsi a stelle e strisce vista la residenza newyorkese del musicista, chitarrista italiano, Nico Soffiato, veneto di Padova, ormai da tanti anni cittadino di Brooklyn, New York, e dal contrabbassista Zach Swanson originario del Massachusetts, ma anche lui da tempo a Brooklyn.

Due musicisti che vivono e sono parte della scena musicale di quella città, aperti a varie tipologie di esperienze in ambito jazzistico come Soffiato che fa parte tra l'altro dell' Ost Quartet di cui qui troverete la recensione di un album, mentre Swanson è da sempre attivo per qualsiasi genere di collaborazione musicale. 

In questo album, insieme, danno vita a un dialogo fitto, a volte soffuso, altre volte intrigante, a tratti improvvisato. Un dialogo, comunque, sempre impinguato da una straordinaria voglia di celebrare il jazz attraverso dieci brani originali, autografati, nella maggior parte dei casi, dal chitarrista italiano. È un intreccio sonoro sfaccettato, una ragnatela di note da cui sbucano qua e là accenni di melodie, blues ballad, ricercatezze d'avanguardia e appunti cameristici. 

Lampi di luce e fumosi angoli bui di assoluta introspezione.


martedì 17 aprile 2018

Orbite

XY Quartet

nusica.org


L'undicesima produzione dell'esclusiva etichetta nusica.org è il terzo lavoro discografico dell'XY Quartet di Nicola Fazzini e Alessandro Fedrigo, due dei musicisti più rappresentativi dell'etichetta trevigiana. Rispettivamente al sax e alla chitarra basso acustica, sono affiancati da Saverio Tasca al vibrafono e Luca Colussi alla batteria in un album ispirato alle prime avventure spaziali di cui furono protagonisti i cosmonautici russi e statunitensi e a cui sono intitolati i vari brani. 

Con questo lavoro si fa sempre più definita ed esclusiva l'identità del quartetto e si fa sempre più raffinata e ricercata l'espressività che lo contraddistingue. Un layout in cui si rafforza una certa predisposizione a rendere fluida e articolata l'esecuzione e in cui si riservano notevoli spazi all'improvvisazione. Su questo versante si muovono il vibrafono di Tasca e il sax di Fazzini tra i quali si inserisce puntualmente  anche la chitarra basso acustica di Fedrigo, vero specialista e cultore di questo strumento. Fazzini è chiaramente la vocalità primaria del quartetto, Tasca l'elemento illuminante le traiettorie dello sviluppo del brano e le sinergie tra i vari strumenti; Fedrigo e Colussi deputati alla ritmica che da corpo e vigore alle dinamiche sonore. Quelle che si ascoltano sono otto tracce nate dalle fervide menti di tre dei quattro componenti il quartetto, tre composizioni a testa per Fazzini e Fedrigo e due per Tasca, che danno l'idea di un jazz fortemente ancorato all'esercizio compositivo, una scrittura che apre sempre all'improvvisazione strutturata ad incastro all'interno dei brani. 

In definitiva l' XY Quartet con Orbite continua a tracciare geometrie sonore inedite, un'infuso di ambient cameristico e stratificazioni colemaniane tutte da ascoltare e approfondire, anche attraverso l'ampia documentazione, partiture e altro, disponibile sul sito dell’etichetta.


giovedì 12 aprile 2018

Intervals 1

Franco D'Andrea Octet

Parco della Musica



Dopo le esplorazioni in trio degli ultimi tre album della sua discografia, quelli pubblicati tra l'aprile 2016 e il febbraio 2017, Trio Music vol.1-2-3, Franco D'Andrea riunisce i sei musicisti che con lui hanno suonato in questi lavori e  con l'aggiunta di un chitarrista, forma  un ottetto per un progetto inedito: Intervals 1, registrato dal vivo al Parco della Musica di Roma il 21 marzo 2017 e di cui in autunno verrà riproposta una versione in studio. Otto brani originali concepiti e interpretati, oltre che dallo stesso D'Andrea al pianoforte, da Andrea Ayassot ai sax alto e soprano; Daniele D'Agaro al clarinetto; Mauro Ottolini al trombone; Enrico Terragnoli alla chitarra; Aldo Mella al contrabbasso; Zeno De Rossi alla batteria e Luca Roccatagliati alle elettroniche. 

E' un D'Andrea che apre nuovi orizzonti alla sua musica, che guarda con grande attenzione ad una espressività densa di free, seppure non manca una sorta di strutturazione degli interventi e degli inserimenti che danno vita allo sviluppo dell'idea che sta alla base di ogni brano. E' inoltre un D'Andrea che riporta nell'ottetto quanto già sperimentato in uno dei tre album in trio e più specificatamente nell'ìncontro con il dj Rocca (al secolo Luca Roccatagliati) mentre è totalmente inedito il coinvolgimento del chitarrista Enrico Terragnoli. Il risultato è un album intenso che si apre con un esercizio stilistico del leader che traccia poi le coordinate di quello che sarà il tema del brano che prende forma gradatamente e che si sviluppa in un crescendo vorticoso fino a culminare in una apoteosi corale di libera espressività, prima che tutto si affievolisca per poi scemare. E' invece una sorta di interludio l'intro di “Afro Abstraction” tutto ad appannaggio dei fiati, lamentosi, borbottanti, mentre si fa avanti la ritmica ipnotica, incalzante, ricca di ostinati che intersecano gli interventi svolazzanti di ogni componente l'ottetto. Arduo descrivere tutto ciò che si genera nei 12 minuti di durata del brano che precede la terza traccia “Intervals 2 / m2+m3” che si apre sulle note quasi hard-rock della chitarra di Terragnoli e le elucubrazioni elettroniche di Dj Rocca prima che il tutto si trasmuti in un incedere blues. 

Man mano che l'ascolto scorre di brano in brano ci si rende conto della potenzialità artistica del pianista di Merano di cui non finiremo mai di scrivere anche a costo di annoiare i nostri lettori, un musicista mai appagato di novità e sempre alla ricerca di stimoli nuovi e di sfide intriganti. Nel contesto dell'album in oggetto è straordinaria la capacità sua e dei suoi musicisti di fare sintesi tra tradizione e contemporaneità, basta ascoltare “Intervals 3 / Old Jazz”, di amalgamare suoni elettrici e acustici senza risultare inopportuno e banale, di concepire un'opera certamente unica nella produzione del jazz di oggi. Un musicista che potrebbe sedere sugli allori di una produzione che abbonda di preziose perle sonore a partire da quelle firmate “Perigeo” e che passa ancor prima attraverso un'altra opera unica della sua ampia discografia, quel Modern Art Trio registrato nell'aprile del '70 a Roma insieme a Franco Tonani alla batteria e Bruno Tommaso al contrabbasso. 

Tornando alla realtà di oggi devo aggiungere che D'Andrea con il progetto Intervals interpreta come meglio non potrebbe il concetto di jazz legato alla estemporaneità, ovvero alla sua essenza primaria dell'improvvisazione e quindi connesso alle condizioni ambientali e umorali di ogni singolo musicista. Ed ecco quindi la felice ed opportuna scelta di riproporre in autunno lo stesso progetto, questa volta però attraverso una registrazione in studio, come già anticipato in apertura di questa recensione. 

Nell'attesa godiamoci Intervals 1 una felice intuizione, un'opera di valore assoluto.

domenica 14 gennaio 2018

Harvesting Minds

Filippo Vignato Quartet  

Cam Jazz  


Fino a qualche anno fa si scriveva di Filippo Vignato come di un giovane musicista jazz ricco di talento e molto promettente. Poi sul finire dell'estate 2016 arrivava il suo Plastic Breath in trio con il pianista francese Yannick Lestra e il batterista ungherese Attila Gyarfas e a fine anno il referendum della rivista Musica Jazz lo incoronava “Miglior Nuovo Talento” del Top Jazz 2016. A più o meno dodici mesi dall'uscita di Plastic Breath  ecco Harvesting Minds in quartetto con Giovanni Guidi, Mattia Magatelli e Attila Gyárfás, rispettivamente pianoforte, contrabbasso e batteria, con un album che non ritorna sulle spigolature e sui suoni elettrici del precedente ma viaggia su territori più raffinati utilizzando sonorità prettamente acustiche. Un album che denota una raggiunta maturità compositiva, espressiva e stilistica che il musicista veneto esibisce nelle undici tracce che lo compongono. Il tutto è già evidente nell'intro di piano solo della title track: un tema struggente che ci catapulta nell'universo sonoro di questo album nel quale Vignato sciorina pregevoli melodie. Il suo trombone si esprime con autorevolezza e rara attinenza in ogni situazione, debordante sempre e comunque di una identità sonora che da tempo lo contraddistingue. Coadiuvato come meglio non si potrebbe da Guidi al pianoforte e da una splendida sezione ritmica, sviluppa le sue composizioni tra scrittura e improvvisazione. Brani come “Just Before Leaving” sono insieme alla rassicurante “Home” e alla sofisticata “Neverland Last Days” i migliori esempi di quanto ho appena affermato. Ma non è tutto, perché andando avanti nell’ascolto ci si imbatte in episodi di singolare esclusività che vedono il trombonista vicentino in totale solitudine nell’ironico e clownesco “Dark Glare”;  in tandem con il contrabbasso di Magatelli in “Reflections” e in trio, pianoless, nell’articolata e  conclusiva “Trust”. Il resto è tutto da godere perché con Harvesting Minds il Vignato  degli Omit Five, di cui vi raccontai in questo blog anni fa, ha concepito un album tra i migliori dell’ appena andato 2017.


giovedì 20 aprile 2017

Daylight Ghosts

Craig Taborn

Ecm



Un altro album per l’etichetta Ecm, il terzo, per il pianista americano Craig Taborn questa volta in quartetto con Chris Speed al sax e al clarinetto, Chris Lightcap al contrabbasso e al basso elettrico e con David King alla batteria. Un nuovo ambito dopo il piano solo di Avenging Angel e il trio di Chants. Il climax è quello molto vicino al tipico sound Ecm ma Taborn, che qui fa uso anche di elettroniche, sembra particolarmente ispirato trovandosi ad operare nel cerchio magico di Manfred Eicher. 

Nove brani che formano la selezione dell’intero cd, tutti originali e a firma del leader ad eccezione della traccia n.7, la “Jamaica Farewell” dell’amatissimo Roscoe Mitchell. Un album per certi versi tenebroso, dai toni scuri ma decisamente affascinante per la fluidità di alcuni episodi, come l’iniziale “The Shining One” o per l’imprevedibilità di altri come “Abandoned Reminder” giocato sulle modulazioni di una ballad che in seguito, inaspettatamente, si sviluppa in crescendo attraverso un’essenza improvvisativa collettiva. Quest’ultimo aspetto è insito anche nel fluire dinamico e libero di “New Glory” introdotta dal drumming di King. Accenni lirici, melodie appena tracciate e poi lasciate naufragare tra le onde inerpicanti della sezione ritmica, queste le sfaccettature ricorrenti nell’ascolto della selezione inclusa nel cd. 

Giro di boa con “The Great Silence” traccia n.5 tra l’insinuante intro del clarinetto di Speed e i  risvolti rarefatti del pianoforte del leader, prima che l’intero quartetto riemerga in collettiva assonanza. Il tunnel buio e ridondante, che disegna Lightcamp con il suo contrabbasso in “Ancient” è ostinato, anche quando si illumina dei suoni di pianoforte e fiati e il suo incedere sembra incalzarti. Narrativa e brulicante di fermenti improvvisativi è il reprise di “Jamaican Farewell”  mentre “Phantom Ratio” con il suo ambient iniziale, avvolto di mistero e i percorsi fluenti di ritmo ed umori elettronici che ne seguono, mi conduce alla fine di questo magnifico lavoro. 

Assolutamente da ascoltare e da possedere, questo album di Taborn e compagni si  candida  a raccogliere i fasti di uno dei migliori album di questo 2017.


mercoledì 1 febbraio 2017

A Long Trip / With You

Marco Trabucco

Abeat



Nuovo album per il contrabbassista veneto Marco Trabucco la cui biografia racconta di folti studi e approfondimenti con illustri insegnanti come Glauco Vernier, in prima istanza, poi successivamente Curtis Lundy e Marc Abrams, nonché di esperienze anche in ambiti non esclusivamente jazz. Un album inciso in quintetto con un trio di base che include oltre al leader, al contrabbasso, anche Matteo Alfonso al pianoforte e Marco Carlesso alla batteria e con ospiti Gianluca Carollo alla tromba e Andrea Grezzo alla chitarra.

E’ un jazz, quello di Trabucco e del suo combo, senza pretese innovative, senza spigoli improvvisativi, concepito con un gusto, condensando musicalità e armonia ed eseguito con raffinata professionalità strumentale. La scrittura dei sette brani inclusi nel cd è di pregevole qualità e i temi sono coinvolgenti ed evocativi. 

Il trittico iniziale: “Cicles” “Otranto” e la title track, include gli elementi appena citati e pone in evidenza il fine interplay che alberga nella dialettica del gruppo, pur nel rispetto dei ruoli di primo piano che vengono riservati a turno al contrabbasso del leader, autorevole, espressivo, impinguato di fine liricità; alla tromba di Carollo, dalle venature struggenti e cool; agli umori blues della chitarra di Grezzo. Il tutto supportato dal raffinato pianismo di Matteo Alfonso, denso di contrappunti, ritmicamente essenziale, in cui il nostro si mostra magnifico cesellatore di architetture sonore di rara fattura. Senza dimenticare il drumming mai esorbitante ma sempre espresso con opportunità disarmante, discreto, ma fondamentale, di Carlesso. I tre brani immergono l'ascoltatore nel poetica musicale del contrabbassista veneto, una poetica che si fa fluida fra accenni bop e dinamiche mainstream in “Green Dance” e che esalta l'anima jazz di Alfonso. 

Poi la snella ma intrigante struttura di “How Did The Cat Get So Fat?” tra parti incalzanti ed interludi ballad che mi accompagna verso la fine di un album che sa sempre farsi apprezzare ogni volta che lo lascio in pasto al mio cd-player.

sabato 14 gennaio 2017

Plastic Breath

Filippo Vignato

Auand                                                                                                                                                           

É noto da sempre come la riuscita di un progetto in campo musicale, così come in altri ambiti, nasca dalla sinergia, dalla comunanza di intenti e dalla condivisione degli obiettivi finali fra tutti i soggetti coinvolti nel progetto stesso. Così ha preso vita e si è sviluppato questo recente lavoro del trombonista veneto Filippo Vignato, classe 1987, già apprezzato nelle file del gruppo Omit Five, di cui potete leggere qui la recensione del primo, omonimo album, nonché del successivo Speak Random. 

Musicista impegnato in svariate collaborazioni, non ultima quella con Piero Bittolo Bon e il quartetto Bread & Fox, Vignato ha incontrato qualche anno fa a Parigi Yannick Lestra e Attila Gyarfas, rispettivamente tastierista e batterista, francese il primo; ungherese il secondo, e da lì l’input, dove un’attiva frequentazione, per la realizzazione del primo album a suo nome in cui, il nostro, accosta le sonorità calde ed acustiche del suo trombone ai suoni plastici del Fender Rhodes di Lestra e al mosaico ritmico di Gyarfas. Si è così realizzata un’idea che covava nella mente del trombonista veneto da molti anni.

Nove composizioni, tutte originali, in buona parte firmate dal musicista italiano, altre cofirmate insieme a Gyarfas e Lestra, che coniugano ricercatezza e interplay in un caleidoscopio di sonorità intriganti e innovative. E’ un trombone borbottante ad aprire le selezioni con “The Meeting” che il leader percorre nel finale con una sinuosa armonia. A seguire “Lev & Sveta” pulsante, ostinato, il suo tappeto ritmico e sonoro accoglie a meraviglia il duttile eloquio di Vignato, gracchiante e filtrato nell’intro, denso di feeling e melodia nella parte centrale. Poi gli spasmi free di “Red Skin Hymn” riportano in auge i bagliori di un certo jazz-rock anni ’80. 

La cifra stilistica del trombonista veneto e del suo trio sembra però essere l’arte del variare di brano in brano l’ambient e le strutture delle sue creazioni musicali ed ecco “Provvisorio” insinuante ballad intensa e accattivante. Ancora più sofisticata, di maggior respiro e adulta appare poi “Windy” mentre nel finale colgono di sorpresa il riff trascinante di “Stop These Snooze” e il minimalismo di “Microscopy”. 

Il trio di Vignato delinea un layout inedito che ha già nella configurazione strumentale di base del combo la sua esclusività. C'è da ipotizzare grandi sviluppi ma nel contempo godiamoci questo bellissimo lavoro, uno dei migliori dell'appena andato 2016.