lunedì 3 febbraio 2014

Massive Threads

Kris Davis

Thirsty Ear


La pianista di origini canadesi Kris Davis é ormai una cittadina newyorkese perché da anni risiede in quella città, ma é anche una delle musiciste di primo piano della scena d'avanguardia di Brooklyn. Attivissima da anni ha al suo attivo numerose incisioni divise in vari ambiti e in questi giorni sta lavorando ad un progetto ambizioso con un ottetto per il quale ha scritto le musiche. Su questo progetto non so dirvi per il momento altro tranne che é stato commissionato alla Davis da parte della Shifting Foundation che non è nuova a queste sovvenzioni e che dell'ottetto fanno parte Ben Goldberg, Oscar Noriega, Andrew Bishop, Joachim Badenhorst ai fiati; Nate Radley alla chitarra, Gay Versace, organo e accordion, Jim Black alla batteria e naturalmente la stessa Davis al piano. Mentre attendo di ascoltare questo album, che sembra promettere grandi gesta, sono qui a raccontarvi di questo cd in piano solo che si colloca come la naturale continuazione ed evoluzione del precedente cd Aerol Piano inciso dalla nostra in solitudine. E’ ancora una volta, e questa volta ancor di più della precedente, una performance fortemente caratterizzato da un rapporto intimo tra la musicista e il suo pianoforte, quasi un dialogo sottovoce, che prelude e sottintende ad ogni esclamazione musicale. La Davis si avvale di qualche sovraincisione e di un pianoforte preparato ma questo aspetto è per certi versi secondario all'essenza esclusiva che viene fuori durata l'ascolto del cd. Si naviga ai confini tra scrittura improvvisazione, come ha precisato la stessa protagonista, tra una visione moderna di una concezione classica della musica e la creatività tipica del jazz d'avanguardia. Quelle accezioni avant, che avevo sottolineato quando mi trovai a recensire il suo precedente Aerol Piano per Il Giornale della Musica, qui risultano più accentuate, più spinte verso orizzonti inediti. Permane poi un grande senso del ritmo come è già evidente nell'iniziale “Ten Exorcists” ma anche di un ambient minimalista, di atmosfere rarefatte, appena spezzate, in qualche caso, da una fioca melodia come accade in “Desolation and Despair”. C’è anche un validissimo esempio di una traccia dalla struttura articolata che esordisce in sordina, si sviluppa in crescendo e si affievolisce nel finale e c’è anche una visionaria versione della “Evidence” di  Monk, unico episodio non originale. In poche parole c’è tutto quello che fa dire che questo è un grande album.


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