giovedì 28 novembre 2013

Piano Sutras

Matthew Shipp

Thirsty Ear


Immenso come sempre il piano solo di Shipp come già accaduto in passato in ognuno delle tante produzioni del pianista americano. Immenso e dilatato per vari latitudini di genere. Tecnicamente passionale e irripetibile, denso di frenesia e di trasporto, alterna cambi di tempo a sottili riflessioni. Ė già dall'iniziale traccia, quella che da il titolo all'album, che si evidenziano questo peculiarità, oppure dall'alienazione quasi drammatica di “Surface The Curve”. Si rischia di rendersi ripetitivi e monotoni a citare ogni brano come a stilare un catalogo. Shipp è un torrente di note che il suo pianoforte restituisce incredibilmente veritiere e reali. Emozioni vibranti di vitalità, riflessioni di stati d'animo e di pensieri. Le sue mani premono sui tasti e rilasciano le elaborazioni sonore di un straordinario musicista capace di esprimere la grandezza della coltraniana “Giants Steps” in poco più di un minuto attraverso una personalissima interpretazione o di passare alla dura e spigolosa “Uncreated Light” con naturalezza e impensabile logicità. Una ragnatela di episodi che si susseguono dispiegando una identità e nel contempo un appropriato divenire che conduce con leggerezza e velocità verso la conclusione delle selezioni. Il tutto non prima d'aver apprezzato l'atmosfera intensa e sottilmente lirica di ”Space Bubble” o gli eloquenti fraseggi di “Nefertiti” di Shorter-riana memoria, fino alla conclusiva, inarrivabile e irriducibile “The Indivisible”. Questo cd è nei fatti un'altra prova superba di un musicista che ha innovato il rapporto con il pianoforte, che ha saputo leggere nella tradizione metabolizzandone i tratti essenziali. Un musicista che in solitudine o in connubio sa sempre distinguersi e rivelarsi in tutta la sua magnificenza di artista.

domenica 24 novembre 2013

Stories Yet To Tell

Giorgia Barosso

 Raffinerie Musicali


La vocalità jazz al femminile ha dei trascorsi importanti nella storia di questo genere musicale, interpreti che non hanno bisogno di essere menzionati tanto sono note le loro gesta artistiche. Trascorsi che comunque non hanno fortunatamente dissuaso, nuove giovani interpreti anche italiane, a cimentarsi, di tanto in tanto, in progetti di vario tipo. Ed è recentissima, ad esempio, questa interessante proposta di una vocalist italiana, Giorgia Barosso, emiliana d’origine ma piemontese d’adozione. Nata a Parma vive da anni in provincia di Alessandria, e questo suo album, di indubbio valore artistico, la vede alle prese con noti standard e con brani originali composti insieme al pianista Mario Zara. Un’interprete, la Barosso, dalla biografia ricca di esperienze musicali e di studi approfonditi come quelli di pianoforte al Conservatorio “A.Vivaldi” di Alessandria e di canto e improvvisazione jazz con insegnante Tiziana Ghiglioni. Nel 1989 debutta come vocalist con una band di soul-funky ma l’anno successivo è rapita dal jazz. D’allora ad oggi sarà tutto un susseguirsi di incisioni ed esibizioni in concerto con l’aggiunta, dallo scorso anno, di un impegno radiofonico con l’emittente web Vertigo One. Stories Yet To Tell, uscito lo scorso sei novembre, è realizzato con il già citato Mario Zara, pianoforte e piano Rhodes, Marco Antonio Ricci, contrabbasso e Michele Salgarello, batteria. Nove i brani in esso contenuti in quattro dei quali si aggiungono il trombettista Fabrizio Bosso e il chitarrista Riccardo Bianchi. La traccia iniziale è la celebre “Love For Sale” di Cole Porter, interpretata dalla Barosso con un’intensità prettamente soul-jazz e piacevolmente colorata dal solo di Bosso. Segue il brano che da il titolo all’album, una delle quattro composizioni originali presenti, una ballad dai toni raffinati e pertinenti alla struttura standard della song stessa, che mette in evidenza le pregevoli qualità vocali della protagonista. Poi l’ascolto si snoda attraverso la piacevole fluidità della notissima “Time After Time” in cui Zara recupera le sonorità del mai dimenticato piano Rhodes; le inedite fantasticherie chitarristiche di Bianchi in “Come Rain or Come Shine”; l’interpretazione magistrale della Barosso della celebre “Oh Lady Be Good” firmata da Gershwin e la variegata struttura di “I”. L’album nella sua interezza è caratterizzato da un’accurata stesura degli arrangiamenti, e qui il lavoro di Mario Zara si evidenzia in particolar modo nella capacità di equilibrare le varie sfaccettature vocali e strumentali con l’evidente attenzione a non strafare. Altra citazione anche per il binomio ritmico Ricci-Salgarello attento, puntuale e fondamentale in ogni ambito. La Barosso dal canto suo mostra di prediligere una certa classicità del canto jazz mista alla voglia di innescare, in essa, sottili umori moderni che non stravolgono l’essenza dei brani ma ne rinnovano la fruibilità. Si delinea in tal modo il profilo di un’interprete destinata a distinguersi nel suo ambito per un’identità propria e ben definita della sua vocalità.

giovedì 14 novembre 2013

Spring Storm

Satoko Fujii New Trio

Libra

Dopo anni di attività con Mark Dresser al contrabbasso e Jim Black alla batteria e sette album dei quali mi piace ricordare Trace a River datato 2008, arriva un nuovo trio per la pianista Satoko Fujii  che, con al fianco il contrabbassista Todd Nicholson e il batterista Takashi Itani,  realizza questo Spring Storm  una delle quattro uscite discografiche che la vedono protagonista in questo 2013. Un album in trio che si muove su versanti più ampi e totalmente diversi da quelli intimi apprezzati in Gen Himmel qui recensito e che ci riporta alla Fujii più espansiva, per certi versi irruenta, con le sue sortite sulla tastiera ma anche capace di sofisticati e rarefatti interludi inseriti in strutture elaborate quali sono nei fatti le sue composizioni. Composizioni che molto spesso hanno un’intro introspettiva e lirica dove la pianista traccia architetture estranee al jazz tradizionale, uno sviluppo in crescendo, un successivo ambito con ampio spazio per l’improvvisazione e una conclusione in cui viene riproposto il tema già esposto nell’introduzione. Altre volte i brani prendono vita da un riff o da una frase tematica magari ostinata e sviluppata poi, sempre e comunque, con una intensa attività di improvvisazione. Elementi già noti del linguaggio messo in mostra in precedenza dalla pianista e che in questo nuovo trio sembrano essere riproposti e interpretati con un pizzico di maggiore spontaneità e un pò meno elaborate rispetto a quanto accadeva con Dresser e Black. Si evidenzia in qualche modo in approccio più immediato all’ascolto ma In entrambi i casi l’arte della Fujii e dei musicisti si mostra in tutta la sua grandezza e unicità in quanto Nicholson e Itani, come i più rinomati colleghi del recente passato, hanno metabolizzato il prontuario espressivo e il climax esecutivo che la leader predilige e che si esplica fra rarefatte esposizioni tematiche e vibranti turbinii. Tutto ciò è quanto è racchiuso in questa ennesima produzione dell’artista giapponese un altro capitolo irrinunciabile della sua ampia e varia discografia.


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martedì 12 novembre 2013

The Art of the Duet Vol.1

Ivo Perelman
Matthew Shipp

Leo


Ecco due musicisti alfieri dell’avanguardia jazz contemporanea: Ivo Perelman, sassofonista brasiliano, che si porta dentro l’esuberanza artistica propria della sua gente. Non è solo un musicista, è anche un artista esponente delle arti visuali; Matthew Shipp, americano è un pianista che ha tracciato percorsi inediti ai margini e oltre la musica afroamericana, rileggendo con sapienza anche la tradizione. Due personaggi eclettici, entrambi con ampie discografie alle spalle, che hanno scoperto, non da ora, di poter condividere le affinità di un interplay esclusivo che passa inevitabilmente attraverso un' estemporaneità assolutamente free. Eccoli quindi impegnati nel primo dei tre incontri che il progetto The Art Of The Duet prevede. Ed è un duetto magistrale quello riescono a metter in campo nei tredici episodi di cui si compone questo lavoro discografico. Un duetto che si realizza attraverso un percorso in cui i due protagonisti sono in costante relazione. Ognuno di essi definisce le peculiarità essenziali del proprio linguaggio ma anche i tratti distintivi della propria personalità. Perelman è incalzante, fremente di un'urgenza espressiva dirompente e non da tregua al proprio strumento. Cambi di ritmo, esaltazioni timbriche, sono le costanti primordiali del suo linguaggio. La vocalità del suo sax sa delinearsi con varie sfaccettature impregnata di naturalezza e forza, incuneata in una catarsi espressiva che non concede pause e non trascura alcun registro tonale. Shipp ha un tratto più sereno, più riflessivo ma profondamente accorto a quello che il suo compagno esplica, il suo layout é ampiamente orientato verso elementi di musica contemporanea e il pianista traccia, durante la relazione con il brasiliano, architetture dinamiche ed espressive, di alto pregio. Qualche breve frammento lirico compare qua e là subito spazzato via dalle incalzanti metamorfosi che, numerose, si susseguono durante la performance. Poi il finale con l'ultima traccia totalmente affidata alla vena introspettiva di Shipp.


domenica 10 novembre 2013

Trio New York II

Ellery Eskelin

Prime Source


Sembrerà strano che un musicista come Ellery Eskelin, sassofonista da sempre proteso verso un linguaggio free e d’avanguardia, decida di ripescare alcune perle del songbook americano per riproporle in un album Trio New York II che fa seguito a un precedente primo episodio con identico titolo. In entrambi l’esperienza è condivisa con Gay Versace, all’organo Hammond B3 e con il batterista Gerald Cleaver, ma come erroneamente si potrebbe supporre il sassofonista non abbandona del tutto la sua nota propensione, bensì prova a rimodularla in quello che è un ricercato approccio e non una semplice e ruffiana ripresa di noti standard. E peraltro bisogna anche dire che il nostro non è nuovo a questo di esperienza perché è bene ricordare che è del 1996 un suo album per la Soul Note, The Sun Died, dedicato al sassofonista Gene Ammons. Nel 1999 invece arriva un album per Hatology, Five Other Pieces (+2) in cui vengono riproposti brani, tra gli altri, di Coltrane, Tristano e Gershwin. Tornando all’oggetto di questa recensione c’è da precisare che l’organo Hammond  e nella fattispecie, il B3, entra nell’orbita di Eskelin con Gay Versace, musicista più volte a fianco di Maria Schneider, compositrice e direttrice di orchestra multi premiata, ma anche, tra gli altri, del batterista-percussionista John Hollenbeck del quale è stato qui recensito l’ottimo Eternal Interlude con il già citato Versace alle tastiere. A proposito di quest’ultimo non si può sottacere relativamente al grande bagaglio d’esperienza che  si porta dietro insieme alle riconosciute qualità tecniche. Il trio si completa poi, come già scritto prima, con Cleaver alla batteria, vero asso nella manica, non solo per questa formazione ma per chiunque se lo ritrovi al fianco sulla ribalta o in studio. Le sue sensibilità artistiche sono immense accanto alle sue fantasie esecutive e alla incommensurabile capacità di saper captare e condividere al meglio il linguaggio altrui. E’ quindi una formazione quasi ideale quella del Trio New York che regala momenti intensi di piacere d’ascolto e  spunti di jazz d’alto livello attraverso le sei composizioni di questo cd. L’iniziale “The Midnight Sun” firmata da Lionel Hampton e Sonny Burke introduce all’ascolto al meglio, anche perché risulterà, poi, tra gli episodi più significativi dell’intero album. Eskelin e Versace esordiscono con un dialogo sinuoso e interattivo che si trascina piacevolmente per qualche minuto e che non cita per nulla il tema del brano che a sua volta compare solo dopo, quando viene esplicato con grande partecipazione e pervaso da umori struggenti che emozionano. Il trittico iniziale comprende poi una intrigante versione di “Just One Of Those Things” di Cole Porter, poco più di dodici minuti di fluido conversare dei tre musicisti, introdotto dall’esclusivo dialogo tra sax e batteria a cui si affianca successivamente l’organo Hammond deputato a sostituire l’assente contrabbasso. Poi è la volta dei soli: prima Eskelin, a ruota Versace e di seguito Cleaver. Momenti di piacevole ascolto si susseguono anche con la splendida versione della boppistica “We See” di Monk che insieme alle altre tre "My Ideal" "After You've Gone" e "Flamingo" danno l’esatta dimensione di quanto, questa intuizione di Ellery e soci, sia stata azzeccata. Non una scontata reinterpretazione ma molto di più: ovvero un rivivere con stimoli nuovi e un interplay ricercato e intriso di modernità, pagine immortali di americana memoria.


giovedì 7 novembre 2013

Femklang

Soren Kjaergaard
Ben Street
Andrew Cyrille

Ilk

E’ con deplorevole ritardo, ma a volte capita, che scrivo di questo cd firmato da un trio che riunisce il pianista danese Soren Kjaergaard e gli americani Ben Street, contrabbassista e Andrew Cyrille batterista. Il pretesto è una registrazione per l’etichetta danese Ilk Records, che opera dando visibilità all’attivissima scena jazz di Copenaghen e a musicisti che si muovono nell’ambito del free e dell’avant jazz. Questo di Femklang è un combo atipico che presenta una peculiarità propria ben definita. Una sorta di diversificazione del piano trio non come configurazione bensì come layout espressivo. Un tentativo certamente riuscito di elevare una sintassi tipicamente jazz in una forma sottilmente elegante e raffinata, sospesa in una interazione ricercata, interpretata in un ambito per certi versi free e per altri filtrato attraverso una concezione minimalista del lessico jazzistico. Quindi nessuna concessione a forme votate a captare adepti improvvisati ma, di contro, un ferreo percorso tendente ad esplicare una concezione del jazz più sofisticata. Kjaergaard appare come un prezioso cesellatore di fraseggi liberi incastonati con acume nel dialogo fitto con Street e Cyrille, musicisti abili e attenti ad inserirsi nell’orbita filosofica-musicale del giovane pianista danese. Il percorso si snoda attraverso nove composizioni firmate in prevalenza da Kjaergaard (ben 7) una firmata in coppia dallo stesso con Cyrille che a sua volta ne firma un’altra in solitudine. “The Loop” (variation one) introduce l’ascolto con un ritmo looppato, se mi concedete l’azzardo del termine, quindi ripetuto all’unisono su quale arrivano le pennellate al piano di Kjaergaard, mentre Street puntella il ritmo con estrema precisione temporale. Lo stesso brano torna in chiusura come ultima traccia ancora con ritmo ostinato ma leggermente variato. Fra queste prima e ultima traccia l’ascolto passa attraverso il climax rarefatto di “A Diminished Proposal”, la fluidità decisamente jazz di “Row No.!8”, il minimalismo acuto e assoluto di “Tale Of Weaving”, la sospensione celestiale di “Formindskede Smuler” e la luminosità di “Pedestre Pantonale”. Unico per la sua originalità questo è un album assolutamente da ascoltare, ecco perché merita di essere recensito anche se con un po’ di ritardo rispetto alla sua uscita.
  
Giuseppe Mavilla
 

domenica 3 novembre 2013

Shadow Man

Tim Berne’s Snakeoil

Ecm


Per il sassofonista Tim Berne arriva il secondo album con il quartetto Snakeoil, formato da Oscar Noriega al clarinetto e al clarinetto basso, Matt Mitchell al piano acustico, piano tuck e piano Wurlitzer e Ches Smith alla batteria, percussioni e vibrafono. Stessa formazione  del primo lavoro che ha raccolto ampi consensi dalla critica ed stato recensito a suo tempo, favorevolmente, anche in questo blog. Potete leggerne la recensione qui. Un’altra tappa di un viaggio che si fa sempre più avventuroso e ricco di sorprese per questo straordinario quartetto, dotato dell’esclusiva capacità del leader e dei suoi compagni d’avventura nel saper dosare, in un modo assolutamente unico, le parti scritte a quelle improvvisate e nel sapere inserire ed alternare momenti intensi e nervosi ad altri rarefatti. Anche questa volta viene a galla la bontà della scrittura compositiva del leader che firma in totale solitudine quattro dei sei brani inclusi nel cd, mentre per un altro ne condivide la genesi con Marc Ducret. La selezione si completa con il reprise di un brano del grande Paul Motian, “Psalm” riproposto in una versione introspettiva e densa di umori struggenti. Un brano scelto per omaggiare il ricordo di un musicista eccezionale che ha lasciato un vuoto indelebile nella storia del jazz contemporaneo. Scrivevo prima delle qualità eccelse delle composizioni di Berne che trovano ampi riscontri nell’interpretazione dell' intero quartetto capace di  costruire un mosaico variegato e imprevedibile soprattutto nei brani la cui durata ne determina, per gli stessi, la caratteristica di vere e proprie suite. Mi riferisco al secondo terzetto della selezione,  composta da brani la cui durata va dai quasi 23 minuti di “Oc/Dc” ai circa sedici di “Cornered (Duck)”. La prima si apre con un riff dal ritmo sostenuto, la seconda "Socket" con i fraseggi fluidi e nervosi del pianoforte di Michell, ma ben presto, in entrambi i casi, si susseguono momenti eterogenei come dialoghi a due, soli, interludi, crescendi vorticosi in una musicale e temporale continuità che lascia totalmente stupefatti.  La band si contraddistingua per una energia propulsiva incontenibile contrapposta ad una metamorfosi introspettiva che appare dietro l’angolo e si consuma con una naturalezza espressiva di grande fascino. Berne include prima nella scrittura e poi nella performance, una visione a 360 gradi dell’universo musicale, riservando  per se e per i suoi musicisti ampi spazi per l'improvvisazione creativa e interattiva. Il tutto appare strutturato e cadenzato con precisione matematica e nel contempo metabolizzato e condiviso anche dagli altri componenti il quartetto. Musicisti dotati come il leader di grande esuberante inventiva, a cominciare da Michell che affianca al pianoforte tradizionale le sfaccettature intriganti del piano preparato (piano tack) e del piano elettrico. E che dire di Noriega eclettico e ingegnoso con i suoi clarinetti, spesso incontenibile riversa con costanza, in alcuni passaggi, umori cameristici nel layout del gruppo. E non posso non citare Smith oggi tra i batteristi più fantasiosi, con un bagaglio tecnico da far invidia. Cos’altro aggiungere se non che Snakoil è un’altra lucida intuizione di uno straordinario musicista come Tim Berne.