martedì 8 aprile 2014

Live at Maya Recordings Festival

Evan Parker / Barry Guy / Paul Lytton

NoBusiness
 

Dal Maya Recording Festival, edizione n.20, svoltasi dal 23 al 25 settembre 2011 a Winterthur in Svizzara, ci giunge questa registrazione live con protagonista il trio formato da Evan Parker ai sax soprano e tenore, Barry Guy al contrabbasso e Paul Lytton alla batteria. Poco più di sessanta minuti all’insegna della libera improvvisazione jazz di cui i tre musicisti sono da sempre tra i più qualificati propugnatori. Un esercizio sonoro e interattivo che non regala nulla all’estetica musicale ma che si sviluppa attraverso un’intensa performance intrisa di un’energia dirompente, frutto di un’urgenza espressiva insita nel verbo jazz del trio. L’iniziale “Obsidian” ci rivela, sin dalle prime note, la cifra stilistica del gruppo prima evidenziata che per i primi sette minuti, dei circa ventidue  della sua durata, si esplica in un ambien alimentato da una vibrante interazione ritmica, concedendosi una pausa intorno alla metà del brano quando lascia spazio a veri e propri vagiti sonori impinguati di minimalismo, fra accenni e sussurri fugaci che si intersicano e si aggrovigliano prima di tornare a dare spazio ad una incalzante frenesia che presto torna a predominare. L’ostinato del sax di Parker pervade buona parte della successiva “Chert” che durate i suoi poco più di tredici minuti, ci propone un fenomenale Guy al contrabbasso, suonato con l’archetto, in un’oasi di travolgente inventiva. Suoni viscerali e ruvidi nell’intro di “Gabbro” che impegna l’intero trio e poi un forsennato dialogo tra i due alfieri della ritmica, Guy e Lytton e uno stratosferico solo di quest’ultimo. Vicente ed essenziale nell’espressività del trio la propulsione ai fiati di Parker, incessante il suo contributo, il suo tracciare circonferenze dinamiche avvolgenti, il suo rilasciare impulsi come bagliori taglienti in un mare magnum di stimoli da strutturare in assoluta libertà.

lunedì 24 marzo 2014

Meets Zappafrank

Orchestra Spaziale

A Simple Lunch


Ripensare l'opera di Zappa, riscriverne le partiture, riarrangiarne le parti, reinterpretarla alla luce delle esperienze musicali che la storia della musica ha evidenziato in questi anni è di certo una tentazione, un cruccio per ogni musicista attento alla contemporaneità. L'esperienza dell'Orchestra Spaziale di cui vado ad occuparmi è certamente una delle più positive in tal senso e giunge a noi, adesso, grazie all'attività della A Simple Lunch neo etichetta discografica indipendente con sede a Bologna, diretta da Marco Dalpane, bolognese, musicista dalle ampie vedute e dalle mille attività, attento alla classica così come alla contemporanea, al jazz e a tutto ciò che ha a che fare con le sette note. Meets Zappafrank è un progetto nato nel 2000 che, come racconta Giorgio Casadei nelle note di copertina, fu suggerito dal musicologo Giordano Montecchi  nell'ambito della rassegna Il suono e l'onda in programma quell'anno a Reggio Emilia, il quale immagino un omaggio al grande Frank Zappa e identificò nell'Orchestra Spaziale l'ensemble ideale per poterlo realizzare. Un progetto dispiegatosi nei cinque anni successivi con una serie di concerti ed esibizioni pubbliche per poi essere, successivamente in studio, definito con una serie di revisioni e remix fino a renderlo un'opera discograficamente fruibile. Una selezione di undici brani che abbracciano i due periodi più significativi dell'era zappiana ovvero l'esperienza con i Mothers of Invention e quella con il Joe's Garage che fa rivivere lo spirito dell'indimenticabile Frank a partire dall'iniziale “Regyptian Strut” pomposa e dilagante subita seguita dalla dirompente “Let's Make The Water Turn Black” introdotta dal fraseggio lirico del sax tenore di Marco Zanardi e che prelude all' esordio della singolare vocalità di Vincenzo Vasi in “The Torture Never Stops” che ricorda, con la giusta enfasi, quella di Zappa ma senza scontate scimmiottature. Straripante poi, nella seconda parte del brano, il dialogo fra la chitarra di Alessandro Lamborghini e la voce dello stesso Vasi in una orgia sonora lancinante e partecipata. Ogni brano, ogni frazione esecutiva riporta viva e presente la magia del grande genio italo americano, pur nella costante sovrapposizione, alle strutture basi dei brani, di dinamiche jazzistiche che vedono riservare notevoli spazi all'improvvisazione. E’ ciò accade, ad esempio, in “Uncle Meat / Right There” che vede in primo piano la esclusiva dialettica del mai dimenticato Alfredo Impullitti al pianoforte. Sono varie le peculiarità riscontrabili nei vari brani, nella maggior parte dei casi densi di improvvisi cambi di tempo e di ambient, difficili peraltro da descrivere in una recensione, allo stesso modo dei soli, senza rischiare di annoiare il pur dedito lettore. Il tutto per il fatto che nel progetto sono stati coinvolti ben 20 musicisti che si sono alternati nei vari concerti e tra i quali vanno citati Giorgio Casadei che ha curato gli arrangiamenti e la direzione orchestrale oltre a suonare la chitarra elettrica nonchè Marco Dalpane che ha suonato in alcuni brani il pianoforte e le tastiere e curato la produzione insieme a Riccardo Nanni. Quella che mi ritrovo ad ascoltare si delinea come un’opera singolare e coraggiosa che va ascoltata senza pregiudizi e con dovuta attenzione. Solo in tal modo è possibile carpirne la valida essenza.

mercoledì 12 marzo 2014

Yuria's Dream

Adasiewicz / Erb / Roebke

Veto


Ho avuto diverse opportunità, in questi ultimi mesi, di ascoltare le produzioni del sassofonista e clarinettista svizzero Christoph Erb, musicista fino a pochi mesi fa a me sconosciuto e che ho scoperto grazie ad un contatto in rete tracciato nei miei confronti dallo stesso. Questo è il quarto cd di cui scrivo fra quelli da lui realizzati, potete leggere le recensioni dei precedenti pubblicate qui, qui e qui, e anche questo è stato inciso al King Size studio di Chicago questa volta in compagnia di Jason Adasiewicz al vibrafono e Jason Roebke al contrabbasso. Cambiano i compagni di scena, come scoprirete se andate a leggere le precedenti recensioni, ma non il gusto di improvvisare e di dialogare senza nessun canone preordinato. Un incontro fra i tre datato novembre 2013 avvenuto naturalmente nella città del vento, un incontro dilatato attraverso una suite, da cui prende nome il cd, della durata di circa 43 minuti. L'intro è, come logico che sia, quasi da studio, un primo contatto per coordinarsi per trovare territori comuni  in cui l'espressività abbia una precisa relazione. A tracciare il percorso è il tenore di Erb con i suoi fraseggi sinuosi, imprevedibili per dinamica e timbrica, a volte al limite dell'udibile, altre volte soffocati o inaspettatamente lirici, contrappuntati dalle pregevole sonorità del vibrafono e puntellati dal contrabbasso. Ma in questa performance dopo i primi otto minuti si incomincia a respirare un'atmosfera diversa dalle precedenti esperienze che mi sono note nella discografia del musicista svizzero. Avverto una piacevole omogeneità sonora, una convergenza spontanea su un layout esente, quasi totalmente, da spigolature abrasive, un andamento sempre più votato all'intreccio dei ruoli da parte dei tre attori unici dell'atto performante. Dopo poco più di un quarto d'ora, dallo start d'avvio, i tre musicisti proseguono con fluidità nello svolgimento della loro attività d'interazione, lasciando subito dopo spazio ad una pausa minimalista affidata a suoni appena pronunciati. Una breve pausa utile a riprendere l'interplay che vede in primo piano sonorità intense che creano atmosfere surreali, con Erb che passa al clarinetto basso, Roebke che impugna l'archetto e Adasiewicz a chiudere il triangolo con le note cromatiche del suo vibrafono. La parte rimanente ci riserverà ancora porzioni minimaliste, dialoghi in qualche momento più intensi tra fiati e vibrafono ma rimarrà intatta quella fluidità e quella leggerezza dialettica che già si avvertiva fin dall'inizio e che rende questa produzione veramente speciale e riuscita. Un plauso sincero ai tre protagonisti.

martedì 11 marzo 2014

Floodstage

John Hébert Trio

Clean Feed


Il contrabbassista John Hébert riunisce il suo trio con il batterista Gerand Cleaver ed il pianista francese Benoit Delbecq, con i quali ha già inciso il riuscitissimo Spiritual Lover, per dare vita ad un album che accosta le dinamiche afroamericane, ben gestite da un'accorta sezione ritmica, un binomio tra i più attivi sulla scena newyorkese, con il layout espressivo, sicuramente personalissimo, del pianista francese, segnato da una forte influenza della cultura musicale europea. Undici composizioni della quali dieci originali, nove firmate da Hébert e una da Delbecq ai quali si aggiunge la ripresa di “Just A Closer Walk With Thee” brano di gospel tradizionale. Ricercato, e per alcuni aspetti innovativo, il pianismo di Delbeq che spesso fa pensare a Jarrett, già dalla prima traccia “Cold Brewed” dal climax sospeso nella quale il musicista introduce l'uso del sintetizzatore che si aggiunge ai suoi pregevoli fraseggi sulla tastiera acustica. Grande il lavorio sulle quattro corde del contrabbasso di Hébert, pulsante e dialogante mentre Cleaver da par suo cesella ogni passaggio con un accurato e sopraffino drumming. Poi due soffuse ballad “Tan Hands” e “Red House in NOLA” in cui il trio si immerge in un'atmosfera magnificamente aderente al modus operandi di Delbecq. Si passa dalle dinamiche fluide e contrappuntate di “Holy Trinity” prima di arrivare al già citato rifacimento di “Just A Closer Walk With Thee” in cui trovano naturale esplicazione quegli umori blues, che già mi era apparso di avvertire nel pianismo di Delbecq, durante i brani precedenti. Poi è il clavinet a fare la sua comparsa in “Saints” in totale solitudine e con la timbrica di una marimba o di un xilofono, mentre nella successiva “Sinners” rimane in primo piano ma torna la sezione ritmica. Un album questo Floodstage che potrebbe risultare leggermente ostico ai primi ascolti e non rivelare di contro tutta la sua specifica e singolare bellezza, fortemente insita in ognuno degli episodi che compongono la selezione. E allora, se necessario, provate a perseverare, ascolto dopo ascolto e finirete per appassionarvi.

Giuseppe Mavilla

martedì 4 marzo 2014

Twine Forest

Angelica Sanchez & Wadada Leo Smith

Clean Feed


Registrato ai Systems Two Studios di Brooklyn, New York, nell’aprile del 2013, questo incontro tra la pianista Angelica Sanchez e il trombettista Wadada Leo Smith. Otto composizioni originali scritte dalla Sanchez, già componente di uno dei gruppi, l’Organic nella fattispecie, che solitamente accompagnano il trombettista, restituite attraverso un climax rarefatto e introspettivo, di grande respiro intellettuale, che pervade l’intera selezione. La Sanchez è ormai definita la nuova stella nell’universo jazzistico  newyorkese, le sue due produzione Life Between e A Little House sono state recensite favorevolmente da importanti riviste del settore e le sue collaborazioni sono innumerevoli e prestigiose (Paul Motian, Ralph Alessi, Susie Ibarra, Tim Berne, Mario Pavone, Trevor Dunn, Mark Dresser) solo per citarne alcune. Wadada Leo Smith, certamente più noto, è una sorta di filosofo del jazz contemporaneo post-davisiano, il suo layout espressivo travalica la sfera jazz per attingere ad ambiti contemporanei. La sua immensa discografia è ricca di esempi validi e importanti come le più recenti Ten Freedom Summers  e Occupy the World. All’interno di Twine Fores troviamo sprazzi di un intenso dialogo in cui il grado di interazione tra i due protagonisti si alza improvvisamente. La Sanchez espone i temi con fraseggi e attacchi improvvisi riservando grande attenzione verso i volubili umori del trombettista che dal canto suo si conferma profondamente immerso nella pregevole e sopraffina scrittura compositiva della Sanchez. Ampi gli spazi improvvisativi per i due protagonisti che hanno la possibilità in tal modi di spingersi verso territori spigolosi e audaci che testimoniano una concezione moderna, ricercata e singolare del loro fare jazz. “Veinular Rub” ne è un esempio rappresentativo, giocata tra tensioni e rilassamento in un’atmosfera sospesa tra armonia e ricerca di sonorità estreme, mentre nell’intro della successiva “Retinal Sand” il duo si sporge totalmente  verso ambiti d’avanguardia, salvo poi a convogliare insieme, in perfetta sinergia, verso un fitto interplay attraverso una dialettica più standardizzata. “Light Black Birds” esalta la sensibilità musicale della Sanchez in contrapposizione alla forza espressiva di Leo Smith. La sintesi appare magnificamente riuscita anche nella traccia che da il titolo all’album dove la pianista converge, in simbiosi con il suo compagno d’avventura, sulle dinamiche variabili, prima frementi poi armoniosamente placate, di un dialogo intenso e coinvolgente. Un’opera, questo Twine Forest, assolutamente raccomandabile.

giovedì 27 febbraio 2014

Tribe

Dario Yassa Trio

Music Center


C’è urgenza espressiva, una vena lirica a volte struggente, un ritmo percussivo coinvolgente e tanto altro nel pianismo di Dario Yassa, musicista italo-egiziano, protagonista in trio con  Mattia Magatelli al contrabbasso e  Riccardo Tosi alla batteria di questo cd. Una piacevole scoperta quella del pianista che ha studiato alla Manhattan School di New York con Barry Harris e Mike Abene e che vanta un’intensa attività concertistica che lo ha visto e lo vede protagonista in teatri, jazz club e festival, dove rivela un esclusivo talento e una sopraffina sensibilità musicale, doti che  si evidenziano anche all’ascolto di questo Tribe. Un’interpretazione del piano trio in ambito  jazz sicuramente riuscitissima, anche grazie alla presenza opportuna del binomio Magatelli-Tosi che sembrano  perfettamente integrati nell’orbita musicale di Yassa fino a risultarne parte attiva e non semplici gregari.  Molti gli elementi  fondanti nel layout espressivo del musicista italo-egiziano che si aggiungono a quelli già citati in apertura di questa recensione, come ad esempio la capacità di dialogare in stretta simbiosi con i suoi musicisti, il tocco netto, il passo felino nei cambi di tempo e nelle fughe in avanti, l’ampia e variegata dialettica nelle parti improvvisate. Tutti elementi che si dispiegano all’ascolto delle otto selezioni contenute nel cd già dall’iniziale “Rain Maker” dal ritmo fluido e caratterizzata da un tema accattivante e lirico. E poi “Doroty” pulsante e suadente, con un pregevole dialogo tra pianoforte e contrabbasso cesellato con delicatezza dal drumming di Tosi e ancora “Propitiatory Dance” velata di ritmo latino.  Si prosegue con il passo da ballad di “Lively Squirrel” densa di umori introspettivi e con la struttura  variegata  della contrappuntistica  “Tribal” . Ebbene! questa è una produzione discografica di rilievo, fresca di stampa, perché appena pubblicata lo scorso 13 febbraio e meritevole di essere apprezzata perché rappresenta un soffio di vitalità, nell’universo jazz italiano, troppo spesso inflazionato da mediocri produzioni.


mercoledì 26 febbraio 2014

Decay

Natura Morta

Fmr

Dopo l’americana Prom Night Records è l’etichetta britannica FMR Records  a dare visibilità al trio Natura Morta che ha base a Brooklyn, New York ed è composto dal batterista italiano Carlo Costa, da anni ormai trapiantato in quella parte del mondo, dal violinista francese Frantz Loriot e dal contrabbassista, compositore e improvvisatore, Sean Ali, originario di Dayton  nell’Ohio ma cittadino newyorkese dal 2003. Il trio ha al suo attivo un ep già recensito su questo blog, leggete la recensione qui, un live recording datato ottobre 2012 e questo cd di cui vado a occuparmi in questo post. Anche qui si viaggia ai confini tra suoni e rumori, una combinazione prediletta dal trio che ama esplorare le possibili relazioni tra i due elementi in un ambito assolutamente acustico. Suoni urbani che interferiscono con i bagliori estremi di strumenti acustici come la viola e il contrabbasso, intercettando o lasciandosi intercettare dai vagiti percussivi dell’italiano Costa. Suoni estremi, a volte ostinati come a sfidare la sensibilità e la tenacia di ogni possibile ascoltatore. Suoni stridenti che cercano un dialogo, un’attinenza tra di loro, che puntano a generare in molti casi un flusso continuo dove non alberga alcun tipo di armoniosità, mentre in altri momenti si naviga nelle acque stagnati di un minimalismo rarefatto. E’ evidente che tutto si svolge all’insegna dell’improvvisazione, di stimoli impulsivi, con nulla di preordinato ma nell’ambito di una dialettica in costante divenire. Un mondo sonoro affascinante e stimolante per ogni intraprendente ascoltatore, una espressività che guarda al futuro, un trio che ama le sfide e gli inediti orizzonti di un pentagramma inusuale stilato, di volta in volta, con lucida passione e libero arbitrio.


ascolta i sampler qui

domenica 23 febbraio 2014

A Round Goal

Keefe Jackson’s Likely So

Delmark


Il sassofonista, clarinettista, Keefe Jackson è tra gli esponenti più attivi dell’attuale scena creativa del jazz chicagoiano. Molte le sue collaborazioni oltre ai suoi album da leader di cui questo A Round Goal rappresenta la punta di diamante di una produzione sempre e comunque di alto livello. Per questa sua ultima il nostro travalica ogni possibile immaginazione e presenta un ensemble di soli fiati protagonista di una registrazione live datata febbraio 2013, in occasione del Jazzwerkstaff Festival di Berna in Svizzera. Un settetto che vede affiancati a Jackson i chicagoiani: Mars Williams ai sax alto, soprano e sopranino; Dave Rempis ai sax alto e baritono; il polacco: Warclaw Zimpel ai clarinetti; gli svizzeri: Mark Stucki sax tenore, clarinetto basso e harmonium; Peter A. Schmid ai sax baritono, basso e sopranino; Thomas K.J Mejer, contrabbasso e sax sopranino. Per loro undici composizioni originali firmate da Jackson, che uniscono composizione e improvvisazione, attraverso un linguaggio di forte impatto sonoro e sicuramente innovativo. Si inizia con le variegate interazioni di “Overture” ma è il solo di Jackson in “Bridge solo” a farci addentrare nell'ambient più propriamente predominante dell'intero lavoro. Un sound volutamente essenziale senza orpelli accattivanti ma genuinamente espressivo, proiettato nella ossessionante ricerca di una nuova prospettiva che rivaluti le proprietà armoniche di una ben precisa gamma di fiati. Un sound che si fa viscerale e vociante attraverso le note, strappate con forza passionale da Stucki, al suo sax, in “Was ist Kultur” dove in tal modo si contrappone ad un riff ostinato declamato con incessante continuità per tutta la durata del brano. E’ poi in “Pastorale” che il settetto svela il suo risvolto cameristico, non esente da una corposa porzione improvvisativa, che ne caratterizza l'essenza jazzistica, mentre in “There is no language without deceit” risalta il personale, intenso e intrigante contributo di Zimpel ai clarinetti. La conclusiva “Roses” rimarca e sintetizza in poco più di undici minuti, a partire dalla debordante intro del sax di Williams, tutta la consistenza inedita di quest’opera che si delinea come una sorta di componimento sinfonico contemporaneo per soli fiati, intriso di una spiccata componente improvvisativa propria della musica jazz più avanzata. Un cd che si colloca come un documento indispensabile per comprendere l'evoluzione del jazz contemporaneo. 


lunedì 3 febbraio 2014

Massive Threads

Kris Davis

Thirsty Ear


La pianista di origini canadesi Kris Davis é ormai una cittadina newyorkese perché da anni risiede in quella città, ma é anche una delle musiciste di primo piano della scena d'avanguardia di Brooklyn. Attivissima da anni ha al suo attivo numerose incisioni divise in vari ambiti e in questi giorni sta lavorando ad un progetto ambizioso con un ottetto per il quale ha scritto le musiche. Su questo progetto non so dirvi per il momento altro tranne che é stato commissionato alla Davis da parte della Shifting Foundation che non è nuova a queste sovvenzioni e che dell'ottetto fanno parte Ben Goldberg, Oscar Noriega, Andrew Bishop, Joachim Badenhorst ai fiati; Nate Radley alla chitarra, Gay Versace, organo e accordion, Jim Black alla batteria e naturalmente la stessa Davis al piano. Mentre attendo di ascoltare questo album, che sembra promettere grandi gesta, sono qui a raccontarvi di questo cd in piano solo che si colloca come la naturale continuazione ed evoluzione del precedente cd Aerol Piano inciso dalla nostra in solitudine. E’ ancora una volta, e questa volta ancor di più della precedente, una performance fortemente caratterizzato da un rapporto intimo tra la musicista e il suo pianoforte, quasi un dialogo sottovoce, che prelude e sottintende ad ogni esclamazione musicale. La Davis si avvale di qualche sovraincisione e di un pianoforte preparato ma questo aspetto è per certi versi secondario all'essenza esclusiva che viene fuori durata l'ascolto del cd. Si naviga ai confini tra scrittura improvvisazione, come ha precisato la stessa protagonista, tra una visione moderna di una concezione classica della musica e la creatività tipica del jazz d'avanguardia. Quelle accezioni avant, che avevo sottolineato quando mi trovai a recensire il suo precedente Aerol Piano per Il Giornale della Musica, qui risultano più accentuate, più spinte verso orizzonti inediti. Permane poi un grande senso del ritmo come è già evidente nell'iniziale “Ten Exorcists” ma anche di un ambient minimalista, di atmosfere rarefatte, appena spezzate, in qualche caso, da una fioca melodia come accade in “Desolation and Despair”. C’è anche un validissimo esempio di una traccia dalla struttura articolata che esordisce in sordina, si sviluppa in crescendo e si affievolisce nel finale e c’è anche una visionaria versione della “Evidence” di  Monk, unico episodio non originale. In poche parole c’è tutto quello che fa dire che questo è un grande album.


sabato 1 febbraio 2014

Bottervagl

Erb / Baker

Veto


Questa volta il sassofonista e clarinettista svizzero Christoph Erb è in duo con il pianista chicagoiano Jim Baker. I lettori di questo blog avranno imparato a conoscere Erb perché in questo ultimo mese di attività ho recensito ben due incisioni a nome del sassofonista europeo che incide a Chicago e poi pubblica i cd attraverso l’etichetta svizzera Veto-Records. Si tratta di Duope dove il nostro è in compagnia di Keefe Jackson, Fred Lonberg Holm e Tomaka Reid (leggete qui la recensione) e di Feel Beetrr (qui trovate la recensione) firmata dal Bererberg Trio che include oltre ad Erb, Josh Berman e il già citato Fred Lonberg Holm. Anche questa incisione con Baker è contraddistinta da una intensità di base che è sempre presente nell’espressività del musicista svizzero, che non risparmia energie per lanciarsi in un gioco debordante di fraseggi liberi qui contrappuntati ed evidenziati da un pianismo ricco di note in cascata, nell’ambito di un dialogo che non si interrompe in nessuna delle cinque composizioni contenute in questo cd. L’apertura come negli altri casi è fulminante, “Moty’l” è un gioco di fughe e ricorse, i due sembrano sfidarsi in un gioco improvvisativo senza tregua o pause. Il climax così nervoso però non permane per tutto l’ambito del cd perché già a partire dalla terza traccia “Kupu-Kupu” il dialogo si fa più sottile, a tratti più affievolito, con inaspettate parentesi anche lievemente liriche. Un dialogo che si trasmuta in qualcosa di più intimo e cameristico soprattutto quando Erb imbocca il clarinetto basso come in “Gwilwileth”. Anche in questo contesto lo svizzero evidenzia tutte le prerogative di musicista votato al libero incedere in una piattaforma jazzistica d’avanguardia.

Thumbscrew

Mary Halvorson, Michael Formanek & Tomas Fujiwara

Cuneiform


Se provo a ricordare quanti sono gli album in cui è stata presente nel 2013 la chitarrista Mary Halvorson cado inevitabilmente in una crisi di memoria che solito non mi è frequente. Questo perche la singolare chitarrista ha in questi anni rivelato una notevole vena prolifica in fatto di incisioni, sia in prima persona che in compartecipazione. Ed ecco che allora ripiego sul suo sito e scopro che nel 2013 la nostra è stata presente in undici album di cui tre in prima persona e ben otto come ospite. Il 2014 promette bene in tal senso, perché la Halvorson ha già attivo due realizzazioni di cui la prima Thumbscrew, fresca di stampa, è stata pubblicata appena dieci giorni fa, mentre la seconda Reverse Blue arriverà a breve. Thumbscrew è un progetto nuovo realizzato in trio con Michael Formanek al contrabbasso e Tomas Fujiwara alla batteria. Un progetto incentrato su uno stretto interplay fra i tre musicisti in costante empatia con un ambiente prettamente semiacustico, condizionato dagli sbalzi di umori della Halvorson che in qualche frangente ripropone i suoi fraseggi rockeggianti, salvo poi a ripiegare velocemente su timbriche e geometrie sottilmente bluegrass che in qualche occasione ricordano il recente Bill Frisell. Sono solo sparuti episodi perché per il resto dell’album si viaggia su dinamiche prettamente jazz, con larghi spazi per l’improvvisazione, che vedono la Halvorson non risparmiarsi in ampie sortine in cui la sua chitarra da veramente prova di essere uno strumento singolare e rivalutato, in ambient jazzistico, da questa musicista piombata improvvisamente, alcuni anni fa, sulla cena jazzistica contemporanea e subito entrata nella cerchia degli allievi del grande Braxton. Qui lei si avvale della grande esperienza e della riconosciuta maestria di Formanek, musicista fondamentale, sensibile, tecnicamente maestoso, capace di fare la differenza. Nell’ambito di questo progetto il contrabbassista si pone come cardine essenziale nella dialettica del trio, in perfetta sintonia con la ritmica percussiva di Fujiwara che anche in questo caso assolve a pieno al suo ruolo dando alla performance il giusto contributo che in questa occasione si mostra fluido e colorito proprio per dare luce alle sonorità acustiche del trio. Il tutto in nove composizioni originali scritte e pensate per questo progetto, una goduria per chi ama la sei corde della Halvorson.