Serata da incorniciare quella del 31 ottobre scorso al
Torresino di Padova, come tante per l'organizzazione di Centro d'Arte 70. In scena il quartetto del pianista Greg Burk: Marc Abrams al contrabbasso, Enzo
Carpentieri alla batteria e con ospite il cornettista Rob Mazurek. Un quartetto
che costituiva per tre quarti la struttura del Lunar Quartet del sassofonista
danese John Tichai. Eravamo nel 2008, Tichai sarebbe scomparso quattro anni
dopo. L'idea di quel quartetto è rinata qualche mese fa, nell'ambito del S.Anna
Arresi Jazz Festival, grazie a Greg Burk che ha coinvolto in questa nuova
versione di quel combo il cornettista chicagoano Rob Mazurek.
Classe
’56, svizzero di nascita e residenza, ha trascorsi importanti con musicisti
come Evan Parker, Pierre Favre, Barry Guy. E’ il sassofonista e clarinettista
svizzero Peter A.Schmid, infatuato di free e degli umori della windy-city a tal
punto che pianificando una pausa nella sua attività professionale di medico è
volato a Chicago il 31 agosto del 2014 e, arrivato a destinazione, si è chiuso
per un giorno allo Strobe Recording registrando nell’arco di 24 ore questo album
ora edito dalla Creative Works. Ventiquattro tracce tra frammenti sonori e
brani veri e propri, a differenziali la durata in termini di tempo, alcuni
infatti non superano il minuto, in cui il nostro (clarinetto basso e
contrabbasso, sax baritono e sopranino) interagisce con le percussioni di
Michael Zerang; il clarinetto basso e il sax tenore di Keefe Jackson; il
clarinetto contralto di Wacław Zimpel; le percussioni di Frank Rosaly; il
contrabbasso di Albert Wildman; la cornetta di Josh Berman e il trombone di di
Nick Broste. Un ventaglio di combinazioni variegate riassumibili in quindici
duetti e nove trii, una tendenza chiara verso un ambito dì espressività
improvvisata, prevalentemente fatta di sonorità cupe e fragori percussivi.
Composizioni che prendono vita istantaneamente alle loro esecuzioni, climi
nervosi, timbriche spesso estremizzate, fraseggi imprevedibilmente swinganti
quando a confrontarsi sono strumenti a fiato e umori cameristici, il tutto a
corredo di una produzione certamente di rilievo e, in assoluto, da ascoltare.
Da
qualche tempo il trombettista Wadada Leo Smith sembra aver indirizzato la sua
produzione su due percorsi decisamente diversi l’uno dall’altro. Da una parte
incisioni con ensemble più o meno nutriti come ad esempio Ten Freedom Summers o The Great Lakes, dall’altra
incontri a due come il recentissimo, qui recensito, A Cosmic Rhythm
With Each Stroke,a fianco del pianista Vijay Iyer. Quella di
cui vado a raccontarvi è un’opera ispirata dal prestigioso patrimonio dei
Parchi Nazionali Americani e di cui si prende cura un’istituzione come la National Park Service, creata cento anni
fa con atto del congresso, il 25 agosto del 1916, di cui quest’anno ricorre il
centenario. Smith a poco meno di due mesi dal suo settantacinquesimo compleanno
si concentra su alcune di queste bellezze naturali e dà alla luce quest’album
in compagnia del suo Golden Quintet che lo vede a fianco di Anthony Davis, pianoforte; John
Lindberg, contrabbasso; Pheeroan
akLaff, batteria ed Ashley
Walter, violoncello. Ma ad ispirarlo
non è come si potrebbe facilmente pensare la bellezza di questi luoghi, bensì
come lui stesso dice ………….”la
mia attenzione si concentra sulle dimensioni spirituali e psicologiche
dell’idea di mettere da parte riserve per la proprietà comune di cittadini
americani”...... e su questo nascono le sei composizioni che occupano i due cd. Di
fatto sei componimenti musicali che si sviluppano su vari ambiti, ambiti tra i
quali Smith si esprime con determinazione attraverso un
interplay dalle varie sfaccettature. Come, ad esempio, in “New Orleans: The
National Culture Park USA 1718”, dove l’intro si sviluppa in chiave jazz con
una sottile velatura blues, ma non mancano intervalli cameristici in cui il
violoncello di Walter è protagonista. E’
comunque Smith ad infiltrare con la sua tromba una dialettica che spesso si fa
viscerale, cupa e dai toni gravi in cui Davis al pianoforte lancia lampi di luce accecante
e illumina l’orizzonte con la maestosità del suo pianismo. Straordinario anche il
contributo del contrabbasso di Lindberg, più volte in simbiosi con il violoncello di Walter e ai quali si affianca il drumming superlativo di akLaff. E’ un lavoro di rara magnificenza e
completezza questo di Smith che certifica la grandezza compositiva e la visione artistica di un maestro concertatore e di un grande saggio del jazz contemporaneo.
Il
batterista Ches Smith si è già rivelato, tra l’altro, attraverso il sue essere
membro dei Tim Berne’s Skaneoil nonché da leader del gruppo These Arches. Ora
approdato alla Ecm ci propone otto composizioni a sua firma eseguite con il pianista Craig Taborn e il violinista
Mat Manieri. Il trio si muove attraverso un percorso contaminato da vari elementi: il genero
classico, l’improvvisazione jazz, la ricerca nel filone contemporaneo.
L’apertura con la title track vede i tre intersecarsi con impulsi sonori,
velati accenni di melodie, eruzioni percussive e laceranti sviolinate. Ma è
“Isn’t it Over” due brani più avanti, a tracciare un tema breve ma sufficiente
a delineare un tratto danzante che la viola di Manieri, prima, e il vibrafono
di Smith , dopo, esplicano come fonte irrorante di una porzione improvvisativa
che vedrà il trio in totale simbiosi. Poi il verbo espressivo sembra
impinguarsi di ritmo brioso e armonia: è la volta di “Wacken Open Air” intensa,
avvolta in un turbinio svolazzante. E’ un layout esclusivo, quello dipanato da
Smith, Manieri e Taborn , non etichettabile, fantasioso e cangiante, come gli
ambiti in cui si svela “It’s Always Winter Somewhere” quasi barocca in qualche
passaggio ma al tempo stesso estrosa e ritmicamente sinuosa. Opera di grande
pregio questa di Smith e soci che da qualche settimana dimora indisturbata sul
mio player.
E' un
quintetto eclettico il “Claudia” del batterista John Hollenbeck, tanto
quanto il suo leader da sempre impegnato in vari percorsi. Geniale musicista
che sembra nutrire un debole verso l'attività di questo ensemble al quale, di
tanto in tanto, si dedica. Per quest'ultima produzione, che porta in titolo il
soprannome assegnato dal nostro ad uno dei fan più incalliti del quintetto,
Hollenbeck ha composto dieci brani, nell'insieme un universo sonoro ricercato, con qualche citazione del passato ma nella maggior parte dei casi proiettato
sul presente con un layout raffinato e intrigante che denota la peculiarità
stilistica di ognuno dei componenti il quintetto. Quest'ultimo rivela un
avvicendamento, Red Wierenga, fisarmonica e pianoforte che sostituisce Ted
Rechman, e che si completa con Chris Speed, clarinetto e sax tenore; Dew Gress,
contrabbasso; Matt Moran, vibrafono; John Hollenbech, batteria. Per cominciare
le citazioni, la prima delle quali è contenuta nell'iniziale “Nightbreak” brano
dall'ambient cameristico ma elegantemente colorato e costruito sulla
reinvenzione rallentata del tema di “Night Of Tunisia” di Charlie Parker; la
seconda “Philly” riferita ad una tipica citazione ritmica del famoso batterista
Philly Joe Johnson, è un brano tipicamente jazz di cui è protagonista Chris
Speed con una lunga improvvisazione. Per continuare i ritmi e le interazioni
funky di “JFK Beagle” la fluidità da modern jazz di “A-List” la poliritmia di
“Rose-Colored Rhythm” ispirata ad un'opera del batterista senegalese DouDou
N'Diaye Rose; gli umori orientaleggianti dell'ostinato, ritmicamente sostenuto,
unisono clarinetto-fisarmonica in Pure Poem” ispirato ad un scritto del poeta
Shigeru Matsui. Per finire l'eloquio cameristico di Mangold, una melodia
rarefatta a ricordo di un ristorante vegetariano che si trova a Graz in
Austria, frequentato da Hollenbeck durante le registrazioni di Joys
& Desires di cui se ne siete
curiosi potete leggerne qui la recensione a mia firma. Tornando a Super Petite e al suo variegato e
prezioso mosaico di stili e sonorità non rimane altro che aggiungere che
Hollenbech e compagni hanno confezionato un altro ottimo lavoro, tra i migliori,
fin qui ascoltati, in questo 2016.
Con il
nuovo Ensemble, denominato Double Up, il sassofonista e flautista di Chicago,
Henry Threadgill, si propone nel suo recente album dedicato all’amico e grande
musicista Lawrence D. “Butch” Morris. Una configurazione singolare che include
due pianoforti, quelli di David Virelles e Jason Moran; altrettanti sax alto
con Roman Filiu e Curtis MacDonald; Christopher Hoffman: violoncello; Jose
Davila: tuba; Craig Weinrib: batteria. Conclusa quindi l’esperienza con il
precedente gruppo, Zoid, Threadgill, che in contemporanea alla pubblicazione di
questo album ha ricevuto il premio Pulitzer per la sua precedente opera “In
for a Penny, In for a Pound” si concentra esclusivamente sulla composizione. Sua la firma sulla suite in quattro parti che da il titolo
all'album nonché la conduzione dell'ensemble quasi a ripercorrere le orme del
suo grande amico Lawrence. Sono i due pianoforti ad aprire la prima delle
quattro parti con fraseggi e interazioni che precedono l’irrompere di un
intreccio sonoro con in evidenza un tema che viene ripreso a turno sia dai
fiati che dalle tastiere, con spazi ottimamente calibrati per l'improvvisazione. Dialoghi a due nella più contenuta, in termini
temporali, parte seconda, fra viola e tuba prima e pianoforte e sax dopo, ai
quali si aggiunge un travolgente solo di batteria di Weinrib. Poi il via alla
parte terza con il violoncello di Hoffman intento a tracciare una melodia, a tratti
struggente, in un contesto che potrebbe apparire inizialmente tipico di una
ballad ma che poi si inerpica in dinamiche improvvisative anche in questo caso
esplicate a turno da fiati e pianoforti. Straordinarie interazioni e, come prima, una sorta di flusso sonoro dove i vari elementi entrano in gioco al momento
giusto e si incastrano l'uno accanto all'altro in maniera perfetta. Grande jazz
e grande musica in assoluto che trova naturale sublimazione nella parte finale,
la quarta, una partitura di straordinaria bellezza costruita su varie
sfaccettature tra momenti riflessivi ed esplosioni di straripante intensità. Musica
senza tempo che vive di una forza espressiva di grande impatto, che ingloba la
spontaneità del jazz di matrice tradizionale e i percorsi innovativi del jazz
di oggi. Un must!
Dopo il primo album omonimo il trio di May Halvorson,
chitarra, Michael Formanek, contrabbasso e Tomas Fujiwara, batteria, ritorna
con una nuova produzione. Un lavoro che conferma ancora di più quanto sia stato
arguto da parte dei tre protagonisti intuire l’effettiva opportunità che poteva
offrire a loro stessi e a noi appassionati ascoltatori, l’unione di tre
individualità uniche nel jazz contemporaneo. Sull’esclusività di una musicista
come Mary Halvorson mi sono espresso più volte e devo confessare che mi sento
di ribadire ogni volta di più, quanto ci fosse bisogno di un’ artista come lei
per rivalutare o comunque reinventare il ruolo della chitarra in un ambito
jazz. Su Formanek che non è necessario aggiungere altro se non affrettarmi a
recensire il suo e dell’ensemble Kolossus The Distance, mentre continua
a sorprendermi Fujiwara che in questo ambient si rivela una volta di più
fantasioso e raffinato. Ed è così che l’ascolto delle undici tracce fluisce
meravigliosamente scandagliando un ampia gamma di intrighi sonori. Tutto è
stato generato durante le due settimane di residenza del trio presso la City of Asylum di Pittsburg, un luogo pensato per
poeti in esilio, da qualche tempo aperto a una vasta gamma di artisti tra i
quali anche a musicisti. Ebbene i tre hanno messo su undici composizioni
originali con le quali tessano una fitta ragnatela sonora fatta di sofisticate
interazioni in ambiti che inglobano dinamiche jazzistiche di stampo avant,
sfaccettature rockeggianti, velate inflessioni country ed sfumate melodie
esotiche. Dall’iniziale “Cleome” con i
suoi risvolti rock, alla conclusiva, quasi danzabile “Inevitable” è tutto un
susseguirsi di variegate combinazioni musicali tra le quali vanno citate la
ritmica jazz di “Barn Fire Slum Brew”e l’intrigante vibrato di “Trigger” a
seguire la solitaria intro di Formanek al contrabbasso; il trionfo
dell’elettronica in “Screaming Piha” e i cambi di tempo della title track; i bagliori
free di “Tail of The Sad Dog” e le nervose incursioni di “Danse Insensé”; Un
festival di suoni e colori tutto da godere.
Ancora
un incontro a due per il trombettista Wadada Leo Smith dopo le sontuose opere
in ensemble più ampi negli ultimi anni. In questo nuovo album che vede il suo
ritorno alla Ecm troviamo al suo fianco il
pianista Vijay Iyer entrambi alle prese con un’ opera che celebra un’artista
indiana il cui nome è Nasreen Mohamedi. A lei è infatti dedicata una suite in
sette movimenti che occupa quasi l’intero album con un brano di Leo Smith che
la precede e uno Iyer che gli si accoda. Una performance intensa e vissuta in
ogni piccola porzione per due musicisti che appartengono a due generazioni
diverse eppure risultano essere fortemente ammirati l’uno dell’altro. Ricordo
che Iyer ha fatto parte del Golden Quartet che ha accompagnato per molto tempo
Leo Smith, due musicisti comunque fra i più interessanti oggi sulla scena del
jazz internazionale. Dopo l’iniziale “Passage” una sorta di rilassata e
meditativa introduzione all’ascolto dell’album,
è la tromba di Leo Smith a squarciare l’ambient rarefatto dell’intro di
“All Becomes Alive” condizionato solo dal loop di un’elettronica di cui si
prende cura Iyer. Nel resto del brano ci si imbatte sull’ostinata nota di basso
che accompagna prima i preziosi fraseggi al pianoforte del pianista indiano e
poi il dialogo fitto fra quest’ultimo e Leo Smith. Tensioni free costellano “Labyrints” traccia
n.4 e un dialogo tra minimalismo e suoni asettici straripa da “Uncut Emeralds”.
A chiudere ci pensa “Notes on Water” brano extra suite firmato dal pianista,
che sembra proiettarci verso spazi ancestrali. Un’opera questa della coppia Leo
Smith / Iyer straordinariamente affascinante e inesauribile fonte emotiva. Indispensabile.
Nuovo
progetto per tre dei più rappresentativi musicisti che orbitano attorno
all’etichetta nusica .org. Sono il sassofonista Nicola Fazzini, lo specialista
di chitarra basso, acustica, Alessandro Fedrigo, vera anima dell’etichetta, è
lui che l’ha pensata e creata e il batterista Luca Colussi. Si chiama Saadif ,ovvero, incontro e segna la loro collaborazione con il trombettista iracheno, nato a Chicago ma
oggi cittadino newyorkese, Amir ElSaffar, di cui vi ho raccontato a proposito
del suo album Alchemy, potete
leggerne la recensione qui. Una collaborazione che affianca la matrice jazz
europea, fatta di ricercate strutture compositive, da sempre insite nelle
produzioni dei tre musicisti italiani, con la musica araba-africaneggiante di
ElSaffar. Il risultato è una selezione di pregevoli brani, sei per
l’esattezza, che si apre con“Mono Esa Tono” una ben riuscita coniugazione di passato e
presente, di tradizione e contemporaneità. Poi arrivano le orientaleggianti esternazioni
vocali di ElSaffar, nell’intro di “Kosh Reng”, quasi una nenia rituale araba che
precede l’arrivo di un flusso ritmico ostinato ed ipnotico, splendidamente
scandito dalla coppia Fedrigo-Colussi a supporto degli interventi ai fiati del
binomio Fazzini-ElSaffar che opera in perfetta simbiosi. Ricca di simili
effusioni sonore è anche “13th of November” diversa strutturalmente ma
officiante, armonicamente, l’universo arabo. Tra ritmi velatamente funky e
inflessioni post-bop si snodano “Hyper Steps” e “Futuritmi” già incisa in una
precedente produzione dall’XY Quartet di cui fanno parte i tre musicisti veneti;
mentre “Human Tragedy” in chiusura dell’album sembra avvicinare il suono
dell’ensemble verso ambiti più mediterranei. Un’opera, questa numero nove di
nusica.org, perfettamente riuscita nel suo intento di celebrare musicalmente l’incontro
oriente e occidente. Un magnifico esempio di sintesi tra modern jazz ed
elementi propri della cultura musicale
araba come il maqâm, che il trombettista iracheno ha già metabolizzato nel suo
layout espressivo.
Unica
data italiana, quella di venerdì 27 maggio, per il quartetto Kaze di Satoko
Fujii, Natsuki Tamura, Christian Pruvost e Peter Orins che ha fatto tappa al
Torresino di Padova nell'ambito della rassegna del Centro D'Arte degli Studenti
dell'Università. Evento atteso, come molti fra quelli programmati
dall'associazione nei settantanni di attività. Sulla scena un quartetto dal
profilo espressivo certamente unico e stimolante. Una delle tante ramificazioni
dell’attività di una musicista, straordinariamente prolifica, che qui prova ad
andare abbondantemente oltre i limiti di una convenzionalità sonora già non tale, in assoluto, nella sua natura
artistica.
Nuova
produzione per i Pollock Project del compositore e pluristrumentista Marco
Testoni, vera anima del gruppo di cui vi ho raccontato in occasione della pubblicazione
del precedente album “Quixote”. Di quell’organico oggi rimane il solo Testoni
al quale si aggiungono, nel trio di base, la vocalist Elisabetta Antonini e il
sassofonista e clarinettista Simone Salza. Quello che invece si riconferma caratterizzante anche in questa occasione, ancor più della precedente, è la
capacità dell’ensemble di stupire per la spiccata attitudine ad arricchire e
contaminare la propria espressività con svariati elementi provenienti da vari
ambiti musicali. Ed allo stesso modo è da sottolineare la vasta gamma di
situazioni dalle quali le composizioni della band prendono spunto. C’è anche in
questa occasione la conferma di un obbiettivo primario, per Testoni e soci, che
è quello della musica visuale attraverso una sintesi di elementi che
riconducono chiaramente al jazz, all’elettronica e alla musica per immagini.
Scorrendo l’ascolto delle dieci tracce di questo nuovo lavoro, realizzato con l’ausilio
di altri musicisti ospiti, c’è da stupirsi non poco già dall’iniziale “Aura” un
caleidoscopio di ritmo, armonia e sonorità variegate, dedicato alla città
spagnola di Barcellona. Come nel precedente album anche in quest’ultimo
ritroviamo la rilettura di un brano di John Coltrane. E’ “Naima” con tutto il suo
ventaglio di suggestione, spiritualità e magia. I Pollock Project ne coniano
una versione estasiante sicuramente unica. Le successive tre tracce
chiudono una prima metà dell’album densa di suoni world, di interazioni
ritmiche, di ironia dissacrante come quella di “Gonzo Entertainment” dedicata
alla frivolezza dell’universo televisivo. Le rimanenti cinque tracce si
orientano invece verso ambiti più tecnologici, verso musiche più d’avanguardia,
come una altra rilettura “Vauro” dei Sigur Ros, una band islandese di
post-rock, riproposta provando ad accostare nord europa e mediterraneo
attraverso un layout jazzistico minimale. Ed ancora mi ha sorpreso e
appassionato la successiva “Anna Blume” che è anche il titolo di una poesia
dadaista, scritta da Kurt Schwitters, a cui il brano è ispirato. Mi hanno
incuriosito le sue sonorità sintetiche, il pseudo ostinato che percorre il brano, gli inserti
vocali e strumentali così ben amalgamati. Cos’altro aggiungere se non una lode al trio Testoni-Salza-Antonini per un progetto
che nella sua interezza è un’opera esclusiva.
E' stata
la chiesa di St. Romanus a Ranus, in Svizzera, l'esclusiva location scelta dal
quartetto elvetico Le Pot per le sedute di registrazione di questo loro
recentissimo cd. Manuel Mengis alla tromba ed elettroniche, Hans-Peter
Pfammatter ai sintetizzatori, Lionel Friedli alla batteria e Manuel Troller
alla chitarra hanno impiegato quattro giorni per dare vita a questa loro
produzione in bilico fra jazz, avanguardia, tecno e ambient music. Ma c'è anche
un preciso riferimento, in stretta relazione con la loro espressività, ed la
musica di Benjamin Britten nel cui repertorio i quattro hanno pescato alcune
composizioni che qui hanno sviluppato secondo il loro layout espressivo
affiancandole ad altre da loro stessi firmate e privilegiando in entrambi i
casi l'improvvisazione. Ed cosi che il percorso, costellato di ben undici
episodi, si rivela già dall'iniziale “Eyrie” denso di mistero. I suoni sembrano
trascendere la realtà, moltiplicarsi, frammentarsi in una frenetica rincorsa
verso l'indefinito. Le sonorità sintetiche e l'intenso flusso ritmico di
“Flint” preludono ad un breve episodio caratterizzato da un fraseggio armonico
di Mengis alla tromba: è l'intro di “Thus Gamesters United in
Friendship/Ungrateful Macheath!” che poi andra ad evolversi in svariate mutazioni
sia ritmiche che sonore. Poi l'atmosfera sembra acquietarsi con i rarefatti
umori di “Hamada/Requiem Aeternam” e i minimalismi narrativi di “Ranunkel und
Viola” con la tromba di Mengis protagonista, qui come in tutto l'album, con una
vocalità variamente modulata e fortemente espressiva che lascia spazio nel
finale al ritmo quasi tribale di Friedli alla batteria. Arriva in successione,
inaspettato con “Meanwhile” traccia n.8, un eloquio di free bop claunesco e
ironico mentre “Now Until The Break of Day” con il suo riff ostinato ed
elementare chiude con leggerezza un album intriso di imprevedibilità e
ricercatezza.
Il
collettivo nusica.org ha dimostrato nel corso di questi anni di essere
innanzitutto un insieme di musicisti prolifico e ricco di idee. Il tutto ha fin
qui prodotto, compresa quest’ultima, ben otto produzioni musicali rilasciate
sempre e comunque attraverso la filosofia principe di questa etichetta che è
quella della condivisione in rete a cui si aggiunge, come ho già scritto altre
volte recensendo le precedenti produzioni, la possibilità dell’acquisto dei cd
fisici che sono stampati in tiratura limitata e numerata. A chiunque fosse
interessato ricordo che è possibile leggere le mie recensioni sulle precedenti
incisioni inserendo “nusica” nella
casella di ricerca di questo blog. Questa ottava produzione è firmata
esclusivamente dal sassofonista Nicola Fazzini, unico interprete al sax alto di
un’opera singolare, sia nel suo concepimento che nella sua particolare
fruizione. Fazzini ha scritto per questo cd ed incluso in esso ben 46
composizioni o per meglio dire 46 frammenti sonori, se teniamo conto che solo
poche di esse superano di una manciata di secondi il minuto di durata,
raggruppate in dieci matrici differentemente
denominate. Fin qui sembrerebbe tutto normale se non fosse che ogni cd
reca le 46 composizioni in un ordine diverso dall’altro e che le stesse
composizioni possono essere ascoltate in streaming con un ordinamento
variabile soltanto attraverso il refresh della pagina web che li contiene e
che potete visitare cliccando qui. Ma non è
tutto perché anche l’ipotetico acquirente del cd ha la possibilità di
intervenire, durante l’ascolto, nel relativo ordinamento dei brani, attivando
sul proprio player la funzione random. E’ chiaro che tutto ciò rende questa
produzione unica e sicuramente discutibile, ma la filosofia di nusica.org non
teme confronti di sorta. Fazzini si muove nell’ambito di un universo jazzistico
d’avanguardia e di ricerca e anche questa sua ultima fatica è densa di stimoli
e intuizioni da approfondire e sviluppare.
La
Neither/Nor Records è un’etichetta discografica che ha sede a New York e che si
presenta come dedita alla musica
improvvisata e avventurosa. Finora sono state tre le produzioni edite, tra le
quali c’è questo Rune del trio Earth
Tongues formato dal trombettista Joe Moffett, dal tubista Dan Peck e dal
percussionista Carlo Costa. Alla dotazione strumentale appena descritta si
aggiunge un cassette player affidato a Peck, nelle quattro composizioni
inserite nel cd. Un’opera certamente diversa dagli standard abituali del jazz
contemporaneo che nasce nella New York dei fermenti innovativi, tra musicisti
ossessionati dalla ricerca a tutti costi. Ed è così che ci si ritrova ad
ascoltare un combo intento a rincorrere una relazione tra suoni di differente
natura: rumori, note musicali, battiti di ritmi irregolari e frammenti di
melodie. Come entrare in un tunnel sonoro, in puro ambient minimalista e
viaggiare tra i meandri di un universo tecnologico e misterioso. Un’esperienza
di grande fascino, quasi una scommessa con il pensiero normale di chi
arriverebbe a definire inascoltabile questa produzione. E invece….. tutt’altro!
perché Moffett, Peck e Costa captano e restituiscono qualcosa di esclusivo,
certamente straniante ed imprevedibile. Un’audace scelta espressiva che merita grande
attenzione.
Che il batterista Devin Gray abbia già rivelato tutte
le sue doti di strumentista e di scrittura, di un jazz fortemente imparentato con
la contemporaneità, è cosa oramai assodata vista la pregevole fattura della sua
opera prima, Dirigo Rataplan, di cui potete leggere qui la
recensione. Tre i musicisti a coadiuvarlo in quell'incisione: Dave Ballou alla
tromba, Ellery Eskelin al sax e Michael Formanek al contrabbasso, sostituiti dalla
pianista Kris Davis, dal contrabbassista Chris Tordini e dal sassofonista e clarinettista Chris Speed in
questo nuovo e avventuroso percorso che si traduce in un concatenato fluire di
interazioni soniche e ritmiche racchiuse in otto composizioni originali firmate
da Gray. Dopo i due episodi iniziali “City Nothing City” e “In the Cut” fortemente
impregnate di free bop arriva l’intensa e magmatica “Notester” un mosaico sonoro,
in continuo crescendo fra scrittura e improvvisazione, costruito, passo dopo
passo, con il paritario contributo di ognuno dei quattro. Gray e soci esprimono
poi un ambient cameristico, nella prima parte dell’intrigante “Jungle for
Design” scritta per l’illustratrice Hannan Shaw, che si sviluppa nella sua
seconda parte in pieno climax jazzistico. L’ascolto procede con l’incalzante “Transatlantic
Transition” impinguata costantemente di urgenza
espressiva, che solo nel finale concede una pausa con le danzanti note del
pianoforte della Davis, mentre è la title track scritta per il grande Tadd
Dameron a far riemerge umori bebop velati in qualche passaggio di hard. Album
di grande fascino e coinvolgimento, questo secondo di Gray, proiettato su orizzonti innovativi e contaminanti, che si ascolta e
riascolta senza mai deludere, sorprendendo di volta in volta per l’intensità
delle sue trame musicali. Il batterista conferma le sue enormi doti di
scrittura e di strumentista, di cui scrivevo prima, il suo drumming è
incessante e appropriato in ogni condizione e i musicisti che lo affiancano,
come risaputo, sono tra il meglio che la scena d’avanguardia newyorkese possa
offrire. La Devis e Speed appaiono straordinariamente ispirati e il
contrabbasso di Tordini si mostra vigoroso e dinamico. In definitiva questo è
un cd fortemente consigliato.
Nuovi
orizzonti espressivi si delineano nel linguaggio jazz del pianista Rosario Di
Rosa e del suo trio formato da Paolo Dassi al contrabbasso e all’elettronica e
da Riccardo Tosi alla batteria. L’approdo all’ etichetta discografica milanese
Nau Records, nata nel 2011 per volontà di Gianni Barone, sembra aver dato nuova
linfa creativa al musicista siciliano che comunque aveva già fatto notare le
sue qualità artistiche con le precedenti produzioni. In questo Pop Corn Reflection c’è qualcosa di più:
c’è voglia di innovarsi, di contaminare il proprio layout compositivo e di
tracciare percorsi inediti. Per fare ciò il trio arricchisce la propria
configurazione base (pianoforte-contrabbasso-batteria) con vari strumenti
elettronici ed esordisce in apertura delle selezioni in preda all’ossessione ritmico-tecno
di “Pattern n.74 – Serie” e all’urgenza espressiva della successiva “….And
Peanuts for All”. Ma è la traccia n.3 “Steve Reich Reflection” chiaramente
ispirata ad uno dei maestri del minimalismo a sorprendere per la sua struttura
articolata. A seguire sopraggiunge la magnificenza lirica di “Spring n.35” che mette
in evidenza, se mai c’è ne fosse bisogno, anche le capacità tecniche e la
sensibilità artistica, oltre che del leader, anche del binomio Dassi-Tosi. Il proseguo dell’ascolto, dei rimanenti brani, evidenzia il riproporsi degli elementi già evidenziati,
in un alternarsi di scrittura e improvvisazione, con ricorrenti passaggi di
stampo minimalista. Ed eccomi, allora, totalmente rapito dalla sfaccettata
struttura di “Hattori Hanzo Reflection” o dalle ricercate interazioni presenti
in “Variation on Schӧnberg’s
Klavierstὒcke op
19 n.2” variazioni sulla stessa opera scritte da Di Rosa. Un lavoro ambizioso, questo del pianista e del suo trio, ottimamente riuscito e di grande
originalità.
E’
stato poco più di un anno fa che il vibrafonista Luigi Vitale e il batterista
Luca Colussi si sono ritrovati per registrare quella che adesso è la settima
produzione per l’etichetta nusica.org. Il titolo, Stilelibero, ne descrive chiaramente lo spirito con il
quale è stata concepita. Vitale e Colussi hanno provato per una intera giornata
a dialogare senza costrizioni e senza percorsi prestabiliti, registrando ben
sette ore di musica dalle quali, come raccontano presentando il cd, hanno
estrapolato le otto tracce che ne costituiscono la selezione. Otto episodi che
celebrano l'interazione ritmica fra i due musicisti che insieme al bassista
Alessandro Fedrigo e al sassofonista Nicola Fazzini avevano condiviso la
magnifica esperienza dell'album Idea F
nell'ambito dell' XY Quartet. Qui si celebra l'interazione ritmica fra due
specialisti, quali sono Vitale e Colussi, di strumenti come la batteria e il
vibrafono ai quali si aggiungono rispettivamente per il primo: vibrafono
preparato e vari di strumenti elettronici e per il secondo: sonagli, gong e
altri oggetti sonori. I due disegnano in modo estemporaneo paesaggi inusitati;
nel loro verbo c'è una spontanea capacità comunicativa che genera flussi
ritmici in continua evoluzione. Ricerca e inventiva proseguono di pari passo a
partire dalle rarefatte ed estese atmosfere dell'iniziale “Passaggi Nordici”
mentre il passo cadenzato di “Fuga e Liberta” è l'elementare elemento da dove
prende vita uno dei brani più affascinanti di tutto l'album. Suoni estranianti,
sospesi nel vuoto e nel tempo, nell'intro di “Instabilità delle acque” che
sfocia poi in un incalzante flusso ritmico. E ancora “Suite Verticale” con i suoi
tre movimenti in continuo divenire a rivelare la reale e indiscutibile magnificenza
di questo lavoro di pura empatia, di spontanee convergenze e di assonanze di
intenti fra due musicisti che aprono nuove vie all'espressività dei loro
strumenti.
Dopo le
abrasive sonorità e i contrasti dinamici del suo precedente Ost Quartetl'italianissimo chitarrista padovano, Nico Soffiato, da anni
residente a Brooklyn, si ripropone in compagnia del trombettista Josh Deutsch
con il quale aveva condiviso nel 2011 un' esperienza discografica con un album Time Gel
come questo autoprodotto. Sonorità gradevoli e dinamiche acquietanti sono i
presupposti per un album elegante e raffinato che si avvale del contributo di
Zach Mangan alla batteria e di J.C. Maillard alle elettroniche. Deutsch ha il
piglio lirico e ammaliante, la sua tromba cattura l’ascoltatore mentre Soffiato
ricama con contrappunti e pregevoli dialoghi ogni passaggio dei nove episodi contenuti
nel cd. Sette originali, alcuni a firma singola, altri in coppia e due
arrangiamenti di cui si è esclusivamente occupato Deutsch: un’intima riproposizione di un brano
di Gershwin “Someone To Watch Over Me” e una personalissima rilettura della
Patetica di Beethoven altrimenti conosciuta come la sonata per pianoforte n.8opera
13. Sottolineature particolari meritano anche: la title track che propende verso orizzonti
rock; le atmosfere prevalentemente ballad di “Time Gel” e “Alabaster” nonché le
ricercatezze minimali e rarefatte di “Salica Sand” e gli umori notturni di “Mix
Tape”. Album intrigante e ispirato, piacevolmente godibile. Giuseppe
Mavilla
Arriva a Cracovia da New York: è il contrabbassista
Mike Parker che della città polacca è cittadino ormai da due anni. Questo
invece è il suo secondo lavoro con musicisti, di quella parte dell’est europeo,
quali Dawid Fortuna, batteria; Bartek Prucnal, sax alto; Slawek Pezda, sax
tenore; Cyprian Baszynski, tromba. Un album di modern jazz che ingloba nelle
otto tracce che contiene espressività varie e articolate. Il tutto restituito
con forza e intensità avvolgenti attraverso dinamiche hard e post bop, impinguate
dalle innegabili influenze di grandi musicisti come Coleman o Mingus. E’ il
caso, in particolare, delle prime due tracce della selezione “Kobra Kai Dance
Remix” e “Hopped up Pop” brani dalla straordinaria verve ritmica e dall’intenso
interplay, con larghi spazi per l’improvvisazione. Il front line dei fiati,
magnificamente assortito, è arricchito dalla puntuale e robusta sezione ritmica
sempre in primo piano. Parker impugna l’archetto, inaspettatamente e per poche
battute, quando introduce “Sendoff for Sendak” una ballata sinuosa e lirica che
si sviluppa in crescendo prima dell’abrasivo e funkeggiante “Piwo I Bona”. E’
poi la suite in tre movimenti “All Saints” a chiudere l’album in pieno climax
mutante, tra umori sinfonico - cameristici e (ancora) fluide
ricorse in territori bop a testimonianza dell’estro sopraffino e creativo del
contrabbassista newyorkese.
E’ un approccio smisurato, un assalto alle possibilità
espressive dello strumento contrabbasso. Ne è autore Federico Bagnasco,
musicista ligure, coadiuvato da Alessandro Paolini impegnato a quelle
elaborazioni elettroniche che contaminano larga parte delle quattordici
composizioni contenute in questo cd. All’interno di esse si ascoltano umori
classici, elucubrazioni cameristiche, improvvisazioni di stampo jazzistico,
manipolazioni di avanguardie espressive. Bagnasco non si pone dettami ne
limiti, tranne quello di non strafare e ci riesce magnificamente. La sua
creatività procede imperterrita dalla prima all’ultima traccia attraversando
ambiti variegati e restituendoci un’idea del contrabbasso mai assunta prima.
Grande fantasia e profonda ricerca nell’attività di manipolazione del suono
generato dallo strumento e plasmato su registri sonori inconsueti; ampio uso
dell’archetto e continuo rilascio di infusioni sonore e ritmiche di forte
impatto. Un gioco appassionato e appassionante che lega idealmente il musicista
e l’ascoltatore, come quello che si instaura tra la naturalezza delle trame del
legno di un contrabbasso e i chip degli elaboratori elettronici che ne filtrano
il suono. Una produzione, impossibile da
etichettare, che brilla di esclusività e che va assolutamente ascoltata.
Non del tutto inedito il duo protagonista di questo cd, Roberto Gemo ed
Alessandro Fedrigo sono stati in un recente passato parte dell’Ar-men Trio e successivamente hanno portato in
giro in un unico spettacolo le loro proposte in solo, condividendo anche in
momento in duo. In questa produzione numerata “06” nel catalogo della singolare
etichetta trevigiana nusica.org Gemo e Fedrigo provano a sintetizzare le loro
diverse anime musicali. Gemo ha un profondo legame per il mondo classico, ma si
mostra parecchio lusingato dal country rock acustico di stampo americano.
Predilige la tecnica del fingerpicking e in questa incisione lo troviamo alle
chitarre: classica, soprano e baritono nonché all’elettrica e agli effetti;
Fedrigo evidenzia invece una notevole propensione verso la musica jazz, è uno
studioso delle possibilità espressive della chitarra basso acustica, ascoltate
al tal proposito il suo albumSolitario, ma in questa occasione imbraccia anche il basso
elettrico e si occupa nel contempo delle voci e degli effetti. Quindici le
composizioni incluse nell’album, tutte originali e tutte uscite dall’estro
compositivo dei due protagonisti. La traccia d’esordio, che da il titolo
all’album, delinea i presupposti primari di un dialogo che si fa sempre
più intenso e vario man mano che si va avanti nell’ascolto. Gemo e Fedrigo
disegnano splendide melodie, preziose essenze di composizioni dalle
strutture composite dove c’è spazio per l’improvvisazione. Basta ascoltare “Per Sempre” o le struggenti
armonie di “De Molen” che Gemo traccia con raffinato incedere prima di
imbattersi nella fedrighiana “Obuscurio”. Un brano dai toni scuri in cui, per i
primi due minuti, è protagonista la chitarra basso acustica dell’autore che
subito dopo instaura un intenso processo interattivo con la chitarra di Gemo.
Il culmine della genialità comunicativa tra i due musicisti si realizza in “Valzer
Amabile” vera perla dell’album mentre in “Falesie” si dispiegano umori
jazz intrisi di leggerezza e fluidità. Ad intervallare questi e altri
pregevoli episodi sono poi brevi brani in cui Gemo e Fedrigo percorrono
sentieri espressivi legati ad ambiti progressive e rock noise. Momenti
abrasivi, dissonanti, con largo uso di effetti elettronici, probabilmente
estemporanei, con i quali i due protagonisti si concedono stimolanti
divagazioni sonore ed esecutive. LeCode Alterne di
Gemo e Fedrigo ci regalano una riuscitissima produzione in pieno stile
nusica.org fruibile in rete attraverso i suoi contenuti multimediali e di cui è, come sempre, disponibile anche il cd fisico, realizzato in tiratura limitata e
numerata.
Brioso,
ironico, dirompente. Così si presenta il Lorenzo Capello Quintet già a partire
dalla traccia d'apertura di questo cd, il secondo della sua discografia. I
cinque raccontano in musica, metaforicamente, la condizione di chi non riesce
mai a decidere, di chi non riesce mai ad uscire dal suo guscio, dal suo piccolo
angolo di collaudata sicurezza pur avendone voglia. Giocando con il titolo di
un celebre romanzo danno il nome all’album e rappresentano la metafora
attraverso un individuo prigioniero del suo armadio e incapace di scegliere ciò
che deve portare con sé nell’imminente partenza. Due fiati: il trombone di Tony
Cattano e i sassofoni di Antonio Gallucci; il pianoforte di Lorenzo Paesani;
Michele Anelli al contrabbasso e Lorenzo Capello, leader della formazione, alla
batteria. A loro, in un brano, si aggiunge la cantante americana Echo Sunyata
Sibley. Un album che si snoda attraverso un ventaglio di ambiti che vanno dal
bop al jazz- rock, passando dalle parti del blues, dell’ hard bop e persino
dello swing. A volte solo accenti, altre volte vere e proprie incursioni, che
si succedono con frenesia e imprevedibilità, in una sequenza incalzante,
cangiante e irrorata da pregevoli soli. Tutto ciò delinea un ensemble dall’identità ancora non
totalmente definita ma di certo con promettenti prospettive.