domenica 8 dicembre 2013

Wanderer

Adalberto Ferrari’s LIQ

Zone di Musica
 

Immaginate un viandante che si muove su un ipotetico e surreale pentagramma superandone i confini, vagando nel mare magnum dell’improvvisazione jazz utilizzando un combo strumentale che ingloba fiati, pianoforte e sezione ritmica contrabbasso-batteria. E’ un musicista errante, come lo definisce il clarinettista/sassofonista  Adalberto Ferrari che con il suo LIQ, Los Identities Quartet, formato da Rosario Di Rosa al pianoforte, Paolo Dessi al contrabbasso e Massimo Pintori alla batteria ha inciso sette episodi musicali, quasi una suite, riversati in questa produzione discografica. Wanderer, titolo dell’album, definisce, così come esplicita il suo autore, il soggetto principale di un’ avventura musicale che sorprende fin dal primo ascolto e che coinvolge di volta in volta, nei successivi approcci, rivelando risvolti sempre più fascinosi che tracciano un’identità musicale sicuramente complessa quale è quella di Ferrari. Un musicista che non ama costrizioni stilistiche, che dimostra di possedere estro e fantasia nel comporre e nell’eseguire quelle, che di fatto, sono composizioni articolate con ampi spazi per l’improvvisazione. Quattro di esse portano proprio la firma di Ferrari che ha concepito un album concettuale con un tema musicale primario di base che si annuncia già dalle prime battute della traccia iniziale “Wanderer – Insalata Matta” e che si ripropone reinventato di volta in volta alla fine e all’inizio di tutti gli altri brani. La reinventazione del tema è affidata a turno a ognuno dei quattro componenti che si pongono in solitudine durante la declamazione di questo passaggio. All’interno di ogni brano, invece, l’interattività e l’intensità della performance è debordante e partecipata dall’intero quartetto con un’impennata nelle parti improvvisate. Cambi di tempo, dialoghi a due, si alternano senza pause mettendo in risalto non solo le peculiarità artistiche e tecniche del leader, che sono notevolissime, ma anche la profonda sensibilità interpretativa di Rosario Di Rosa che al pianoforte rivela aspetti forse sottovalutati del suo pianismo. Lo si apprezza nei soli, dove la sua cifra stilistica si dimostra particolarmente pregevole, così come nei contrappunti ed anche come compositore perché “Microtune n.5” tra le composizioni più intriganti dell’album, porta la sua firma. E allo stesso modo si apprezza la forza ritmica e la costanza partecipativa della sezione ritmica, che rivela un raffinato e attento batterista quale è Pintori. Ascoltatelo quando riesce a tracciare con i suoi tamburi il tema base legando la parte finale del primo brano con l’intro della stupenda “Non è Gaia” dove ritroviamo un Ferrari lirico e seducente. E non dimentico Dessi, contrabbassista dal tocco profondo e incisivo, straordinario all’archetto in “Melodies” brano dal riff popolaresco che rilascia, in un breve frammento, umori d’avanguardia in contrapposizione ad un groove jazzistico che da lì a poco sopraggiungerà. Il contrabbassista è poi autore della penultima traccia “Arcipelago Fantasma” brano in continua mutazione di climax, fra tensioni free e sfuggenti armonie. In tutto questo pot-porri si innalza il talento esclusivo di Ferrari che sa essere sorprendentemente dirompente e viscerale così come delicato e struggente e se ne ha una conferma ascoltando la stupenda “Lontano” brano che si sviluppa tutto in crescendo. Wanderer ha girato per qualche giorno sul mio cd-player come unico oggetto d’ascolto e non solo perché dovevo scriverne la recensione ma soprattutto per la sua ricchezza espressiva, per le sue sfaccettature così assortite ma così magnificamente attinenti l’una all’altra. Il musicista viandante, coadiuvato da i suoi compagni di viaggio, ha raggiunto il suo fine perché Wanderer è indiscutibilmente uno dei migliori album di jazz italiano di questo 2013.


giovedì 28 novembre 2013

Piano Sutras

Matthew Shipp

Thirsty Ear


Immenso come sempre il piano solo di Shipp come già accaduto in passato in ognuno delle tante produzioni del pianista americano. Immenso e dilatato per vari latitudini di genere. Tecnicamente passionale e irripetibile, denso di frenesia e di trasporto, alterna cambi di tempo a sottili riflessioni. Ė già dall'iniziale traccia, quella che da il titolo all'album, che si evidenziano questo peculiarità, oppure dall'alienazione quasi drammatica di “Surface The Curve”. Si rischia di rendersi ripetitivi e monotoni a citare ogni brano come a stilare un catalogo. Shipp è un torrente di note che il suo pianoforte restituisce incredibilmente veritiere e reali. Emozioni vibranti di vitalità, riflessioni di stati d'animo e di pensieri. Le sue mani premono sui tasti e rilasciano le elaborazioni sonore di un straordinario musicista capace di esprimere la grandezza della coltraniana “Giants Steps” in poco più di un minuto attraverso una personalissima interpretazione o di passare alla dura e spigolosa “Uncreated Light” con naturalezza e impensabile logicità. Una ragnatela di episodi che si susseguono dispiegando una identità e nel contempo un appropriato divenire che conduce con leggerezza e velocità verso la conclusione delle selezioni. Il tutto non prima d'aver apprezzato l'atmosfera intensa e sottilmente lirica di ”Space Bubble” o gli eloquenti fraseggi di “Nefertiti” di Shorter-riana memoria, fino alla conclusiva, inarrivabile e irriducibile “The Indivisible”. Questo cd è nei fatti un'altra prova superba di un musicista che ha innovato il rapporto con il pianoforte, che ha saputo leggere nella tradizione metabolizzandone i tratti essenziali. Un musicista che in solitudine o in connubio sa sempre distinguersi e rivelarsi in tutta la sua magnificenza di artista.

domenica 24 novembre 2013

Stories Yet To Tell

Giorgia Barosso

 Raffinerie Musicali


La vocalità jazz al femminile ha dei trascorsi importanti nella storia di questo genere musicale, interpreti che non hanno bisogno di essere menzionati tanto sono note le loro gesta artistiche. Trascorsi che comunque non hanno fortunatamente dissuaso, nuove giovani interpreti anche italiane, a cimentarsi, di tanto in tanto, in progetti di vario tipo. Ed è recentissima, ad esempio, questa interessante proposta di una vocalist italiana, Giorgia Barosso, emiliana d’origine ma piemontese d’adozione. Nata a Parma vive da anni in provincia di Alessandria, e questo suo album, di indubbio valore artistico, la vede alle prese con noti standard e con brani originali composti insieme al pianista Mario Zara. Un’interprete, la Barosso, dalla biografia ricca di esperienze musicali e di studi approfonditi come quelli di pianoforte al Conservatorio “A.Vivaldi” di Alessandria e di canto e improvvisazione jazz con insegnante Tiziana Ghiglioni. Nel 1989 debutta come vocalist con una band di soul-funky ma l’anno successivo è rapita dal jazz. D’allora ad oggi sarà tutto un susseguirsi di incisioni ed esibizioni in concerto con l’aggiunta, dallo scorso anno, di un impegno radiofonico con l’emittente web Vertigo One. Stories Yet To Tell, uscito lo scorso sei novembre, è realizzato con il già citato Mario Zara, pianoforte e piano Rhodes, Marco Antonio Ricci, contrabbasso e Michele Salgarello, batteria. Nove i brani in esso contenuti in quattro dei quali si aggiungono il trombettista Fabrizio Bosso e il chitarrista Riccardo Bianchi. La traccia iniziale è la celebre “Love For Sale” di Cole Porter, interpretata dalla Barosso con un’intensità prettamente soul-jazz e piacevolmente colorata dal solo di Bosso. Segue il brano che da il titolo all’album, una delle quattro composizioni originali presenti, una ballad dai toni raffinati e pertinenti alla struttura standard della song stessa, che mette in evidenza le pregevoli qualità vocali della protagonista. Poi l’ascolto si snoda attraverso la piacevole fluidità della notissima “Time After Time” in cui Zara recupera le sonorità del mai dimenticato piano Rhodes; le inedite fantasticherie chitarristiche di Bianchi in “Come Rain or Come Shine”; l’interpretazione magistrale della Barosso della celebre “Oh Lady Be Good” firmata da Gershwin e la variegata struttura di “I”. L’album nella sua interezza è caratterizzato da un’accurata stesura degli arrangiamenti, e qui il lavoro di Mario Zara si evidenzia in particolar modo nella capacità di equilibrare le varie sfaccettature vocali e strumentali con l’evidente attenzione a non strafare. Altra citazione anche per il binomio ritmico Ricci-Salgarello attento, puntuale e fondamentale in ogni ambito. La Barosso dal canto suo mostra di prediligere una certa classicità del canto jazz mista alla voglia di innescare, in essa, sottili umori moderni che non stravolgono l’essenza dei brani ma ne rinnovano la fruibilità. Si delinea in tal modo il profilo di un’interprete destinata a distinguersi nel suo ambito per un’identità propria e ben definita della sua vocalità.

giovedì 14 novembre 2013

Spring Storm

Satoko Fujii New Trio

Libra

Dopo anni di attività con Mark Dresser al contrabbasso e Jim Black alla batteria e sette album dei quali mi piace ricordare Trace a River datato 2008, arriva un nuovo trio per la pianista Satoko Fujii  che, con al fianco il contrabbassista Todd Nicholson e il batterista Takashi Itani,  realizza questo Spring Storm  una delle quattro uscite discografiche che la vedono protagonista in questo 2013. Un album in trio che si muove su versanti più ampi e totalmente diversi da quelli intimi apprezzati in Gen Himmel qui recensito e che ci riporta alla Fujii più espansiva, per certi versi irruenta, con le sue sortite sulla tastiera ma anche capace di sofisticati e rarefatti interludi inseriti in strutture elaborate quali sono nei fatti le sue composizioni. Composizioni che molto spesso hanno un’intro introspettiva e lirica dove la pianista traccia architetture estranee al jazz tradizionale, uno sviluppo in crescendo, un successivo ambito con ampio spazio per l’improvvisazione e una conclusione in cui viene riproposto il tema già esposto nell’introduzione. Altre volte i brani prendono vita da un riff o da una frase tematica magari ostinata e sviluppata poi, sempre e comunque, con una intensa attività di improvvisazione. Elementi già noti del linguaggio messo in mostra in precedenza dalla pianista e che in questo nuovo trio sembrano essere riproposti e interpretati con un pizzico di maggiore spontaneità e un pò meno elaborate rispetto a quanto accadeva con Dresser e Black. Si evidenzia in qualche modo in approccio più immediato all’ascolto ma In entrambi i casi l’arte della Fujii e dei musicisti si mostra in tutta la sua grandezza e unicità in quanto Nicholson e Itani, come i più rinomati colleghi del recente passato, hanno metabolizzato il prontuario espressivo e il climax esecutivo che la leader predilige e che si esplica fra rarefatte esposizioni tematiche e vibranti turbinii. Tutto ciò è quanto è racchiuso in questa ennesima produzione dell’artista giapponese un altro capitolo irrinunciabile della sua ampia e varia discografia.


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martedì 12 novembre 2013

The Art of the Duet Vol.1

Ivo Perelman
Matthew Shipp

Leo


Ecco due musicisti alfieri dell’avanguardia jazz contemporanea: Ivo Perelman, sassofonista brasiliano, che si porta dentro l’esuberanza artistica propria della sua gente. Non è solo un musicista, è anche un artista esponente delle arti visuali; Matthew Shipp, americano è un pianista che ha tracciato percorsi inediti ai margini e oltre la musica afroamericana, rileggendo con sapienza anche la tradizione. Due personaggi eclettici, entrambi con ampie discografie alle spalle, che hanno scoperto, non da ora, di poter condividere le affinità di un interplay esclusivo che passa inevitabilmente attraverso un' estemporaneità assolutamente free. Eccoli quindi impegnati nel primo dei tre incontri che il progetto The Art Of The Duet prevede. Ed è un duetto magistrale quello riescono a metter in campo nei tredici episodi di cui si compone questo lavoro discografico. Un duetto che si realizza attraverso un percorso in cui i due protagonisti sono in costante relazione. Ognuno di essi definisce le peculiarità essenziali del proprio linguaggio ma anche i tratti distintivi della propria personalità. Perelman è incalzante, fremente di un'urgenza espressiva dirompente e non da tregua al proprio strumento. Cambi di ritmo, esaltazioni timbriche, sono le costanti primordiali del suo linguaggio. La vocalità del suo sax sa delinearsi con varie sfaccettature impregnata di naturalezza e forza, incuneata in una catarsi espressiva che non concede pause e non trascura alcun registro tonale. Shipp ha un tratto più sereno, più riflessivo ma profondamente accorto a quello che il suo compagno esplica, il suo layout é ampiamente orientato verso elementi di musica contemporanea e il pianista traccia, durante la relazione con il brasiliano, architetture dinamiche ed espressive, di alto pregio. Qualche breve frammento lirico compare qua e là subito spazzato via dalle incalzanti metamorfosi che, numerose, si susseguono durante la performance. Poi il finale con l'ultima traccia totalmente affidata alla vena introspettiva di Shipp.