lunedì 3 febbraio 2014

Massive Threads

Kris Davis

Thirsty Ear


La pianista di origini canadesi Kris Davis é ormai una cittadina newyorkese perché da anni risiede in quella città, ma é anche una delle musiciste di primo piano della scena d'avanguardia di Brooklyn. Attivissima da anni ha al suo attivo numerose incisioni divise in vari ambiti e in questi giorni sta lavorando ad un progetto ambizioso con un ottetto per il quale ha scritto le musiche. Su questo progetto non so dirvi per il momento altro tranne che é stato commissionato alla Davis da parte della Shifting Foundation che non è nuova a queste sovvenzioni e che dell'ottetto fanno parte Ben Goldberg, Oscar Noriega, Andrew Bishop, Joachim Badenhorst ai fiati; Nate Radley alla chitarra, Gay Versace, organo e accordion, Jim Black alla batteria e naturalmente la stessa Davis al piano. Mentre attendo di ascoltare questo album, che sembra promettere grandi gesta, sono qui a raccontarvi di questo cd in piano solo che si colloca come la naturale continuazione ed evoluzione del precedente cd Aerol Piano inciso dalla nostra in solitudine. E’ ancora una volta, e questa volta ancor di più della precedente, una performance fortemente caratterizzato da un rapporto intimo tra la musicista e il suo pianoforte, quasi un dialogo sottovoce, che prelude e sottintende ad ogni esclamazione musicale. La Davis si avvale di qualche sovraincisione e di un pianoforte preparato ma questo aspetto è per certi versi secondario all'essenza esclusiva che viene fuori durata l'ascolto del cd. Si naviga ai confini tra scrittura improvvisazione, come ha precisato la stessa protagonista, tra una visione moderna di una concezione classica della musica e la creatività tipica del jazz d'avanguardia. Quelle accezioni avant, che avevo sottolineato quando mi trovai a recensire il suo precedente Aerol Piano per Il Giornale della Musica, qui risultano più accentuate, più spinte verso orizzonti inediti. Permane poi un grande senso del ritmo come è già evidente nell'iniziale “Ten Exorcists” ma anche di un ambient minimalista, di atmosfere rarefatte, appena spezzate, in qualche caso, da una fioca melodia come accade in “Desolation and Despair”. C’è anche un validissimo esempio di una traccia dalla struttura articolata che esordisce in sordina, si sviluppa in crescendo e si affievolisce nel finale e c’è anche una visionaria versione della “Evidence” di  Monk, unico episodio non originale. In poche parole c’è tutto quello che fa dire che questo è un grande album.


sabato 1 febbraio 2014

Bottervagl

Erb / Baker

Veto


Questa volta il sassofonista e clarinettista svizzero Christoph Erb è in duo con il pianista chicagoiano Jim Baker. I lettori di questo blog avranno imparato a conoscere Erb perché in questo ultimo mese di attività ho recensito ben due incisioni a nome del sassofonista europeo che incide a Chicago e poi pubblica i cd attraverso l’etichetta svizzera Veto-Records. Si tratta di Duope dove il nostro è in compagnia di Keefe Jackson, Fred Lonberg Holm e Tomaka Reid (leggete qui la recensione) e di Feel Beetrr (qui trovate la recensione) firmata dal Bererberg Trio che include oltre ad Erb, Josh Berman e il già citato Fred Lonberg Holm. Anche questa incisione con Baker è contraddistinta da una intensità di base che è sempre presente nell’espressività del musicista svizzero, che non risparmia energie per lanciarsi in un gioco debordante di fraseggi liberi qui contrappuntati ed evidenziati da un pianismo ricco di note in cascata, nell’ambito di un dialogo che non si interrompe in nessuna delle cinque composizioni contenute in questo cd. L’apertura come negli altri casi è fulminante, “Moty’l” è un gioco di fughe e ricorse, i due sembrano sfidarsi in un gioco improvvisativo senza tregua o pause. Il climax così nervoso però non permane per tutto l’ambito del cd perché già a partire dalla terza traccia “Kupu-Kupu” il dialogo si fa più sottile, a tratti più affievolito, con inaspettate parentesi anche lievemente liriche. Un dialogo che si trasmuta in qualcosa di più intimo e cameristico soprattutto quando Erb imbocca il clarinetto basso come in “Gwilwileth”. Anche in questo contesto lo svizzero evidenzia tutte le prerogative di musicista votato al libero incedere in una piattaforma jazzistica d’avanguardia.

Thumbscrew

Mary Halvorson, Michael Formanek & Tomas Fujiwara

Cuneiform


Se provo a ricordare quanti sono gli album in cui è stata presente nel 2013 la chitarrista Mary Halvorson cado inevitabilmente in una crisi di memoria che solito non mi è frequente. Questo perche la singolare chitarrista ha in questi anni rivelato una notevole vena prolifica in fatto di incisioni, sia in prima persona che in compartecipazione. Ed ecco che allora ripiego sul suo sito e scopro che nel 2013 la nostra è stata presente in undici album di cui tre in prima persona e ben otto come ospite. Il 2014 promette bene in tal senso, perché la Halvorson ha già attivo due realizzazioni di cui la prima Thumbscrew, fresca di stampa, è stata pubblicata appena dieci giorni fa, mentre la seconda Reverse Blue arriverà a breve. Thumbscrew è un progetto nuovo realizzato in trio con Michael Formanek al contrabbasso e Tomas Fujiwara alla batteria. Un progetto incentrato su uno stretto interplay fra i tre musicisti in costante empatia con un ambiente prettamente semiacustico, condizionato dagli sbalzi di umori della Halvorson che in qualche frangente ripropone i suoi fraseggi rockeggianti, salvo poi a ripiegare velocemente su timbriche e geometrie sottilmente bluegrass che in qualche occasione ricordano il recente Bill Frisell. Sono solo sparuti episodi perché per il resto dell’album si viaggia su dinamiche prettamente jazz, con larghi spazi per l’improvvisazione, che vedono la Halvorson non risparmiarsi in ampie sortine in cui la sua chitarra da veramente prova di essere uno strumento singolare e rivalutato, in ambient jazzistico, da questa musicista piombata improvvisamente, alcuni anni fa, sulla cena jazzistica contemporanea e subito entrata nella cerchia degli allievi del grande Braxton. Qui lei si avvale della grande esperienza e della riconosciuta maestria di Formanek, musicista fondamentale, sensibile, tecnicamente maestoso, capace di fare la differenza. Nell’ambito di questo progetto il contrabbassista si pone come cardine essenziale nella dialettica del trio, in perfetta sintonia con la ritmica percussiva di Fujiwara che anche in questo caso assolve a pieno al suo ruolo dando alla performance il giusto contributo che in questa occasione si mostra fluido e colorito proprio per dare luce alle sonorità acustiche del trio. Il tutto in nove composizioni originali scritte e pensate per questo progetto, una goduria per chi ama la sei corde della Halvorson.

mercoledì 29 gennaio 2014

Quixote

Pollock Project

Helikonia



Prende nome da Jackson Pollock, pittore tra i più rappresentativi dell’action paiting, l'ensemble autore di questo cd. Con lo stesso nome i tre componenti - ovvero Marco Testoni, caisa drum, pianoforte, percussioni; Nicola Alesini, sax soprano, live electronics; Max Di Loreto, batteria e percussioni - hanno inciso un primo cd ispirandosi all’arte del pittore americano. Il gruppo opera sul filone esclusivo dell’art-jazz, con una grande attenzione all’arte visuale, i loro concerti sono corredati di video e il loro linguaggio musicale unisce la creatività della musica afroamericana a quella di altre arti. Per questa seconda loro produzione il riferimento è l'opera Don Chisciotte della Mancia firmata dallo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes. Riferimento che si traduce, nel progetto Qiuxote, nell’essersi ispirati, in sede di composizione, a temi che riguardano problematiche sociali e rivendicazioni di diritti riferiti alla contemporaneità. Il tutto attraverso un’espressività musicale che nell’esplicare la liberta creativa del jazz incorpora elementi musicali che sconfinano nella world music e combinano umori acustici e sonorità elettroniche. Al centro del layout espressivo del gruppo, che nell’ambito del cd si è avvalso della collaborazione di Cecilia Silveri al violino e Federico Mosconi alle chitarre, c’è uno strumento straordinariamente affascinante come il caisa drum di cui si prende cura Testoni, un segno distintivo non indifferente ma determinante attraverso il quale il gruppo conia una propria, singolare e ben definità identità. “Gulabi Gang”, prima traccia del cd irrompe con un ritmo pulsante e il vociare tipico della banda rosa, traduzione letterale del titolo del brano, ovvero gruppi di ragazze che negli stati più poveri dell'India lottano per i propri diritti e per la propria libertà. La title track, che segue, disegna una delicata armonia, introdotta dal pianoforte di Testoni, subito intercettata dal sax di Alesini e dal violino della Silveri. Tratti struggenti si susseguono con grande intensità prima di lasciar posto ad un'esclusiva versione della coltraniana “After The Rain” densa di spiritualità con un Alesini stratosferico che adagia i suoi fraseggi sull'interazione tra caisa drum e percussioni con Di Loreto che cesella con puntigliosa discrezione ogni frammento temporale mentre un loop elettronico, in sottofondo, percorre l'intera durata del brano. E poi il minimalismo sussurrato con grazia armonica e in forma ballad in “Julio et Carol” introdotta dalla voce dello scrittore argentino Julio Cortazar; la ripresa di un brano di Sun Ra “Angels and Demons at Play” che insieme al brano di Coltrane sono le sole non originali e le uniche non firmate dal binomio Testoni-Alesini. Ma il cd riserva ancora splendidi momenti, peraltro sempre più apprezzabili man mano che si ripetono gli ascolti. E' il caso della ripresa in “The Blackout” del tema originale della colonna sonora dell’omonimo film, di cui è autore lo stesso Testoni o dell'inaspettata citazione riservata alla tradizione musicale sarda con “Su Ballittu” prima della traccia di chiusura “L'isola” dal ritmo ostinato e dal groove marcatamente world, registrata dal vivo durante l'edizione 2011 del Parma Jazz Frontiere. Questi solo alcuni degli episodi più interessanti di una produzione di grande rilievo nell'ambito del jazz e della musica contemporanea italiana che merita attenzione e che va ascoltata anche per i profondi contenuti culturali e artistici che dimostrano come l'arte in genere e nella fattispecie quella musicale, si esprima al meglio se legata profondamente  alla realtà. Ampio merito va quindi riconosciuto ad Alesini, Testoni e Di Loreto per questa splendida produzione.


martedì 21 gennaio 2014

Chorale

Kirk Knuffke

SteepleChase


Tra i più autorevoli trombettisti e cornettisti, che affollano il panorama contemporaneo del jazz, troviamo Kirk Knuffke che ha già al suo attivo realizzazioni a nome proprio in cui si è proposto con composizioni originali ed altre dove invece ha operato  nell’approfondimento e nella ripresa dell’opera di musicisti come Steve Lacy, Lester Young, Thelonious Monk, Duke Ellington e Charles Mingus. Con questa sua recentissima produzione ritorna alle composizioni originali, in tutto nove e tutte a sua firma, nell’ambito di un quartetto che lo vede insieme a Russ Lossing al piano, Billy Hart alla batteria e Michael Formanek al contrabbasso. Quello che sgorga fuori dai diffusori, del mio impianto d’ascolto, è una sorta di free bob che attraverso un tweet scritto tempo fa, al primo approccio con l’album, osai definire nebuloso e godibile. Questo perché il lavoro si  muove su due sfaccettature espressive magnificamente aderenti l’una all’altra, alternando atmosfere fumose, pervasi da umori malinconici a fluide dinamiche dialoganti, in cui la componente ritmica è viva e pulsante. Si evidenzia particolarmente, in quest’ultimo contesto, la classe infinita e la fantasia incontenibile di un maestro della batteria quale è Bill Hart, che comunque dispensa brio e raffinatezza anche all’interno di quelle composizioni dalla struttura, tipicamente ballad di cui scrivevo prima. Hart sa dare vitalità in ogni contesto, è noto, ma l’intera produzione presenta anche altri aspetti interessanti legati ai singoli musicisti che ne sono protagonisti. A partire naturalmente dal leader che si propone attraverso una loquacità espressiva decisamente bop per continuare con Formarek, caposaldo imprescindibile anche per Hart, del quale ho già detto, e non trascurando l’apporto fondamentale, attinente e stilisticamente ineccepibile di Russ Lossing al pianoforte. Kirk Knuffke e compagni suggellano, nel complesso, un’opera tutta da conoscere e apprezzare, in equilibrio fra scrittura e improvvisazione.

domenica 19 gennaio 2014

Golden State

Harris Eisenstadt

Songlines


Altra incisione, altro ensemble e altra etichetta discografica, la Songlines, per il batterista canadese Harris Eisenstadt. Ho già scritto in una precedente occasione della sua ormai consolidata residenza newyorkese e della sua prolifica attività di musicista su vari fronti, l’ultimo e più recente dei quali è questo che lo fede impegnato accanto a Mark Dresser, contrabbasso; Nicole Mitchell, flauto; Sara Schoenbeck, fagotto. Quartetto singolare soprattutto per quanto riguarda l’impiego di quest’ultimo strumento a fiato che comunque non è nuovo a questi ambiti perche anche l’illustre Anthony Braxton ne ha fatto uso in alcuni contesti. Eisenstadt ha insegnato nel 2012 presso il rinomato Calarts, un istituto d’arte che ha sede a Valencia, una località della contea di Los Angeles e il nome di questo cd ha preso ispirazione proprio da quella che è stata la sua residenza californiana nel periodo contrassegnato da questa sua esperienza. Golden State è un album che realizza un riuscito connubio tra un layout moderno di musica da camera e un jazz che lascia ampi spazi all’improvvisazione. Eisenstadt orchestra al meglio con il suo piroettante percussionismo la performance del quartetto che abbina dei temi prettamente cameristici ad una interazione jazzistica che prende corpo e si espande, tra i varchi aperti, che la struttura delle composizioni, tutte originali e tutte firmate dal leader, ha al suo interno. In questo contesto trova ampio sviluppo l’esercizio improvvisativo del quartetto, al quale non si sottrae nemmeno la  Schoenbeck e nell’ambito del quale si trovano a loro agio, ancor meglio, la Mitchell che sciorina al flauto una consistente pregiata dose di entusiasmanti fraseggi, l’estroso e variegato contrabbassismo di Dresser, che spesso impugna l’archetto legittimando ancora di più la felice intuizione di Eisenstadt nel concepire questo lavoro e dulcis in fundo il già citato contributo del leader che da brio, sostanza e completezza alla performance. 

domenica 12 gennaio 2014

Feel Beetrr

Bererberg Trio

Veto Records



Ecco un trio inedito protagonista di  un’ incisione targata Veto Records, rigorosamente registrata a Chicago,   in cui ritroviamo coinvolto il clarinettista e sassofonista svizzero Christoph Erb con Josh Berman alla cornetta e Fred Lonberg-Holm che alterna la chitarra elettrica al violoncello. Una sfida ai suoni standardizzati alle timbriche convenzionali e ad un uso tradizionale dello strumento. Si parte da qui, da questi elementi, per descrivere le metodologie espressive di questo singolare connubio tra un musicista europeo e due esponenti dell’avanguardia chicagoiana. Un intreccio fitto fra tre musicisti che si esprimono imperterriti su percorsi apparentemente aridi, prosciugati da ogni sfaccettatura estetica, assolutamente votati alla ricerca di un’interazione sonora e dinamica ai limiti. Un’interminabile ragnatela di forme scomposte  e ricoposte in un ambient cameristico d’avanguardia che rilascia un tappeto sonoro ribollente, in cui non è difficile isolare i sinuosi  fraseggi di un free bop estremo, di cui si fa carico Berman, le incursioni stridenti dei fiati di Erb e le ostinate gesta di Lonberg-Holm al violoncello, alternate agli umori graffianti della sua sei corde elettrica. Il trio proietta in tal modo la sua arte verso orizzonti futuri attraverso un’esplorazione, libera da ogni condizionamento, di forme innovative, regalandoci un’anteprima di quelle che potranno essere le geometrie espressive di un  possibile avant jazz. 

sabato 11 gennaio 2014

Echo Echo Mirror House

Anthony Braxton

Victo


Il sassofonista Anthony Braxton ha scritto e continua a scrivere pagine memorabili della storia del jazz ma suscita spesso impressioni discordanti, è accaduto in passato e allo stesso modo accade oggi di fronte al progetto di cui vado a scrivere in questo post. Echo Echo Mirror House è una sorta di sovrapposizione tra presente e passato della produzione musicale di Braxton e del suo entourage attraverso una performance “Composition No 347 + ripresa dal vivo al 27° Festival International de Musique Actuelle de Victoriaville nel maggio 2011 che lo vede in set-tetto insieme a Taylor Ho Bynum alla cornetta, bagle e trombone, Mary Halvorson alla chitarra elettrica, Jessica Pavone al sax alto e violino, Jay Rozen alla tuba, Aaron Siegel alle percussioni e vibrafono e Carl Testa al contrabbasso e clarinetto basso. La composizione eseguita nell’arco di poco più di sessantadue minuti è l’essenza attuale della filosofia jazz del musicista chicagoiano ma non è tutto perché ognuno dei sette musicisti ha anche in dotazione un ipod dal quale vengono diffuse in alcuni momenti altre composizioni dello stesso Braxton che appartengono al suo passato. Ci si trova così immersi in vorticoso incedere improvvisativo in cui tutto il set-tetto è in fervente attività, un tunnel sonoro per certi versi anche opprimente, denso di tensione ma dove traspare una logica struttura pensata dalla lucida e scientifica mente del grande maestro. Per una così singolare espressività è quasi d’obbligo imbattersi in una sequenza di pareri discordanti, tra chi ritiene questa produzione ostica e astratta e chi, di contro, è affascinato  (tra questi si colloca il vostro recensore) dalla inafferrabile, illimitata e contorta creatività del sassofonista. In casi come questo poco possono fare le parole scritte e quelle declamate bisogna lasciar posto alla musica, ai suoni, all’interattività rovente e nervosa di cui pervasa l’intera registrazione che solo nel finale concede un ambiente leggermente più a misura di ascoltatore poco avvezzo al linguaggio braxtoniano. 


domenica 5 gennaio 2014

Duope

Christoph Erb / Keefe Jackson  
Fred Lonberg Holm / Tomaka Reid

Veto Records




E’ in realtà un doppio duo il quartetto che ha realizzato questo cd: due clarinettisti di cui uno, Christoph Erb di nazionalità svizzera, l’altro Keefe Jackson, chicagoiano d’adozione perché originario dell’Arkansas. Al loro fianco due violoncellisti: Fred Lonberg Holm e Tomeka Reid, entrambi residenti nella città del vento dove di fatto è stato inciso l’album, edito però dall’etichetta svizzera Veto Records. Quattro musicisti dediti all’estemporaneità, all’inventiva, alla creatività dall’alto di un bagaglio di esperienze sempre attinenti alle loro primordiali attitudini musicali. Musicisti che percorrano lande irte di trappole, dalle quali è difficile difendersi finendo nello sperimentalismo fine a se stesso che spesso tende a indisporre l’ascoltatore. Da tutto ciò i nostri sembrano avulsi perché, pur dispiegando tonalità e dinamiche improvvisative sicuramente audaci, riescono  a plasmare una performance avvincente e interessante. Per tutto l’arco delle quattro composizioni contenute nel cd si gioca su un’interazione cameristica di stampo avant, attraverso l’apporto di tonalità stridenti di cui gli archi sono i principali dispensatori mentre i due clarinetti bassi si spingono molto spesso verso sonorità graffianti. Ci si imbatte, in vari momenti, in vere e proprie ondulazioni sonore che portano in primo piano ora gli archi ora i fiati, mentre in altri episodi le due sfaccettature timbriche si intrecciano dispiegando umori variegati. In “Tubo” traccia n.2, forse non a caso, visto la denominazione della stessa, c’è una maggiore presenza di registri sonori noise, mentre l’interazione si manifesta sempre più free e freneticamente debordante. Il quartetto ricerca costantemente nuovi orizzonti espressivi, attraverso l’elaborazioni dei suoni che stanno alla base della loro dotazione strumentale, ricorrendo anche ad un approccio che esula dalla tecnica strettamente affine alla propria arte. Malgrado ciò non è difficile captare tra le fitte maglie della  loro singolare espressività aperture armoniche di alto pregio, così ben innescate in strutture di base già disarmoniche. Un album che può definirsi un caleidoscopio sonoro di inedita natura.

sabato 4 gennaio 2014

The Destructive Element

Harris Eisenstadt September Trio

Clean Feed


Dal Canada è arrivato a New York per respirare l'ambient jazz fortemente stimolante, libero e  innovativo, della metropoli statunitense, portando in dote la propria, esclusiva, vena compositiva e un variegato lessico percussivo. Sto scrivendo del batterista Harris Eisenstadt, qui con il suo September Trio che include Angelica Sanchez al pianoforte ed Ellery Eskelin al sax tenore. Otto composizioni originali fra raffinate ballate e vibranti interazioni. Le prime narrate dal tratto caldo e solido del sax tenore di Eskelin, le seconde costruite su un interplay contrappuntato che la coppia Sanchez-Einsenstadt mantiene vivido e sfaccettato. Il sassofonista esprime una vocalità intensa che dialoga con le performanti affinità jazz che la Sanchez, al pianoforte, mostra di nutrire con maturità e capacità tecniche. Eisenstadt alla batteria è un musicista sopraffino, un percussionista, dotato di un groove potente ed elegante, che non ama strafare anche quando si trova a gestire porzioni in totale solitudine. Il trio dispiega  raffinate atmosfere già a partire dall’iniziale “Swimming, the rained Out” che trovano conferma anche nella sofisticata liricità di “Back an Forth”. Tra le due ballate troviamo le forti interazioni di “Additives” che evolvono dal tema semplice che caratterizza il brano e quelle spigolose e nervose di “From Schoenberg Part One” che come il medesimo ….. “Part Two” si ispira ai contenuti del Concerto di Schoenberg per Violino e Orchestra. E ancora l’ondulata “Ordinary Weirdness” con la bella intro di Esklin e i fraseggi della Sanchez; poi le armonie dialoganti della succinta title track per arrivare a “Cascadia” dall’apertura classicheggiante, scandita dal pianoforte della Sanchez, due minuti prima di incrociare il suadente e iper-espressivo sax di Eskelin. Ebbene questo cd è una rinnovata scoperta ad ogni approccio….. non privatevene. 


giovedì 26 dicembre 2013

Refraction – Breakin’ Glass

Trio 3 + Jason Moran

Intakt



Un incontro propizio nato attraverso una frequentazione durata una settimana al Birdland di New York, durante l’estate del 2012, che ha preceduto le sessioni d’incisione in studio che hanno dato poi vita a questo cd. E’ una ricorrente pratica, quella messa in atto dal Trio 3 formato da Oliver Lake ai sax, Reggie Workman al contrabbasso, Andrew Cyrille alla batteria che ama integrare il proprio combo, di volta in volta, con un pianista diverso come è accaduto già in passato. Tre musicisti di alta levatura, con solide esperienze nell’ambito di ensemble come il World Saxophone Quartet, di cui ha fatto parte Lake, mentre Workman ha suonato a fianco di Coltrane e Cyrille è stato per vari anni il batterista di Cecil Taylor. I tre incontrano in questa occasione Jason Moran, uno dei pianisti più qualificati fra le giovani leve, ormai asceso nell’olimpo dei grandi nomi del jazz contemporaneo, anche lui con un passato ( di studi) alla corte di Jaky Byard, Andrew Hill e Muhal Richard Abrams. Quindi le premesse per un incontro stellare, così come l’ho definito in un mio recente tweet, c’erano tutte e tali si confermano all’ascolto, grazie alle prerogative già conosciute del trio e alla duttilità ritmica e armonica di Moran. Dieci brani, in tutto, che vengono dalla fertile vena compositiva di ognuno dei quattro protagonisti, per un mix di umori vari sui quali influiscono in modo determinante le già note dinamiche free del trio, spesso stemperate da un’essenza ritmica prettamente soul come accade in “Cicle III” seconda traccia, preceduta dal funk-rap dal quale prende il titolo l’album. I primi vagiti free si delineano in “Luthers Lament” e trovano piena espressività in “Summit Conference” impreziosito dai soli di Lake e Moran e dall’intervento all’archetto di Workman. Ad impressionarmi, per intensità e introspezione,  è poi “Foot Under Foot” caratterizzata da sfaccettare free, mitigate da fraseggi armonici di sax e pianoforte. Firmata da Moran, con un intro indefinito, il brano prende vita in crescendo grazie ad ampi spazi riservati all’improvvisazione e ad una esplosione ritmica finale. Un album che esibisce un interplay vibrante e partecipato  da tutti i suoi protagonisti e che sa mitigare furori free e armonie ricercate.


lunedì 23 dicembre 2013

Hammered

Ches Smith and These Arches

Clean Feed



Provate a pensare un combo jazz guidato da un giovane batterista, al momento una vera e propria rivelazione, completato da due sassofonisti di gran pregio che amano osare, uno all’alto, l’altro al tenore, una giovane chitarrista e una fisarmonicista. Non ci vuole molto ad individuare i These Arches di Ches Smith con Tim Berne, Tony Malaby, Mary Halvorson e Andrea Parkins. Una formazione stellare per una miscela esplosiva di suoni e ritmiche. Un cd che si apre con un ventaglio di sonorità di forte intensità, stridenti e frantumate che preludono ad un riff, che a sorpresa, introduce un’atmosfera gioiosa grazie all’eloquio popolaresco della fisarmonica della Parkins. Si chiama “Frisner” scritta da Smith, come tutti i brani dell’album e riferita a Frisner Augustin batterista haitiano che fu tra i suoi insegnati. Un brano che nel suo svolgersi subisce varie mutazioni, perché all’interno dei sette minuti e poco più che ne esplicano i vari ambiti si va incontro a sorprendenti sussulti ritmici e sonori. Il quintetto infatti non si risparmia e non limita escursioni ridondanti in territori come il free ed oltre il genere jazz, puntando con disinvoltura e maestria a contaminarsi con il rock. In tutto questo si apprezzano le escursioni fiatistiche della coppia Malaby-Berne, le invenzioni acute e imprevedibili della Halvorson e l’alone sottilmente world insito negli interventi della Parkins. Aspetti che si riscontrano anche nella successiva traccia, chiaramente dedicata a Phillip Wilson, batterista dell’Art Ensemble of Chicago dal 1967 al 1969, ma anche nelle tracce seguenti come l’avvolgente brano che da il titolo all’album dove convivono meravigliosamente i già citati elementi di stampo rockeggiante e si riscontrano dinamiche world all’improvviso stemperate da fredde correnti avanguardistiche. Splendido qui, come peraltro in tutti gli otto episodi dell’album, il drumming del leader, variegato, pulsante, estroso ma terribilmente efficace. Non ho ancora deciso se stilerò per voi, fra pochi giorni, una classifica delle migliori produzioni di questo 2013, ma so per certo che questa di Smith e These Arches è una di queste.