Cuneiform Records
Per nostra fortuna l’iperattività musicale di Rob Mazurek ha prodotto, almeno fino ad ora, lavori di indubbia validità, vuoi per l’eclettismo che contraddistingue il trombettista e i musicisti che di volta in volta lo affiancano, vuoi per la capacità di proporsi in contesti sicuramente originali. Questo di cui ci occupiamo oggi è un’altra ventata di frizzante musicalità che si aggiunge, a quella espressa con il magnifico Calma Gente e come quest’ultimo nasce in quella che può definirsi la seconda patria per questo trombettista ovvero il Brasile. Ed è proprio con musicisti brasiliani, i São Paulo Underground, di cui lo stesso Mazurek è componente, che è stato inciso l’album: Mauricio Takara,cavaquinho, batteria, percussioni, elettronica, voce; Guilherme Granado, tastiere, loops, samplers, percussioni, voce; Richard Ribeiro, voce, batteria. A loro vanno aggiunti: Kiko Dinucci, chitarra, voce; Jason Adasiewicz, vibrafono; John Herndon, batteria; Matthew Lux, basso. Gli ultimi tre presenti solo in alcuni brani, il loro coinvolgimento è il trait d’union con quanto viene prodotto da Mazurek a Chicago. Il cd appare percorso da una incalzante frenesia ritmica, Mazurek e l’entourage brasiliano definiscono un layout che unisce ritmo ed elettronica a cui si aggiungono riff accattivanti di immediata assimilazione. All’ascolto si materializzano echi del grande Sun Ra e si rafforza la certezza che la costante attività di ricerca del trombettista chicagoiano unita ad una vena creativa esclusiva ne fanno uno dei paladini più interessanti del nuovo jazz. Ed ecco che all’ascolto fluiscono una dopo l’altra le accattivanti armonie ritmiche di “Jagoda’s Dream” e “Carambola”; le conturbanti atmosfere di “Colibri”; le ruvide sonorità di “Pigeon”; gli schiamazzi ritmici di “Just Lovin”. C’è un ampio uso di strumenti elettronici, di vocalità filtrate. La cornetta di Mazurek è protagonista in ogni ambito, ostinata nei riff, ma sempre illuminata da una singolare identità identificativa. Nel finale il combo decide di mettere da parte un po’ delle diavolerie elettroniche fin qui impiegate per dare spazio al vibrafono di Adasiewicz, alla batteria di Herndon e al basso elettrico di Lux ridefinendo così un sound più americano con “Six Six Eight” e ribadendo che non si dorme sugli allori nemmeno nell’ambito dei trentotto minuti e più di Trés Cabeças Loucuras.