mercoledì 9 novembre 2011

Planetary Unknown

David S.Ware
Cooper-Moore
William Parker
Muhammad Ali

Aum Fidelity
E’ urgenza espressiva dirompente quella che il sassofonista David S.Ware esprime dai solchi di questo recente cd  dove è affiancato da Cooper-Moore, pianoforte, William Parker, contrabbasso, Muhammed Ali, batteria. Musicista prolifico costantemente impegnato ad interpretare e tradurre in musica ogni stimolo ispirativo indotto dalla sua creatività, S.Ware, è una figura quasi sacerdotale nell’ambito del free-jazz di cui è uno degli esponenti più rappresentativi. I tre musicisti che condividono con lui questa esperienza supportano e dialogano alla pari con il sassofonista: il pianoforte di Cooper-Moore contrappunta con altrettanta frenesia e fluorescenza le scorribande dei sax, William Parker è anche qui l’instancabile motore propulsivo della ritmica che conosciamo, mentre Ali dà corpo e profondità alla performance. Così “Passage Wudang”, traccia iniziale di questo cd, poco meno di 22 minuti di frenesia dialettica che non lascia vuoti di sorta nemmeno quando si assottiglia in un dialogo tra pianoforte e sezione ritmica. Poi il sassofonista torna a tracciare i tortuosi sentieri del suo free, con un incedere segnato da improvvise accelerazioni e puntamenti. Il finale del brano ha però una porzione riflessiva i cui toni si placano in un gioco lirico che coinvolge l’intero quartetto. Dopo i quasi 15 minuti di “Shift” e “Duality is one”, in piena e riconquistata bramosia free, arriva la trilogia: “Divination” / “Crystal Palace” / “Divination Unfathomable”, tre brani intrisi di una spiritualità gridata, con l'ampia vocalità dei suo sax, in piena devozione mistica. L’impeto e la passione di S.Ware riempiono ogni passaggio, il timbro è straordinariamente soul e viscerale, il quartetto sembra vivere momenti di profonda introspezione e anche in questi brani si fa strada un’aspetto sottilmente lirico del linguaggio autenticamente free che ha sempre contraddistinto il jazz di S.Ware. La traccia finale “Ancestry Supramental” ristabilisce il clima terreno e irruente della parte iniziale   e invita a ripremere il tasto play per un ulteriore ascolto e per una nuova esplorazione del Planetary Unknown  di David S.Ware e soci.


martedì 1 novembre 2011

Heart’s Reflections

Wadada Leo Smith’s Organic

Cuneiform
E’ un’opera complessa e densa di contenuti questo recente doppio cd del trombettista Wadada Leo Smith e del suo ensemble Organic. E lo è per gli elementi ispirativi,  per le strutture portanti dei brani , per il fitto intreccio sonoro  nonché per la configurazione dell’ensemble  che consta di ben 14 elementi, con lo stesso leader, e che comprende:  Casey Anderson e Casey Butler rispettivamente alto e tenor sax; Stephanie Smith: violin; Angelica Sanchez: piano ed  electric piano; Michael Gregory,   Brandon Ross, Lamar Smith e Josh Gerowitz: chitarre; Skuli Sverisson: basso e 6-string bass; John Lindberg: contrabbasso; Pheeroan Ak Laff: drums; Mark Trayle  e Charlie Burgin: laptop. Complesso è anche il personaggio e il musicista Wadada Leo Smith con il suo profondo misticismo affiancato ad  un’essenza jazz contemporanea a volte ruvida ma sempre vibrante. Già membro dell’AACM di Chicago, il trombettista, ha fatto parte, con Braxton e Leroy Jenkins, dei Creative Construction Company, gruppo tra i più avanzati espressi dall’associazione.   Profondo sostenitore della filosofia elettrica di Miles Davis e del suo linguaggio contaminato e contaminante che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del jazz e che ancora oggi è oggetto di diatriba tra gli appassionati.  La sua espressività qui si spinge  oltre e si imbeve  di sonorità ancora più abrasive rispetto a Davis, si arricchisce di feedback rock-blues, si fregia dei contributi  di due laptop, si presenta costellata di  episodi  funky e non si fa mancare atmosfere introspettive. Cinque i brani complessivamente contenuti nei due cd, di notevole durata e in taluni casi frastagliati in vari episodi sempre riferiti a personaggi di vari ambiti:  dal trombettista Don Cherry ad un maestro sufi,  dalla scrittrice Tony Morrison al compianto violinista e fraterno amico Leroy Jenkins. Umori dell’anima e passioni della vita di un trombettista d’avanguardia.





mercoledì 19 ottobre 2011

The Veil

Berne Black & Cline

Cryptogrammophone
E’ nell’est village di New York che ha sede “The Stone”  voluto da John Zorn per accogliere le anime libere del jazz newyorkese e i fermenti della Downtown. Ed è allo “Stone” che il 30 luglio del 2009 si sono incontrati il chitarrista Nels Cline, il sassofonista Tim Berne e il batterista Jim Black. Nella loro dotazione strumentale di quella sera c’è anche un laptop affidato alle attenzioni di Jim Black nonché gli armamentari elettronici utili all’elettrica di Cline. La performance è vibrante e giocata su toni rock e timbri elettrici come d’altronde la cifra stilistica, già ampiamente nota del chitarrista,  lascia immaginare. Il connubio con Berne è ben riuscito perché il sassofonista riesce ad interagire e confrontarsi con Cline mostrando adeguata  attitudine verso i ritmi fulminanti imposti dallo stesso. Anche per Black il percorso non presenta affanni di sorta perché il batterista arricchisce il suo drumming  di una scoppiettante fluorescenza. La registrazione scivola  dirompente attraverso le nove tracce, distinte solo nell’elenco riportato all’interno della copertina del cd, mentre si susseguono in assoluta continuità all’ascolto. La distinzione mi torna utile per definire con precisione alcune porzioni che si differenziano dall’incedere primordiale della registrazione. E’ il caso di “Momento” che individua una esecuzione dal clima rarefatto dove prevalgono sonorità elettroniche di enfasi contemporanea  con varie sfumature abrasive. E poi “The Barbarella Syndrome” che esplica una dialettica jazz attraverso un’iniziale interazione chitarra elettrica-batteria, ai quali si unisce più avanti il sax, in un intreccio frenetico e labirintico che sembra non avere fine. “The Dawn of The Lawn”, traccia n.5, ha ritmi pulsanti e strali ipnotici mentre le conclusive “Tiny Moment” I e II evidenziano rispettivamente, i fraseggi in crescendo di Berne contrappuntati dal multiforme chitarrismo di Cline e l’ambient imbevuto di effettismo elettronico di cui è opportuno propositore Black al laptop. The Veil nei fatti è un’incursione intensa tra suoni e ritmi mutuati in parte dal rock ma interpretati e reinventati attraverso una metodologia  jazz totalmente free. 

sabato 8 ottobre 2011

The Mancy of Sound

Steve Coleman and Five Elements

PI Recordings
Il sassofonista Steve Coleman appare sempre più concentrato sui dettami della filosofia Yoruba, propria di un popolo originario dell’Africa occidentale, il cui culto sembra proficuamente ispirare il musicista co-fondatore del collettivo M-Base, laboratorio di idee e formulario di innovazioni che ha  avuto nel tempo interpreti come  Greg Osby, Graham Haynes, George Lewis, Geri Allen, Vijay Iyer, Muhal Richard Abrams, Cassandra Wilson ed altri. Dopo il precedente Harvesting Semblances and Affinities Coleman sembra aver ripreso i suoi regolari ritmi di musicista e il tempo trascorso, all’incirca un anno, tra la pubblicazione appena citata e questo cd di cui mi sto occupando in questa recensione, è la prova più inconfutabile della ritrovata vena creativa del nostro. The Mancy of Sound è focalizzato sulle entità divine della religione Yoruba, a cui vengono associati  elementi naturali come acqua, fuoco, terra e aria. Ci sono poi riferimenti alle fasi lunari ed il tutto è traslato nel linguaggio jazzistico del sassofonista che ha nel ritmo  la sua linfa primordiale.  Il combo propone un front-line di fiati a tre voci che include oltre al leader Jonathan Finlayson alla tromba e Tim Albright al trombone, il contrabbassista Thomas Morgan, Tyshawn Sorey e Marcus Gilmore alla due batterie, Ramòn Garcia Pérez alle percussioni e la splendida vocalità della già apprezzata interprete Jen Shyu. Quest’ultima, come nella precedente produzione, è alle prese con il suo esclusivo wordless e non solo, perché in due episodi sono i testi della poetessa Patricia Magalhaes ad impegnarla. Il suo canto si affianca  ai fiati in un gioco di simbiosi, sorprendente per assonanza ritmica e temporale,  e il tutto è scandito  nella maggior parte dei brani da  una ritmica incalzante dalle cui pulsazioni si levano a turno gli interventi solistici improvvisati dei fiati. Il credo ritmico, dell’idea  colemaniana di jazz  mette in secondo piano la frase tematica  e dà risalto sempre più vistoso ad un alone latineggiante qui sempre più marcato grazie alla presenza delle due batterie e delle percussioni di Perez.  Due gli episodi che si rivelano disgiunti dall’architettura appena descritta e sono: “Formation I e II” esclusivamente per fiati e voce dove la simbiosi sopra descritta si realizza in tutta la sua pienezza unita ad un gioco di contrappunti e affiliazioni tra le  parti che è veramente uno dei momenti di più alto livello di una produzione superlativa che ci restituisce un Coleman nel pieno della sua ispirazione.
Assolutamente indispensabile! 

 

giovedì 29 settembre 2011

Envoi

Bill Dixon

Victo Records
Dopo aver postato la recensione di un’importante ristampa per la storia del jazz di tutti i tempi, quale ritengo sia Intents and Porpose, opera prima  del compianto grande trombettista Bill Dixon,   mi ritrovo ora a metter su, con un’inevitabile punta di tristezza la recensione dell’ultimo suo atto musicale: la registrazione del concerto tenuto da  Dixon il 22 maggio 2010, poco meno di un mese prima della sua morte, in occasione del 26° Festival International de Musique Actuelle di Victoriaville in Canada. Dixon è infatti scomparso il 16 giugno del 2010 dopo pochi mesi dall’uscita del suo riuscitissimo e intenso Tapestries for Small Orchestra di cui potete leggere qui la mia recensione pubblicata sul numero 269 de il Giornale della Musica. In Envoi  ritroviamo lo stesso gruppo di musicisti protagonisti del precedente Tapestry….. formato da Stephen Haynes, Taylor Ho Bynum, Rob Mazurek e Graham Haynes ai fiati; Glynis Loman violoncello; Michel Côté e Ken Filiano contrabbassi e Warren Smith vibrafono, batteria e percussioni. Due i brani in esso contenuti in forma di suite, che prendono il nome dal titolo del cd distinti come sezione 1 e 2 entrambi dalla durata intorno ai venticinque minuti seguiti da un breve epilogo finale, parlato, in cui Dixon ringrazia il pubblico. Il trombettista anche in questa occasione esibisce la sua inconfondibile cifra stilistica, il suo linguaggio che frantuma ogni schema precostituito, sia come tipologia che come struttura. Anche qui i timbri sonori sono gravi o lancinanti, le melodie brevi e frastagliate, i contrasti intensi e gli umori dirompenti o minimali. Siamo sempre più di fronte ad una concezione totale della musica, ad una distribuzione paritaria dei ruoli di ogni componente il gruppo, indipendentemente dallo strumento che ne traduce il lessico. Anche questa opera di Dixon somiglia ad un affresco pittorico dalle mille sfumature e dai contorni indefiniti con un elemento in più che si identifica nella dinamica cangiante ed invasiva, emotivamente parlando, verso chi ascolta. Indescrivibile comunque tutto il campionario espressivo di questo straordinario combo che esibisce una sezione di fiati imbevuta di estro e a secco di remore, un percussionista di enormi risorse, quale Smith da sempre è, un violoncello, quello della Loman che si fa puntiglioso e desideroso di protagonismo a fianco del contrabbasso entusiasmante di Filiano. Cos’altro aggiungere se non l’imprescindibile necessità di possedere quest’opera che chiude la preziosa serie di grandi opere di un artista certamente irripetibile nella storia della musica contemporanea.

 Giuseppe Mavilla

domenica 25 settembre 2011

Stars Have Shapes

Exploding Star Orchestra

Delmark Records
Una dedica speciale a due grandi del jazz come Bill Dixon e Fred Anderson, entrambi scomparsi nel giugno del 2010, accompagna questo cd della Exploding Star Orchestra che da tempo ridisegna gli ambiti tradizionali in cui di solito si esprimono gli ensemble allargati. Un orchestra già al fianco dello stesso Dixon che oggi ha in quel Rob Mazurek di CalmaGente, qui recensito qualche settimana fa, il suo leader maximo, nonché conduttore e compositore. Un musicista ispirato e innovativo come ormai dimostra di essere in ognuno dei contesti in cui è presente: dal Chicago Undergrond Duo al trio Starlicker senza dimenticare il quintetto di Sound is. Questo lavoro con l’Exploding Star Orchestra, tra le cui fila ritroviamo tra gli altri i più noti: Nicole Mitchell, Matt Bauder, Greg Ward, Jason Adasiewicz e il Mike Reed di Empathetic Parts già recensito in questo blog, si apre con il brano “Ascension Gost Impression” ed è introdotto da un breve fischio umano al quale si uniscono in rapida sequenza le note di un pianoforte, quelle di un vibrafono, i fraseggi liberi dei fiati e i contrappunti della sezione ritmica fino al formarsi di un intenso flusso sonoro in cui si fa spazio in maniera sempre più soffocante una sorta di rumore urbano. Poi di colpo, come chiudendo una porta che divide da un ipotetico luogo esterno, il rumore cessa e prende forma una splendida e armoniosa melodia. E’ una parentesi relativamente breve perché da lì a poco il fragore riprende alternando pause di fredda interazione in assoluta discontinuità formale. La successiva “Chromo Rocker” ricompone un quadro più omogeneo e mette in mostra un quid nervoso che pervade l’Orchestra sia dal lato ritmico che da quello armonico. “Three Blocks of Light”, terza delle quattro tracce presenti, è un campionario di suoni esotici umani ed elettronici intriso di un’ipnosi latente che avvolge l’ascoltatore: guizzi improvvisi, ora dell’uno ora dell’altro, tra brevi dialoghi spigolosi, in una atmosfera di trascendenza dalle logiche di interplay tradizionale. “Impression” in chiusura ci riporta alla realtà perché giocata su toni più comuni in cui comunque l’impronta tipica di Mazurek e soci è più che avvertibile. Un cd che sintetizza un accostamento riuscito e del tutto inedito tra acustica ed elettronica, e che aggiunge nuova linfa al futuro del jazz.

 

martedì 20 settembre 2011

Empathetic Parts

Mike Reed’s Loosy Assembly
482 Music
Il batterista e compositore Mike Reed, trentaseienne,  è uno degli attuali esponenti della scena d’avanguardia di Chicago nonché  membro dell’ AACM (Association for Advancement of Creative Musicians) di cui è stato nominato vicepresidente nel 2009. Componente della Exploding Star Orchestra ha realizzato lavori di rilievo con il quartetto “People, Places & Things” rielaborando il jazz in auge a Chicago nella seconda metà degli anni ’50 e realizzando in questo contesto ben tre cd: Proliferation,  About us e Stories and Negotiations. Questo  Empathetic Parts  invece è frutto della registrazione live di un  concerto tenuto nel novembre 2009 al Hideout di Chicago in occasione dell'  Umbrella 2009 Music Festival di Chicago. Accanto a  Reed  c’è  questa volta la Loosy Assembly: Greg Ward, sax alto, Tomeka Reid, violoncello, Jason Adasiewicz, vibrafono, Joshua Abrams, contrabasso a cui si aggiunge un ospite importante che unisce il passato e il presente dell’ AACM: Roscoe Mitchell, alto sax, soprano sax e flauto.  La lunga prima traccia, 33 minuti e quarantanove secondi, che da il titolo al cd, concepita con lucida progettualità dal batterista-leader,  consiste in un breve tema composto da Reed e affidato all’inventiva dei suoi compagni di scena. Oltre al tema il leader detta ad ognuno di loro una serie di regole da seguire nello sviluppo dell’improvvisazione soffermandosi su alcuni elementi ben precisi quali: toni prolungati, puntillismo, oscillazione, ostinati, tempi liberi e pause. Forte di questi dettami il gruppo si muove attraverso un’interazione fortemente intrisa di empatia alternando atmosfere cameristiche, con in evidenza il violoncello della Reid, ad un groove prettamente jazzistico che si materializza in tutta la sua fluida dinamicità quando a menar le danze è la sezione ritmica. Ed è qui che viene fuori la mutante contrapposizione  che caratterizza le varie fasi evolutive del brano, un intreccio continuo fra climi rarefatti e controllate tensioni che aprono improvvisi squarci intimistici per dialoghi, in trio o in duo, fra le varie anime del sestetto.  L’empatia fra le parti produce nel contempo un naturale  equilibrio partecipativo fra tutti i musicisti cosicché lo stesso Mitchell, seppure inconfondibilmente individuabile per la timbrica asciutta del suo strumento, per il suo incedere obliquo, per una certa ruvidità di toni, non va mai a caratterizzare in maniera assoluta la struttura esecutiva del brano. In chiusura Reed e soci ripropongono "I'll Be Right Here Waiting," inciso negli anni settanta dagli Air di Henry Threadgill ed è un ulteriore impinguarsi della reale constatazione di trovarsi di fronte ad una delle migliori incisioni da me ascoltate di questo 2011.




martedì 13 settembre 2011

Live at Teatro Donnafugata

ImproGressive Jazz Trio

autoproduzione
L’ImproGressive Jazz Trio è una realtà operante dal 2001 nell’ambito del jazz italiano, almeno nella sua originaria configurazione in duo. Paolo Battaglia e Maurizio Morello, membri fondatori del trio, entrambi chitarristi, hanno esplicato la loro proposta attraverso una produzione, Drops and SilenceGuitar Improvisations, che ha raccolto consensi in Italia e all’estero e con alcune loro esibizioni allargate ad alti strumentisti. In questo Live at Teatro Donnafugata, registrato lo scorso 19 novembre 2010, durante un’esibizione nell’omonimo teatro in quel luogo suggestivo quale è Ragusa Ibla, Battaglia e Morello sono coadiuvati da Enzo Di Raimondo, batterista,  che da anni si dedica all’approfondimento del suo strumento e che si porta dentro una naturale propensione a percorrere ogni tipo di esperienza musicale con la consapevolezza che, in ogni caso, tutto può tradursi in un arricchimento delle proprie capacità artistiche. Il cd è una autoproduzione inizialmente sottovalutata nel senso che un primo e veloce approccio  non evidenzia  tutto il notevole valore dell’opera. L’idea del trio così configurato si dimostra man mano che si va avanti negli ascolti  una scelta azzeccata e originale con le due chitarre posizionate ai lati opposti della scena sonora e con nella zona centrale la batteria. La registrazione  però mostra inevitabilmente tutta la sua artigianalità ma  questo non inficia, più di tanto, il suo  valore; per spiegarmi meglio voglio dire che se curata, sia in sede di ripresa che in studio, l’opera avrebbe senz’altro rivelato in misura maggiore il lavoro del trio. Il dialogo fra le due chitarre è pregevole e si gioca secondo una chiara filosofia jazz  fatta di rimandi e contrappunti in un sottile esercizio di interazione arricchito da sonorità accattivanti che riecheggiano J.J Cale e i Dire Street di Mark Knopler. Melodie e fraseggi ritmici dettate da Battaglia e Morello sui quali si inserisce con costante discrezione il percussionismo di Di Raimondo che, abilmente, non va mai oltre le righe evitando così di spezzare una gradevole atmosfera elettro-acustica intrisa di raffinatezza. I brani, tutti originali a parte la ripresa di “Three of a perfect pair” dei King Crimson, nascono dalla vena compositiva del binomio Battaglia-Morello, che rivelano nel contempo anche le loro doti di strumentisti, e sono caratterizzati da una  struttura ben definita con le porzioni improvvisative  inserite accuratamente  nell’ambito del naturale divenire esecutivo. Qua e là si avverte qualche debito di originalità, sicuramente facile da contrarre quando si è alle prese con un’esibizione live, ma questo trio ha tutte le carte in regola per sviluppare in un imminente futuro una proposta degna di attenzione.



 


lunedì 5 settembre 2011

Ghosts

Peter Evans Quintet

More is More Records
Ancora un trombettista in evidenza: Peter Evans, con un album  Ghosts di intensa musicalità e indovinata propensione a cercare spunto nel passato per abbozzare un linguaggio, senza costrizioni o limiti, libero di spaziare in un inedito presente. La sua biografia rende nota la sua frequentazione, fin dal 2003, della comunità musicale newyorkese, i suoi studi all’Oberlin Conservatory, la sua capacità di misurarsi in diversi ambiti musicali, dall’ironico progetto con i Mostly Other People Do the Killing al duo con Nate Wooley, e ancora il trio con Mary Harvolson e Weasel Walter, il cui ElectricFruit è stato qui recensito, per finire con la sua partecipazione al progetto Electro-Acoustic Ensemble di Evan Parker e questo solo per citarne alcuni. In  Ghosts, prima uscita per la sua neonata etichetta, Evans è in quintetto coadiuvato da Carlos Homs al piano, Tom Blancarte al piano, Jim Black alla batteria e Sam Pluta, live processing. Il lavoro, commissionato in parte dalla  SWR for the Donaueschinger Musiktage 2010 di Baden Baden (Germania), include sette tracce e si apre con “One to Ninety Two” una frenetica incursione tra gli stilemi, non proprio celati, di un post-bop di maniera che però si arricchisce di una carica esecutiva non proprio ricorrente e di intrecci elettronici e temporali che ne smontano i tratti consolidati. Qui Evans estrapola la melodia di un classico di Mel Torme e prova ad operarne, con notevoli risultati, una decostruzione. Il brano si sviluppa su diverse latitudini anche grazie all’impiego dell’elettronica che raddoppia lo strumento del leader su vari registri. La successiva “323” è giocata su due note in ritmo ostinato  con variazioni di tonalità e in atmosfera decisamente free. E’ il preludio alla sofisticata e ariosa ballad che da il titolo al cd il cui tema  questa volta è estrapolato da un noto brano di Victor Young “I Don’t Stand a Gost Whit You”. Il resto del cd propone le fluorescenze di “The  Big Chrunch”, le sciorinate sordinate di “Chorales”, i ritmi e le interazioni d’avanguardia ispirate dal grande Woody Shaw e dalle sue composizioni  in “Articulation” e la spumeggiante rielaborazione di una classica pop song la “Stardust” di  Hoagy Carmichael datata 1927. 


 





martedì 30 agosto 2011

(Put Your) Hands Together

Nate Wooley Quintet

 Clean Feed Records
Il trombettista Nate Wooley stempera i suoi bollori di stampo downtown ripiegando su un post bop di esclusiva eleganza e raffinatezza in questo cd ispirato alle donne che hanno in qualche modo condizionato la sua vita. Inciso per la portoghese Clean Feed in compagnia di Josh Sinton, clarinetto basso, Matt Moran, vibrafono, Eivind Opsvik, contrabbasso e Harris Eisenstadt, batteria. L’ascolto ci restituisce un jazz moderno dove convive un’estetica cool e dove il leader, spalleggiato da Sinton, non rinuncia comunque a piazzare i suoi strali d’avanguardia esplicati attraverso una sorta di sconfinamenti timbrici su tonalità aspre e graffianti a conferma che Wooley non nutre alcun ripensamento relativamente alle sue precedenti esperienze. I dieci brani evidenziano una struttura ben definita e in molti casi pregevolmente articolata e ricercata. L’elemento vincente per l’intera produzione è l’anello di giunzione tra passato e presente delineato con opportuno equilibrio. I fiati di Wooley e Sinton, tromba e clarinetto basso, sembrano danzare, con sottile eleganza, sul front-line mentre la sezione ritmica rende fluide le dinamiche e il vibrafono di Moran ingentilisce il suono arricchendo l’espressività del combo. Ma chi sono queste donne così importanti nella vita di Wooley? Il trombettista sembra abbia rivelato in una recente intervista che si tratta della moglie, della mamma, della nonna e delle zie aggiungendo che hanno elevato la sua vita. Questi i soggetti ispiratori di buona parte delle dieci tracce contenute nel cd titolate con nomi di donne: “Shanda Lea” su tutte, proposta in apertura e in chiusura per sola tromba e tromba con sordina e nella parte centrale con tutto il gruppo, scandita da un eccellente e improvvisato dialogo tra i due fiati. E ancora la snella, anche se di ampia durata, poco più di nove minuti, nonché sofisticata, “Cecelia” introdotta dal fraseggio iniziale di tromba e clarinetto, poi dilatata per qualche minuto dalla ritmica della band con in primo piano il vibrafono di Moran. A seguire l’intima “Pearl” con Moran in primo piano, quasi una ninna nanna in chiave jazz, la boppistica “Elsa”  e la danzante “Hazel”. Godibile! 




mercoledì 24 agosto 2011

Calma Gente

Rob Mazurek

 Submarine Records
Esotico, fresco, avvolgente, struggente, fluido, etereo… queste le prime definizioni che mi vengono in mente così di botto appena provo a mettere su la recensione di questo cd dalla sobria copertina, che diffonde un qualcosa di unico, di naturale, insomma qualcosa che ben presto affascina fin dal primo ascolto. Un’intensa cascata di suoni e ritmi concepita dal trombettista Rob Mazurek, ritratto in copertina con spessi occhiali da sole, uno degli esponenti della Explonding Star Orchestra, ensemble vicino al compianto Bill Dixon. Uno dei musicisti americani più impegnati nella ricerca di un jazz moderno originale e innovativo. Questa sua recente realizzazione nasce in Brasile dove Mazurek possiede una residenza e costituisce una sorta di diversivo alle ricercate e avanguardistiche produzioni con l’Orchestra. Una mistura dove comunque trovano spazio i frutti di questa sua ricerca, una miriade di elementi che vanno dall’avanguardia all’etnico. Un viaggio attraverso le nove composizioni  come in una ipotetica giungla tecnologica dove si intersecano e convivono sonorità elettroniche ed acustiche. Artefici di questo lavoro sono anche alcuni dei componenti l’Explonding Star Orchestra: Jason Adasiewicz, vibrafono, Nicole Mitchell, alto flauto, Matt Bauder, clarinetto basso, Josh Abrams, basso, Mike Reed, percussioni. A loro si sono uniti altri musicisti brasiliani come Kiko Dinucci, chitarrista e songwriter.
Emozioni a iosa durante l’ascolto che già raggiunge livelli coinvolgenti con la lunga e ipnotica “The Passion of Yang Kwei-Fe”, un pout-pourri di musica ambient intrisa di ritmi variopinti, di una suadente melodia di cui è artefice la tromba di Mazurek contrappuntata al flauto da Nicole Mitchell.
Tre solchi più avanti troviamo la delicata e triste “Flow My Tears and Last Forever” una ballata in duo, chitarra acustica e tromba, di straordinaria bellezza. In chiusura “Flamingos Dancing On The Rings of Saturn” titolo che disegna un’ immaginaria visione di una danza sospesa nello spazio che il lungo solo di Adasiewicz,  al vibrafono, rende palpabile. Questi gli episodi più significativi di un cd impossibile da etichettare così denso di essenza musicale da lasciare stupefatti e che non evidenzia cadute di tono in nessuna delle nove tracce in esso contenute. Un cd pensato solo per il mercato discografico brasiliano e per quello giapponese e quindi apparentemente non di facile reperibilità. Tutto può essere risolto con un pizzico di pazienza perché potete acquistarlo andando sul sito della Submarine Records e da lì riceverete le opportune istruzioni per la relativa procedura d’acquisto. Ne vale la pena. Un must!


Rob Mazurek / Calma Gente 2010.09.15 on Sale by catunerecords

 

lunedì 22 agosto 2011

(Town Hall) 1972

Anthony Braxton
Trio & Quintet

 Hatology
Dopo essermi occupato della ristampa del prezioso “Intets and Purposes” di Bill Dixon rimango in tema di riedizioni con un altro album importante firmato questa volta dal grande Anthony Braxton, un album registrato nel 1972 e inizialmente pubblicato in Giappone in formato LP dalla Trio Pa Records. L’album fu poi  proposto in Eurora in prima edizione nel 1992 dalla Hat Art e riproposto in ristampa, dopo un remix nel 2010, dalla svizzera Hatology agli inizi di quest’anno. Una delle tante perle della discografia del sassofonista di Chicago registrato dal vivo in un locale storico per il jazz di tutti i tempi: il Town Hall di New York. Una session del 22 maggio del 1972  divisa a metà tra due formazioni diverse un trio e un quintetto per un totale di quattro brani. Nella prima parte è protagonista il trio e accanto a Braxton troviamo il contrabbasista Dave Holland e il batterista Philip Wilson. L’apertura è contraddistinta da una certa frenesia ritmica, alimentata con nerbo e inarrestabile continuità dalla coppia Holland-Wilson. Su cotanto brusio ritmico Braxton si lancia dirompente e determinato con un ampio campionario lessicale che inonda la struttura primaria (n) della “Composition 6”. E’ incontenibile il sax-man di Chicago e torna spesso sulla frase del tema per poi riprendere le sue rincorse. La sezione (o) della “Composition 6” che in naturale divenire completa il primo brano esplica un’atmosfera meno impetuosa e dedita ad un dialogo più rarefatto e ricercato con Holland che impugna l’archetto. Il trio si congeda con una spumeggiante e originale versione della famosa “All the things you are” firmata da Jerome Kern introdotta da un solo di Wilson che precede l’inserimento di Holland e dello stesso Braxton che sembra aggredire la melodia base del brano prima di accennarne le frasi principali del tema e da lì liberare tutto il suo impeto improvvisativo. Per la seconda parte del cd è di scena il quintetto con Braxton affiancato ai fiati da John Stubblefield che si porta dietro anche un gong e delle percussioni. Holland rimane al contrabbasso mentre alla batteria siede Barry Altschul che opera anche alla marimba e a sopresa si aggiunge una vocalist di classe e di azzardo come Jeanne Lee. L’atmosfera torna a placarsi e il quintetto sembra avviato a plasmare una sintesi tra le diverse anime strumentali, un incastro pensato a dovere da Braxton in sede compositiva e magnificamente ricreato ma soprattutto arricchito grazie alla libertà dell’improvvisazione nella realtà del Town Hall. Braxton è ancora protagonista anche con il dialogo che instaura con Stubblefield e in questo ambito si inseriscono le gesta vocali della Lee: vocalizzi, scat e testi astratti che vanno a  integrarsi perfettamente nello sviluppo della performance in atto, divisa in due parti (PI e PII), della stessa “Composition 6”. In grande evidenza  il pregnante contributo di Holland, l’estro, accostato all’esclusiva attinenza, di Altschul e il variegato campionario di Stubblefield. Una riedizione che assume anche un importanza storica nella conoscenza dello sviluppo dell’opera Braxtoniana sicuramente irrinunciabile. Tra free e avanguardia.



martedì 2 agosto 2011

Intents and Purposes

The Bill Dixon Orchestra

 (RCA Victor) Dynagroove
Questa ristampa di un vinile della seconda metà degli anni sessanta è una delle operazioni culturalmente più utili per la diffusione della musica jazz. Un album tra i più importanti nella storia del jazz d’avanguardia che mancava nelle collezioni di molti appassionati che probabilmente, nell’attesa di una possibile riedizione, si saranno dimenati alla ricerca di qualche buon usato. Ora la che la ristampa è disponibile quale migliore occasione per apprezzare il musicista che né è autore, Bill Dixon, trombettista scomparso recentemente all’età di 84 anni, uno dei musicisti più innovativi nell’evoluzione della musica afroamericana. Attivo fino a pochi mesi prima della sua dipartita si è mosso attraverso una  specifica filosofia espressiva che ha travalicato il jazz andando ad arricchirsi con stilemi e strutture molto vicine alla musica classica e a quella contemporanea. In questo ambito l’elemento che ha poi caratterizzato la specificità del suo jazz è stato il fattore free tradotto attraverso il suo costante inserirsi, all’interno delle partiture, con fraseggi improvvisati dirompenti caratterizzati da toni taglienti su dinamiche e architetture per certi versi rigide e prestabilite. L’opera è caratterizzata da toni gravi e da un andamento drammatico in cui la configurazione dell’orchestra risulta determinante: con una sezione di fiati di 5 elementi, compreso lo stesso Dixon, un violoncello, due contrabbassisti, i noti Reggie Workman e Jim Garrison (peraltro affiancati nel primo brano “Metamorphosis”) e  una batteria. Nel concepimento di questo e dei rimanenti brani, tutti originali e tutti a firma dell’autore, è insita la cultura per l’arte, non solo musicale ma anche pittorica,  coltivata  da Dixon nella sua anima e nella sua mente. L’ album abbonda di trame  intense, travagliate, ricche di tensioni sonore e ritmiche, di pieni orchestrali ma anche di parentesi eteree in cui i fiati si intersecano avanzando e arretrando sul front-line, sempre e comunque in una atmosfera sospesa in un ipotetico equilibrio tra tensione ed emozione. Grande musica ancora oggi dopo oltre quarant’anni dal suo concepimento a dimostrazione della singolare levatura di compositore e musicista  di cui Dixon era dotato che ci aiuta a comprendere  l’assoluta validità di ogni opera che costella la sua ampia discografia  ma anche  l’improrogabile  opportunità, per ogni appassionato di jazz che ancora non lo abbia fatto, di scoprirne i dettagli.

Giuseppe Mavilla

domenica 24 luglio 2011

Electric Fruit

Weasel Walter  Mary Halvorson  Peter Evans

Thirsty Ear Records
Dopo il celebrato “Saturno Sings” ritroviamo l’astro femminile della chitarra jazz, Mary Halvorson, in trio con il trombettista Peter Evans e il batterista Weasel Walter. E’ un incontro che nasce e si sviluppa all’insegna del verbo improvvisare di cui i tre musicisti sono da sempre validi interpreti, musicisti che amano innovare il loro linguaggio jazz ma che soprattutto non si curano di delimitare i confini della loro espressività. La Halvorson ha ormai da tempo rivelato i suoi intenti musicalmente provocatori e la sua prolificità che la porta ad essere presente in vari progetti. I suoni della sua chitarra trasbordano con estrema facilità dal jazz al rock mutando atmosfera e travalicando da ogni contesto. Evans dal canto suo è un trombettista effervescente nel suo incedere e nel suo continuo svincolarsi da modelli di riferimento già definiti. Walter, infine, è un batterista dedito, quanto gli altri due, a percorsi intuitivi e le sue frequentazioni  con nomi, tra gli altri, quali Evan Parker, John Butcher, Marshall Allen e Henry Kaiser, sono una certezza per avventure come quella in oggetto. I frutti elettrici come gli stessi protagonisti li definiscono sono in realtà sei composizioni originali  i cui i tre si inventano ogni sorta di relazione attraverso una miriade di cambi ritmici e di atmosfere sonore. Come quando ti trovi a sfogliare un libro animato non sai mai quale scenografia ti troverai di fronte al girar della pagina, anche all’ascolto di questo cd non sai mai cosa ti troverai ad ascoltare nel successivo brano. Delicati e abrasivi, lirici e spigolosi, ironici e drammatici in un susseguirsi di pause e ammiccamenti, fughe in avanti ora dell’uno ora dell’altro: tutto e il contrario di tutto in un totale e libero abbandono impossibile da etichettare. La chiave di lettura è chiaramente il jazz nella sua forma più libera e imprevedibile ma questi tre protagonisti tracciano un percorso in continua mutazione sicuramente impossibile da descrivere in modo analitico per la vastità e la varietà degli elementi esecutivi, concettualmente avanzati, che ne costituiscono l’essenza. Un must!

lunedì 18 luglio 2011

Kaiso Stories

Other Dimensions In Music 
featuring Fay Victor

Silkhearth Records
“Kaiso Stories is free-jazz project whit classic  calypso lyrics” così Fay Victor  interprete di musica kaiso definisce, nelle esaurienti ed analitiche note di copertina, questa esperienza che la vede coinvolta come vocalist accanto agli Other Dimension, gruppo di free-jazz newyorkese, composto da Roy Campbell e Daniel Carter ai fiati, William Parker, contrabbasso e fiati  e Charle Down batteria e percussioni. Un’idea coltivata  da tempo dallo svedese Lars-Olof Gustavsson per la sua giovane etichetta discografica Silkheart. L’album realizza un’inedita fusione tra due culture musicali estremamente distinte sia come genesi che come evoluzione ma anche come tipologia interpretativa. Da una parte la musica Kaiso che nasce in Africa, subisce l’influenza  del colonialismo spagnolo ed evolve successivamente nel più noto calipso; dall’altra il free-jazz forma totalmente libera, spesso estemporanea, nell’evoluzione moderna della musica afroamericana. Una sintesi apparentemente difficile e quasi improbabile che questo cd smentisce perché grazie alla sensibilità e alle doti  interpretative di questi cinque musicisti la stessa risulta meravigliosamente godibile. Nelle otto tracce che costituiscono l’intera selezione inclusa nel cd, composta esclusivamente da brani più o meno noti del songbook calipso, si apprezza l’invidiabile integrazione della componente soul della musica Kaiso con le dinamiche libere del free: si ascolta una splendida Fay Victor che fa tesoro di esperienze altrui , vedi  Jeanne Lee, e che svolazza con i suoi contributi vocali da una parte all’altra degli ambiti in oggetto, rilevandosi duttile e performante in ogni passaggio. Campbell, Carter, Parker  e Down accolgano a braccia aperte, tra le architetture svincolate da ogni scrittura, la performance della Victor e si inventano percussioni tribali, ritmi ipnotici e inaspettati fraseggi cool quasi a voler stemperare i veementi furori free a cui sono particolarmente adepti. Scambi di ruoli e di culture a tutto beneficio di un progetto ottimamente riuscito.




venerdì 8 luglio 2011

Insomnia

Tim Berne

Clean Feed
E’ un ottetto plasmato a mò di orchestra quello che il sassofonista Tim Berne ha messo insieme in occasione della registrazione dei due lunghi brani  contenuti in questo cd. Era il giugno del 1997 e con lui c’erano Michael Formanek, contrabbasso, Jim Black, batteria, Chris Speed, clarinetto, Baikida Carroll, tromba, Dominique Pifarely, violino, Erik Friedlander, violoncello e Marc Ducret, chitarra acustica 12 corde. Le due tracce “The Proposal” e “Open, Coma” che si dilungano, ognuna, intorno ai trenta minuti, sono rimaste per quattordici lunghi anni accantonati non si sa bene dove e solo oggi sono disponibili anche questa volta grazie alla Clean Feed. Mai come in questo caso verrebbe da dire non è mai troppo tardi e per fortuna aggiungerei, perché l’opera è realmente di gran pregio e non mostra assolutamente gli anni che si porta dietro. Due composizioni concepite con lucida progettualità da Berne che ha raccolto intorno a se musicisti capaci di interpretare le mutevoli atmosfere che si rincorrono dall’inizio alla fine di ogni brano. Da una parte gli umori cameristici degli archi, dall’altra le incursioni in chiave jazz della sezione ritmica e in mezzo le architetture d’avanguardia di sax e clarinetto, il fraseggio fluido della tromba di Carroll e i colori mediterranei della 12 corde di Ducret. Nell’intersecarsi di tutti questi elementi si sviluppano le due composizioni, intense, mutevoli e intellegibili, nella vastità di sonorità e dinamiche che investono l’ascoltatore. Non mancano le pause di ritrovata serenità, i dialoghi minimali a due, i soli imbevuti di estro e magnificenza. C’è tutto ciò che serve a farne un must. 

 Giuseppe Mavilla

  

giovedì 30 giugno 2011

There Was…

Aram Shelton’s Arrive

 Cleanfeed Records
C’è qualcosa di rassicurante e confortevole che coglie al primo ascolto di quest’album del quartetto Arrive del sassofonista Aram Shelton. Accanto a quest’ultimo, all’alto, scopriamo: Jason Adasiewics, attuale vibrafonista di punta, Jason Roebke al contrabbasso e il notissimo, per via delle sue frequentazioni con Ken Vandermark,  Tim Daisy alla batteria. Il loro jazz è un  assortito mix di sonorità old fashioned  su dinamiche e interazioni strutturate in chiave moderna. Il sax  alto di Shelton dal timbro caldo e dall’incedere sinuoso e le conturbanti acrobazie armoniche del vibrafono di Adasiewics sono gli elementi primari su cui si gioca l’intera produzione che mette  ben in evidenza anche l’apporto determinante e sempre in primo piano della sezione ritmica Robke-Daisy. Il tutto è stato registrato nell’agosto del 2008 allo Shape Shoppe di Chicago, città natale di Shelton dove quest’ultimo ama spesso ritornare  e il tutto è oggi a nostra disposizione grazie al certosino lavoro di ricerca e selezione che da sempre l’etichetta portoghese Cleanfeed mette in atto. La traccia iniziale “There Was…” è all’insegna della fluidità   dopo un’intro segnata dal fraseggio lirico del sax del leader; ritmo e contrappunti, in cui si alternano i soli di sax e vibrafono e dialogo tutto ad opera del trittico Adasiewics-Robke-Daisy. Interessante parentesi improvvisativa in “Lost” traccia n.3 con coinvolti esclusivamente il duo Robke-Daisy che poi lascia spazio ad uno sviluppo in trio e in chiave ritmica con Adasiewics in primo piano per chiudersi con un trascinante solo di Shelton intriso di passionalità e feeling. Un dialogo a due, sax-batteria, risalta piacevolmente nella seguente “Fifteen” che mostra anche timidi trasbordi sonori che mutano subito dopo in atmosfere pacate e riflessive. E’ questa in definitiva la tipica struttura dei brani di Shelton che accostano fraseggi dalla sfaccettatura cool o post bop ad una tendenziale esigenza improvvisativa moderna che trova realizzazione ben congegnata e ben collocata all’interno di ogni singola composizione senza per questo inficiarne una piacevolezza armonica che non viene mai meno e che a volte predomina anche certi dialoghi a due come accade tra vibrafono e batteria nella penultima “Frosted”.

Giuseppe Mavilla 

venerdì 17 giugno 2011

Desert Ship

Satoko Fujii  Ma-Do
 
Not Two Records
Il quartetto Ma-Do è un altro dei tanti progetti che vedono impegnata la pianista Satoko Fujii. Musicista attivissima nell’ambito di un jazz fortemente influenzato da componenti d’avanguardia, la giapponese non ha mai risparmiato energia e dirompenza attraverso i suoi tumultuosi umori, dentro e fuori il pentagramma, in ogni progetto in cui è stata coinvolta. Valido e appropriato suo partner sul palcoscenico, in sala d’incisione e nella vita è il trombettista Natsuky Tamura consolidato componente del quartetto peraltro già alla sua seconda esperienza discografica. A dare manforte alla coppia troviamo:  Norikatsu Koreyasu al basso e Akira Horikoshi alla batteria, tutti coinvolti in una selezione di nove brani, esclusivamente originali e totalmente a firma di quella che è poi nei fatti leader del quartetto ovvero della Fujii. Impeto nervoso e interazione avvinghiata si susseguono alternate a qualche frangente appena riflessivo, riempito da  frasi liriche, ad appannaggio di tromba e pianoforte, che tracciano nel suo insieme una performance fortemente intensa intrisa di una libertà espressiva abbondantemente permissiva. Il tutto nell’ambito di uno schematismo preconfezionato ma indubbiamente necessario per disciplinare le inaspettate ma preventivabili bizzarrie di quattro primi attori nell’esercizio dell’improvvisazione. Un drumming percussivo fluorescente e di grande impatto si accosta ai travolgenti contrappunti  della Fujii al pianoforte mentre la tromba di Tamura sventola il suo infinito campionario di tonalità che arriva  a trasbordare in rumorose e stridenti elucubrazioni. Unico in questo suo proporsi, in un illimitato uso delle potenzialità sonore di uno strumento come la tromba, Tamura non esita a rivelarsi anche come delicato dispensatore di sottili melodie dai risvolti struggenti. Sorprendente anche il ruolo di Norikatsu Koreyasu al basso elettrico che da peso e nerbo alla sfaccettatura hard della band; da sottolineare la ricchezza inventiva della sua improvvisazione su una frase ripetuta al piano dalla leader sulla quale poi si innestano i contributi di tromba e batteria. Solo in chiusura i furori sembrano affievolirsi perché la traccia finale “Vapour Trail” sembra disegnare una sorta di quiete dopo la tempesta con il quartetto che volge verso una dimensione più ambient  sulla quale emerge il pianismo straordinariamente delicato, per certi versi intriso d’oriente e così magistralmente adoperato per l’occasione da questa grande artista del jazz contemporaneo.




venerdì 10 giugno 2011

Enesco Re-Imagined

Lucian Ban & John Hébert

Sunnyside Records
Lucian Ban, musicista contemporaneo rumeno, pianista e apprezzato jazzman anche a livello internazionale, incontra il contrabbassista John Hébert, figura tra le più preminenti dell’attuale jazz newyorkese per un progetto sull’opera del suo conterraneo, compositore e direttore d’orchestra, George Enesco. Quest’ultimo virtuoso di violino, vissuto tra il 1881 e il 1955, e da tempo oggetto di culto a Bucarest a tal punto che in quella città si svolge ogni anno un festival per ricordarlo. Dall’edizione 2009 di questo festival, nato nel 1958, ecco materializzarsi il progetto del binomio Ban-Hébert grazie alla partecipazione di un ensemble messo su dai due autori  e che comprende: Ralph Alessi: tromba, Tony Malaby: sax tenore; Mat Maneri: viola; Albrecht Maurer: violino: Gerald Cleaver: batteria; Badal Roy: tabla e percussioni. E’ una sorta di riproposizione in chiave jazz dell’opera di Enesco attraverso una certosina riscrittura di sette composizioni del musicista rumeno. Si è mantenuto il nucleo primario delle composizioni originali e si è poi proceduto ad un accurato innesto di parti libere che hanno dato modo ai vari solisti di conferire alle partiture una sfaccettatura jazz affiancata alle peculiarità etno-folk che le composizioni  già in natura presentavano. Il cd si apre con “Aria et Scherzino……..” composta nel 1909, una melodia dai contorni struggenti, che ricorda il Morricone di “Nuovo Cinema Paradiso”. E’ un ingresso in punta di piedi nell’universo compositivo di Enesco che prelude a porzioni più effervescenti che trovano l’apoteosi nella conclusiva “Symphony n.4 (Unfinished)…….(1934) che Enesco cominciò a scrivere nel 1928 e mai arrivò ad ultimare, le cui partiture sono state ritrovate negli archivi di un museo a lui dedicato a Bucarest. Nell’esecuzione sembrano convergere e sintetizzarsi magnificamente alcune inedite tendenze velatamente svincolate da schemi esclusivamente classici dell’opera di Enesco e il dna jazz dell’ensemble, mentre l’incompletezza della scrittura costituisce per il gruppo l’intrigante invito ad un libero esercizio improvvisativo. Questa in estrema sintesi l’essenza di un’opera, che realizza una contaminazione magnificamente riuscita tra jazz e classica.

lunedì 6 giugno 2011

Sorapis

Franco D’Andrea Quartet
El Gallo Rojo Records

Fluido nei ritmi, sofisticato nelle armonie, libero nelle interazioni. Così appare questo nuovo lavoro del quartetto di Franco D’Andrea, un combo ormai consolidato e ben delineato nella sua identità. Accanto al pianista di Merano, tra gli esponenti più acuti del miglior jazz italiano e internazionale, troviamo i fedelissimi: Andrea Ayassot (sax alto e soprano); Aldo Mella (contrabbasso); Zeno De Rossi (batteria). Come ormai consuetudine nelle produzioni del quartetto, anche in questo secondo lavoro inciso per l’etichetta “El Gallo Rojo”, avvertiamo un’intensità progettuale ed esecutiva di notevole impatto che pur circoscritta in ambiti decisamente jazzistici si mostra impregnata di un'esclusiva originalità in cui predomina il verbo musicale di D’Andrea. Quest’ultimo sintetizza nella sua poetica  un forte elemento insito nella  tradizione jazz che esplica attraverso dinamiche cool e una certa attitudine all’innovazione che trova un suo materializzarsi nell’esercizio dell’improvvisazione che anche questa volta coinvolge in contemporanea i quattro membri del quartetto. C’è poi quell’ idea, riproposta anche in questo contesto, di legare l’uno all’altro due o tre brani a mò di suite intervallandole con piccole pause riflessive dando così maggiore risalto al fattore  mutabilità che si riflette, con ideale regolarità, nell’aspetto evolutivo che questo jazz si porta dentro. Dall’iniziale trittico di  “Tritoni” – “Seste” – “Old Jazz” al finale ironico di “New Calipso” è tutto un susseguirsi di affreschi sonori che richiamano passato e presente del jazz. Ci imbattiamo così nei colori di “Latin Sketch”, nella riproposizione della ellingtoniana “The Single Petal of a Rose” in una versione totalmente ripensata in chiave moderna e nella controllata avanguardia di “Treble and Bass” senza dimenticare il brano che dà il titolo al cd “Sorapis” che già il maestro aveva inciso in solitudine nel 1980. Ovunque brilla l’incedere di questi quattro musicisti con il pianismo esauriente, fitto e multi sfaccettato di D’Andrea, il timbro caldo e l’andamento brioso del sax di Ayssot a cui si aggiunge l’acume ritmico e interpretativo della sezione ritmica Mella-De Rossi.



venerdì 20 maggio 2011

Actionspeak

Thomas Fujiwara & The Hook Up

 482 Music

Da Boston ecco un altro musicista di classe: Thomas Fujiwara, batterista e compositore già più volte a fianco del trombettista Taylor Ho Bynum e membro come quest’ultimo de The Thirteenth Assembly. In  esta produzione discografica, opera prima a suo nome lo propone a fiancoo come quest'vi quale è la downtown nequesta produzione discografica, opera prima a suo nome, si propone a fianco del quartetto Hook Up in cui ritroviamo l’attuale stella della chitarra jazz, Mary Harvolson e il trombettista Jonathan Finlayson con l’aggiunta di Brian Settles al sax tenore e Danton Boller al contrabbasso. Cinque musicisti, con il leader, dediti a tracciare una cifra stilistica di assoluto valore che spazia dal cool jazz al funky mescolando post e free bop attraverso sette tracce originali. Tracce ognuna delle quali ben distinguibile dall’altra, per struttura e identità, tutte comunque caratterizzate dal front-line dei fiati della coppia Finlayson-Settles e dalle elucubrazioni chitarristiche della Harvolson che certamente imprime all’intera produzione un impronta decisamente innovativa.
Dinamiche fluide come nell’iniziale “The Hunt” intrise di sonorità raffinate e moderne; ballate liriche come “Questions”, terreno invitante per i pregevoli fraseggi dei fiati; stimoli libertari come nella conclusiva “Soundtrack to Romance”. Nei fatti un ampio campionario di sorprese e soluzioni con il leader che si fa apprezzare sia come fine compositore che come strumentista per i suoi interventi sempre appropriati e assolutamente godibili non sempre avvertibili al primo approccio, il che rende ancora più stimolante ogni successivo ascolto. 


mercoledì 18 maggio 2011

Saturno Sings

Mary Harvolson

Firehouse12 Records

Individuata come una delle realtà più interessanti della scena jazz d’avanguardia newyorkese la chitarrista Mary Harvolson con questo album dimostra di essere anche in grado di cadenzare con perfetto equilibrio, in un lavoro discografico, i variegati umori e gli intriganti azzardi che la sua vena artistica gli suggerisce. Divulgatrice di un originale stile chitarristico la Harvolson si circonda in questa occasione di un quartetto che vede allineati in ideale armonia i suoi due fidi scudieri ritmici: il contrabbassista John Hébert e il batterista Ches Smith e i fiati di Jonathan Finalyson, tromba e Jon Irabagon, sax. Dieci i brani che compongono la selezione permeati da atmosfere cangianti che si muovono nell’ambito di un bop moderno, come può sempre risultare dal coinvolgimento di musicisti giovani che inevitabilmente portino dentro il loro dna musicale influenze riconducibili ad espressività musicali estranee al jazz. Il tutto accade all’interno di composizioni con una chiara struttura concettualmente jazz e dove la chitarra della leader è certamente in primo piano con i suoi timbri cangianti e le sue dinamiche evolutive sempre in costante interazione con i fiati in un esercizio esecutivo che alterna fraseggi a contrappunti. In questi ambiti la Harlvolson esibisce il frutto di tutta la sua genialità, dettando cambi di tempo, sbalzi di umori espressivi, improvvise e distorte incursioni chiaramente rockeggianti. Ma non è tutto perché durante l’ascolto ci si imbatte anche in delicate ballate impregnate di blues o di sonorità e ritmi vagamente latineggianti Tra i solchi di quella che può di certo essere definita un’ottima produzione discografica si scorgono una gran quantità di spunti innovativi e contaminanti che disegnano chiaramente il profilo di una musicista in grado di apportare nuova linfa al jazz moderno.

 Giuseppe Mavilla

domenica 15 maggio 2011

Some Other Place

Agustí Fernádez / Barry Guy

Maya Records
Quella tra Agustí Fernádez al piano e Barry Guy al contrabbasso è  una frequentazione di comuni ambiti che ha consentito ad entrambi di intavolare, da una decade, un’intesa che dopo essere stata ampiamente collaudata nell’orchestra dello svizzero Guy, di cui il pianista è membro, trova magnifica esplicazione in questo cd. I due dilatano il loro confronto attraverso un interplay dalle sfaccettature variabili che evidenzia porzioni liriche ma anche sonorità dissonanti ed estreme. Ogni brano nasce come una composizione strutturata per l’interpretazione in duo e contiene al suo interno una cellula ben definita, per estensione e sostanza, riservata all’improvvisazione. E’ un jazz europeo imbevuto di umori minimalisti e filosofie d’avanguardia ma anche di una sottile vena romantica certamente insita nella formazione del pianista natio di Palma di Maiorca. L’intro dell’iniziale “Annalisa” può ingannare per l’elegante e armonico fraseggio ma le tracce successive esibiscono un ricco campionario di atmosfere mutanti in cui due musicisti si fanno notevolmente apprezzare come strumentisti.
“Dark Energy”, penultima traccia della selezione, è il compendio più esplicativo dell’audace equilibrismo sonoro che pervade l’intera opera.