Febbraio 2009, al Village Vanguard di New York si registra il live Lost in A Dream in scena il trio Paul Motian,Chris Potter, Jason Moran. Sarà pubblicato l’anno successivo per la Ecm e sarà presente nelle liste dei migliori album del 2010. Oggi a poco più di ventiquattro ore dalla triste notizia questo live diventa la penultima esperienza discografica di Motian che all’età di ottantanni ha cessato di vivere. Era da tempo che pensavo a un’altra etichetta con cui classificare le impressioni d’ascolto di album non recentissimi, pubblicati ancor prima della nascita di questo mio blog ed oggi do il via a questo genere di post che, più che delle recensioni, sono l’espressione di sensazioni che nascono da un ri-ascolto di album già noti. Lost in A Dream è un album dall’atmosfera soffusa, ricco di sottili melodie a volte appena accennate, quasi sussurrate e arricchite attraverso un dialogo intimo fra i tre musicisti. Straordinariamente lirico, Potter, come poche volte lo abbiamo ascoltato, raffinato e jarrettiano il pianoforte di Moran che appare illuminato da una divinità e poi lui il batterista che ha attraversato la storia del jazz, iniziando al fianco di musicisti come: Thelonious Monk, Coleman Hawkins, Lennie Tristano, Tony Scott e George Russell, proseguendo poi a metà degli anni ’50 accanto all’indimenticabile Bill Evans. E ancora, negli anni ’60, prima con Paul Bley poi con Keith Jarrett, e come non ricordare il sodalizio con Charlie Haden e potrei continuare così a nutrire una lunga lista. Tornando a questo cd, che sto ascoltando mentre butto giù queste righe, lo sento accarezzare i piatti, strofinare i tamburi con le spazzole. Mi affascina il suo personalissimo musicare con la batteria e mi colpisce l’energia quasi free di “Drum Music” un momento out rispetto all’ambient del resto dei brani alla fine del quale Motian presenta i suoi compagni di viaggio, in questa selezione di dieci brani tutti a sua firma tranne il reprise di “Be Careful it’s My Heart” composto da Irving Berlin. Ascoltando oggi questo cd avverto un’ inevitabile alone di tristezza che prima non avevo captato, probabilmente Motian quella sera era già a conoscenza del male che lo avrebbe portato via e sicuramente avrà ancora goduto per quella magica professione di musicista che le consentiva di essere lì in quel tempio del jazz newyorkese. Grazie Mr. Motian per tutto il jazz di questi anni.
mercoledì 23 novembre 2011
martedì 22 novembre 2011
Watershed
Satoko Fujii Min-Yoh Ensemble
Libra Records
La pianista Satoko Fujii vanta nel 2011 la pubblicazione di ben tre album in altrettanti contesti diversi:”Rafale” con il quartetto Kaze, “Eto” con la sua orchestra di New York e questo “Watershed” con il Min-Yoh Ensemble. Quest’ultima produzione è ispirata dalla musica tradizionale giapponese in continuità al percorso intrapreso con "Fujin Raijin", altra incisione con il quartetto Min-Yoh datata 2006. In “Watershed” ritroviamo il fidato Tamura alla tromba, Andrea Parkins all’accordion e Curtis Hasselbring, trombone. E’ un’opera condensata in otto brani ognuno dei quali ha una sorgente tematica tradizionale a volte ben delineata altre volte nascosta tra le pieghe di una rielaborazione strutturalmente stravolta del tema. In questo esercizio di traslazione la Fujii e soci riversano molteplici elementi di culture musicali eterogenee: si va dalla musica classica al jazz d’avanguardia con l’aggiunta, in questa specifica occasione, di armonie tipicamente tradizionali che trovano collocazione tra le intense maglie di un’interazione spesso nervosa fatta di accenti ritmici netti e picchi dirompenti, di un incedere in crescendo ma anche di brevi parentesi caratterizzate da melodie danzanti. Le sonorità rilasciate in questi ambiti contrappongono umori struggenti e irruenze dinamiche, vocalità graffianti e melodie delicate. Il combo ha un’architettura contraddistinta da un amalgama quasi ideale in quanto le timbriche strumentali sembrano incastrarsi e completarsi in una specificità unica, che mette in risalto le doti dei singoli: estroso ed immenso il trombettista Tamura, la vocalità della sua tromba non ha limiti nel suo dimenarsi tra fraseggi delicati e lamentevoli elucubrazioni; genialità poco comune quella della Fujii, il suo pianismo è una sorta di manuale da assimilare ascolto dopo ascolto per capire dove può arrivare la sua personale sintesi lessicale; esemplare, la Parkins, per come inserisce le peculiarità armoniche del suo accordion in un ambient d’avanguardia che si arricchisce, in tal modo, di coloriture popolari; senza alternativa il contributo di Hasselbring al trombone, viaggia con nonchalance supportando ogni fermento, ogni esercizio improvvisativo ogni uscita sopra le righe in un componimento musicale immensamente godibile.
mercoledì 16 novembre 2011
Quartet (Mestre) 2008
Anthony Braxton
Diamond Curtain Wall Quartet
Caligola Records
Ha fatto tappa anche a Mestre la tournée dell’estate 2008 di Anthony Braxton e del suo trio-quartetto Diamond Curtain Wall, nell’ambito del “Candiani Summer Fest”. Chi frequenta questo blog avrà già avuto modo di leggere la recensione del cd edito dalla Leo Records e registrato a Mosca, altra tappa di quella sua venuta in europa, con la medesima formazione. Quella serata di Mestre del 1° luglio 2008, grazie ad una ripresa live, è oggi interamente disponibile in cd nel catalogo dell’etichetta veneziana Caligola Records che ha voluto corredarne la pubblicazione con le note di un autorevole studioso del jazz quale è il musicologo Stefano Zenni. Il quartetto è riproposto nella sua formula conosciuta con, oltre allo stesso Braxton ai fiati e ai live electronics (laptop), Katherine Young al fagotto, Taylor Ho Bynum ai fiati e Mary Harvolson alla chitarra. Il linguaggio usato è l’improvvisazione di cui il sassofonista è riconosciuto pioniere nonché tra i massimi esponenti contemporanei. La metodologia invece predominante è anche per il progetto della Diamod Curtain Wall Music quella che si relaziona con la durata temporale della performance regolata attraverso una clessidra. Il valore del tempo che si consuma con la messa in azione di questo strumento deve essere rigorosamente rispettato ma all’interno del relativo range temporale la libertà per ognuno dei protagonisti è garantita e non solo, in quanto un altro elemento va evidenziato, ovvero la mancanza di un’eccellenza dominante all’interno del quartetto. Così strutturata la performance si sviluppa sulle architetture di un esercizio improvvisativo intenso con i quattro musicisti impegnati ognuno nella propria singolarità a dare luogo nel complesso ad un mosaico di omogenea sinergia performante dalle sembianze cangianti ed in perenne evoluzione. In tutto ciò non posso esimermi dal trarre qualche breve annotazione: la straordinaria, già conosciuta, è vero!, duttilità ed estrosità di Taylor Ho Bynum, l’indefinibile originalità di Mary Harvolson, la rigorosità apparentemente accademica di Katherine Young, l’infinità e insaziabile oralità del grande maestro Braxton e l’incommensurabile campionario di suoni e le variabili ritmiche che si frappongono in quello che poi, nei fatti, è comunque un dialogo interattivo fra i quattro musicisti. Si conferma anche in questa occasione l’oculato e appropriato innesto del laptop e si ha la totale certezza che il progetto DCWM è l'ennesima originale intuizione del jazzman di Chicago.
domenica 13 novembre 2011
Upcoming Hurricane
Pascal Niggenkemper
Simon Nabatov
Gerald Cleaver
NoBusiness
Il nome ne rivela le origini europee ma il contrabbassista, franco-teutonico, Pascal Niggenkemper oggi è cittadino newyorkese e musicista rappresentativo di quella metropoli dove è arrivato nel 2005 per proseguire i suoi studi al Manhattan School of Music con Jay Anderson grazie ad un premio DAAD concesso quell’anno dal governo tedesco e dove ha conseguito successivamente il Diploma Master in Music Performance. Scrivo di lui perché mi è pervenuta da qualche settimana la sua ultima produzione discografica che segna un’altra tappa importante nella sua attività, da sempre intensa, malgrado i trentatreanni della sua giovane età, che lo ha visto membro della Henry Mancini Institut di Los Angeles nel 2006 nonché componente di gruppi di musicisti a fianco di Maria Schneider, Vince Mendoza e Gonzalo Rubalcaba. A New York, Niggenkemper è già stato parte di un trio con Robin Verheyen e Tyshawn Sorey, mentre in questo cd, uscito a settembre per l’etichetta NoBusiness, lo ritroviamo con Simon Nabatov al pianoforte e Gerand Cleaver alla batteria. Due musicisti dediti a frequentazioni d’avanguardia e quindi in ideale sinergia con la tendenziale scelta musicale che anche il contrabbassista ha operato in questi ultimi anni. La sobrietà della copertina che accompagna il cd dà già un’idea di ciò che le sette tracce da lì a poco esprimeranno ovvero un’essenzialità jazzistica che non concede nulla all’estetica formale e che invece risulta fortemente votata ad instaurare una fitta interazione. Il dialogo si esplica a volte attraverso un dilagante e magmatico incedere nervoso, che ha in Cleaver un esaltante dispensatore di ritmi africaneggianti, altre volte creando scarni ambiti dialettici pervasi da reminiscenze classiche europee di cui il pianismo di Nabatov è intriso. In entrambe le condizioni Niggenkemper si mostra non solo a suo agio ma anche stimolato con tutto il suo preponderante campionario inventivo che lo strumento gli consente di esprimere senza dimenticare di rivelare, che ancor prima di dedicarsi al contrabbasso, è stato in tenera età pianista e violinista. Con cotanta dote innata e con il contributo di musicisti come Nabatov e Cleaver, Niggenkemper, ha realizzato una delle produzioni più interessanti di questi ultimi mesi, oltretutto, disponibile anche in vinile.
mercoledì 9 novembre 2011
Planetary Unknown
David S.Ware
Cooper-Moore
William Parker
Muhammad Ali
Aum Fidelity
E’ urgenza espressiva dirompente quella che il sassofonista David S.Ware esprime dai solchi di questo recente cd dove è affiancato da Cooper-Moore, pianoforte, William Parker, contrabbasso, Muhammed Ali, batteria. Musicista prolifico costantemente impegnato ad interpretare e tradurre in musica ogni stimolo ispirativo indotto dalla sua creatività, S.Ware, è una figura quasi sacerdotale nell’ambito del free-jazz di cui è uno degli esponenti più rappresentativi. I tre musicisti che condividono con lui questa esperienza supportano e dialogano alla pari con il sassofonista: il pianoforte di Cooper-Moore contrappunta con altrettanta frenesia e fluorescenza le scorribande dei sax, William Parker è anche qui l’instancabile motore propulsivo della ritmica che conosciamo, mentre Ali dà corpo e profondità alla performance. Così “Passage Wudang”, traccia iniziale di questo cd, poco meno di 22 minuti di frenesia dialettica che non lascia vuoti di sorta nemmeno quando si assottiglia in un dialogo tra pianoforte e sezione ritmica. Poi il sassofonista torna a tracciare i tortuosi sentieri del suo free, con un incedere segnato da improvvise accelerazioni e puntamenti. Il finale del brano ha però una porzione riflessiva i cui toni si placano in un gioco lirico che coinvolge l’intero quartetto. Dopo i quasi 15 minuti di “Shift” e “Duality is one”, in piena e riconquistata bramosia free, arriva la trilogia: “Divination” / “Crystal Palace” / “Divination Unfathomable”, tre brani intrisi di una spiritualità gridata, con l'ampia vocalità dei suo sax, in piena devozione mistica. L’impeto e la passione di S.Ware riempiono ogni passaggio, il timbro è straordinariamente soul e viscerale, il quartetto sembra vivere momenti di profonda introspezione e anche in questi brani si fa strada un’aspetto sottilmente lirico del linguaggio autenticamente free che ha sempre contraddistinto il jazz di S.Ware. La traccia finale “Ancestry Supramental” ristabilisce il clima terreno e irruente della parte iniziale e invita a ripremere il tasto play per un ulteriore ascolto e per una nuova esplorazione del Planetary Unknown di David S.Ware e soci.
martedì 1 novembre 2011
Heart’s Reflections
Wadada Leo Smith’s Organic
Cuneiform
E’ un’opera complessa e densa di contenuti questo recente doppio cd del trombettista Wadada Leo Smith e del suo ensemble Organic. E lo è per gli elementi ispirativi, per le strutture portanti dei brani , per il fitto intreccio sonoro nonché per la configurazione dell’ensemble che consta di ben 14 elementi, con lo stesso leader, e che comprende: Casey Anderson e Casey Butler rispettivamente alto e tenor sax; Stephanie Smith: violin; Angelica Sanchez: piano ed electric piano; Michael Gregory, Brandon Ross, Lamar Smith e Josh Gerowitz: chitarre; Skuli Sverisson: basso e 6-string bass; John Lindberg: contrabbasso; Pheeroan Ak Laff: drums; Mark Trayle e Charlie Burgin: laptop. Complesso è anche il personaggio e il musicista Wadada Leo Smith con il suo profondo misticismo affiancato ad un’essenza jazz contemporanea a volte ruvida ma sempre vibrante. Già membro dell’AACM di Chicago, il trombettista, ha fatto parte, con Braxton e Leroy Jenkins, dei Creative Construction Company, gruppo tra i più avanzati espressi dall’associazione. Profondo sostenitore della filosofia elettrica di Miles Davis e del suo linguaggio contaminato e contaminante che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del jazz e che ancora oggi è oggetto di diatriba tra gli appassionati. La sua espressività qui si spinge oltre e si imbeve di sonorità ancora più abrasive rispetto a Davis, si arricchisce di feedback rock-blues, si fregia dei contributi di due laptop, si presenta costellata di episodi funky e non si fa mancare atmosfere introspettive. Cinque i brani complessivamente contenuti nei due cd, di notevole durata e in taluni casi frastagliati in vari episodi sempre riferiti a personaggi di vari ambiti: dal trombettista Don Cherry ad un maestro sufi, dalla scrittrice Tony Morrison al compianto violinista e fraterno amico Leroy Jenkins. Umori dell’anima e passioni della vita di un trombettista d’avanguardia.
mercoledì 19 ottobre 2011
The Veil
Berne Black & Cline
Cryptogrammophone
Cryptogrammophone
E’ nell’est village di New York che ha sede “The Stone” voluto da John Zorn per accogliere le anime libere del jazz newyorkese e i fermenti della Downtown. Ed è allo “Stone” che il 30 luglio del 2009 si sono incontrati il chitarrista Nels Cline, il sassofonista Tim Berne e il batterista Jim Black. Nella loro dotazione strumentale di quella sera c’è anche un laptop affidato alle attenzioni di Jim Black nonché gli armamentari elettronici utili all’elettrica di Cline. La performance è vibrante e giocata su toni rock e timbri elettrici come d’altronde la cifra stilistica, già ampiamente nota del chitarrista, lascia immaginare. Il connubio con Berne è ben riuscito perché il sassofonista riesce ad interagire e confrontarsi con Cline mostrando adeguata attitudine verso i ritmi fulminanti imposti dallo stesso. Anche per Black il percorso non presenta affanni di sorta perché il batterista arricchisce il suo drumming di una scoppiettante fluorescenza. La registrazione scivola dirompente attraverso le nove tracce, distinte solo nell’elenco riportato all’interno della copertina del cd, mentre si susseguono in assoluta continuità all’ascolto. La distinzione mi torna utile per definire con precisione alcune porzioni che si differenziano dall’incedere primordiale della registrazione. E’ il caso di “Momento” che individua una esecuzione dal clima rarefatto dove prevalgono sonorità elettroniche di enfasi contemporanea con varie sfumature abrasive. E poi “The Barbarella Syndrome” che esplica una dialettica jazz attraverso un’iniziale interazione chitarra elettrica-batteria, ai quali si unisce più avanti il sax, in un intreccio frenetico e labirintico che sembra non avere fine. “The Dawn of The Lawn”, traccia n.5, ha ritmi pulsanti e strali ipnotici mentre le conclusive “Tiny Moment” I e II evidenziano rispettivamente, i fraseggi in crescendo di Berne contrappuntati dal multiforme chitarrismo di Cline e l’ambient imbevuto di effettismo elettronico di cui è opportuno propositore Black al laptop. The Veil nei fatti è un’incursione intensa tra suoni e ritmi mutuati in parte dal rock ma interpretati e reinventati attraverso una metodologia jazz totalmente free.
sabato 8 ottobre 2011
The Mancy of Sound
Steve Coleman and Five Elements
PI Recordings
PI Recordings
Il
sassofonista Steve Coleman appare sempre più concentrato sui dettami della
filosofia Yoruba, propria di un popolo originario dell’Africa occidentale, il
cui culto sembra proficuamente ispirare il musicista co-fondatore del
collettivo M-Base, laboratorio di idee e formulario di innovazioni che ha
avuto nel tempo interpreti come Greg Osby, Graham Haynes, George Lewis,
Geri Allen, Vijay Iyer, Muhal Richard Abrams, Cassandra Wilson ed altri. Dopo
il precedente Harvesting Semblances and Affinities Coleman sembra aver
ripreso i suoi regolari ritmi di musicista e il tempo trascorso, all’incirca un
anno, tra la pubblicazione appena citata e questo cd di cui mi sto occupando in
questa recensione, è la prova più inconfutabile della ritrovata
vena creativa del nostro. The Mancy of Sound è focalizzato sulle entità
divine della religione Yoruba, a cui vengono associati elementi naturali
come acqua, fuoco, terra e aria. Ci sono poi riferimenti alle fasi lunari ed il
tutto è traslato nel linguaggio jazzistico del sassofonista che ha nel ritmo
la sua linfa primordiale. Il combo propone un front-line di fiati a
tre voci che include oltre al leader Jonathan Finlayson alla tromba e Tim
Albright al trombone, il contrabbassista Thomas Morgan, Tyshawn Sorey e Marcus
Gilmore alla due batterie, Ramòn Garcia Pérez alle percussioni e la splendida
vocalità della già apprezzata interprete Jen Shyu. Quest’ultima, come nella
precedente produzione, è alle prese con il suo esclusivo wordless e non solo,
perché in due episodi sono i testi della poetessa Patricia Magalhaes ad
impegnarla. Il suo canto si affianca ai fiati in un gioco di simbiosi,
sorprendente per assonanza ritmica e temporale, e il tutto è scandito
nella maggior parte dei brani da una ritmica incalzante dalle cui pulsazioni
si levano a turno gli interventi solistici improvvisati dei fiati. Il credo
ritmico, dell’idea colemaniana di jazz mette in secondo piano la frase
tematica e dà risalto sempre più vistoso ad un alone latineggiante qui
sempre più marcato grazie alla presenza delle due batterie e delle percussioni di
Perez. Due gli episodi che si rivelano disgiunti dall’architettura appena
descritta e sono: “Formation I e II” esclusivamente per fiati e voce dove la
simbiosi sopra descritta si realizza in tutta la sua pienezza unita ad un gioco di
contrappunti e affiliazioni tra le parti che è veramente uno dei momenti di
più alto livello di una produzione superlativa che ci restituisce un Coleman nel pieno
della sua ispirazione.
Assolutamente
indispensabile!
giovedì 29 settembre 2011
Envoi
Bill Dixon
Victo Records
Dopo aver postato la recensione di un’importante ristampa per la storia del jazz di tutti i tempi, quale ritengo sia Intents and Porpose, opera prima del compianto grande trombettista Bill Dixon, mi ritrovo ora a metter su, con un’inevitabile punta di tristezza la recensione dell’ultimo suo atto musicale: la registrazione del concerto tenuto da Dixon il 22 maggio 2010, poco meno di un mese prima della sua morte, in occasione del 26° Festival International de Musique Actuelle di Victoriaville in Canada. Dixon è infatti scomparso il 16 giugno del 2010 dopo pochi mesi dall’uscita del suo riuscitissimo e intenso Tapestries for Small Orchestra di cui potete leggere qui la mia recensione pubblicata sul numero 269 de il Giornale della Musica. In Envoi ritroviamo lo stesso gruppo di musicisti protagonisti del precedente Tapestry….. formato da Stephen Haynes, Taylor Ho Bynum, Rob Mazurek e Graham Haynes ai fiati; Glynis Loman violoncello; Michel Côté e Ken Filiano contrabbassi e Warren Smith vibrafono, batteria e percussioni. Due i brani in esso contenuti in forma di suite, che prendono il nome dal titolo del cd distinti come sezione 1 e 2 entrambi dalla durata intorno ai venticinque minuti seguiti da un breve epilogo finale, parlato, in cui Dixon ringrazia il pubblico. Il trombettista anche in questa occasione esibisce la sua inconfondibile cifra stilistica, il suo linguaggio che frantuma ogni schema precostituito, sia come tipologia che come struttura. Anche qui i timbri sonori sono gravi o lancinanti, le melodie brevi e frastagliate, i contrasti intensi e gli umori dirompenti o minimali. Siamo sempre più di fronte ad una concezione totale della musica, ad una distribuzione paritaria dei ruoli di ogni componente il gruppo, indipendentemente dallo strumento che ne traduce il lessico. Anche questa opera di Dixon somiglia ad un affresco pittorico dalle mille sfumature e dai contorni indefiniti con un elemento in più che si identifica nella dinamica cangiante ed invasiva, emotivamente parlando, verso chi ascolta. Indescrivibile comunque tutto il campionario espressivo di questo straordinario combo che esibisce una sezione di fiati imbevuta di estro e a secco di remore, un percussionista di enormi risorse, quale Smith da sempre è, un violoncello, quello della Loman che si fa puntiglioso e desideroso di protagonismo a fianco del contrabbasso entusiasmante di Filiano. Cos’altro aggiungere se non l’imprescindibile necessità di possedere quest’opera che chiude la preziosa serie di grandi opere di un artista certamente irripetibile nella storia della musica contemporanea.
Giuseppe Mavilla
domenica 25 settembre 2011
Stars Have Shapes
Exploding Star Orchestra
Delmark
Records
Una
dedica speciale a due grandi del jazz come Bill Dixon e Fred Anderson, entrambi
scomparsi nel giugno del 2010, accompagna questo cd della Exploding Star
Orchestra che da tempo ridisegna gli ambiti tradizionali in cui di solito si
esprimono gli ensemble allargati. Un orchestra già al fianco dello stesso Dixon
che oggi ha in quel Rob Mazurek di CalmaGente, qui recensito qualche settimana fa, il suo leader maximo, nonché
conduttore e compositore. Un musicista ispirato e innovativo come ormai
dimostra di essere in ognuno dei contesti in cui è presente: dal Chicago
Undergrond Duo al trio Starlicker senza dimenticare il quintetto di Sound is. Questo lavoro con l’Exploding
Star Orchestra, tra le cui fila ritroviamo tra gli altri i più noti: Nicole
Mitchell, Matt Bauder, Greg Ward, Jason Adasiewicz e il Mike Reed di Empathetic Parts già recensito in questo
blog, si apre con il brano “Ascension Gost Impression” ed è introdotto da un breve
fischio umano al quale si uniscono in rapida sequenza le note di un pianoforte,
quelle di un vibrafono, i fraseggi liberi dei fiati e i contrappunti della
sezione ritmica fino al formarsi di un intenso flusso sonoro in cui si fa
spazio in maniera sempre più soffocante una sorta di rumore urbano. Poi di
colpo, come chiudendo una porta che divide da un ipotetico luogo esterno, il
rumore cessa e prende forma una splendida e armoniosa melodia. E’ una parentesi
relativamente breve perché da lì a poco il fragore riprende alternando pause di
fredda interazione in assoluta discontinuità formale. La successiva “Chromo
Rocker” ricompone un quadro più omogeneo e mette in mostra un quid nervoso che
pervade l’Orchestra sia dal lato ritmico che da quello armonico. “Three Blocks
of Light”, terza delle quattro tracce presenti, è un campionario di suoni
esotici umani ed elettronici intriso di un’ipnosi latente che avvolge
l’ascoltatore: guizzi improvvisi, ora dell’uno ora dell’altro, tra brevi dialoghi
spigolosi, in una atmosfera di trascendenza dalle logiche di interplay
tradizionale. “Impression” in chiusura ci riporta alla realtà perché giocata su
toni più comuni in cui comunque l’impronta tipica di Mazurek e soci è più che
avvertibile. Un cd che sintetizza un accostamento riuscito e del tutto inedito
tra acustica ed elettronica, e che aggiunge nuova linfa al futuro del jazz.
martedì 20 settembre 2011
Empathetic Parts
Mike Reed’s Loosy Assembly
482 Music
Il batterista e compositore Mike Reed, trentaseienne, è uno degli attuali esponenti della scena d’avanguardia di Chicago nonché membro dell’ AACM (Association for Advancement of Creative Musicians) di cui è stato nominato vicepresidente nel 2009. Componente della Exploding Star Orchestra ha realizzato lavori di rilievo con il quartetto “People, Places & Things” rielaborando il jazz in auge a Chicago nella seconda metà degli anni ’50 e realizzando in questo contesto ben tre cd: Proliferation, About us e Stories and Negotiations. Questo Empathetic Parts invece è frutto della registrazione live di un concerto tenuto nel novembre 2009 al Hideout di Chicago in occasione dell' Umbrella 2009 Music Festival di Chicago. Accanto a Reed c’è questa volta la Loosy Assembly: Greg Ward, sax alto, Tomeka Reid, violoncello, Jason Adasiewicz, vibrafono, Joshua Abrams, contrabasso a cui si aggiunge un ospite importante che unisce il passato e il presente dell’ AACM: Roscoe Mitchell, alto sax, soprano sax e flauto. La lunga prima traccia, 33 minuti e quarantanove secondi, che da il titolo al cd, concepita con lucida progettualità dal batterista-leader, consiste in un breve tema composto da Reed e affidato all’inventiva dei suoi compagni di scena. Oltre al tema il leader detta ad ognuno di loro una serie di regole da seguire nello sviluppo dell’improvvisazione soffermandosi su alcuni elementi ben precisi quali: toni prolungati, puntillismo, oscillazione, ostinati, tempi liberi e pause. Forte di questi dettami il gruppo si muove attraverso un’interazione fortemente intrisa di empatia alternando atmosfere cameristiche, con in evidenza il violoncello della Reid, ad un groove prettamente jazzistico che si materializza in tutta la sua fluida dinamicità quando a menar le danze è la sezione ritmica. Ed è qui che viene fuori la mutante contrapposizione che caratterizza le varie fasi evolutive del brano, un intreccio continuo fra climi rarefatti e controllate tensioni che aprono improvvisi squarci intimistici per dialoghi, in trio o in duo, fra le varie anime del sestetto. L’empatia fra le parti produce nel contempo un naturale equilibrio partecipativo fra tutti i musicisti cosicché lo stesso Mitchell, seppure inconfondibilmente individuabile per la timbrica asciutta del suo strumento, per il suo incedere obliquo, per una certa ruvidità di toni, non va mai a caratterizzare in maniera assoluta la struttura esecutiva del brano. In chiusura Reed e soci ripropongono "I'll Be Right Here Waiting," inciso negli anni settanta dagli Air di Henry Threadgill ed è un ulteriore impinguarsi della reale constatazione di trovarsi di fronte ad una delle migliori incisioni da me ascoltate di questo 2011.
martedì 13 settembre 2011
Live at Teatro Donnafugata
ImproGressive Jazz Trio
autoproduzione
L’ImproGressive
Jazz Trio è una realtà operante dal 2001 nell’ambito del jazz italiano, almeno
nella sua originaria configurazione in duo. Paolo Battaglia e Maurizio Morello,
membri fondatori del trio, entrambi chitarristi, hanno esplicato la loro proposta attraverso una produzione, Drops
and Silence – Guitar Improvisations, che
ha raccolto consensi in Italia e all’estero e con alcune loro esibizioni
allargate ad alti strumentisti. In questo Live
at Teatro Donnafugata, registrato lo scorso 19 novembre 2010, durante
un’esibizione nell’omonimo teatro in quel luogo suggestivo quale è Ragusa Ibla,
Battaglia e Morello sono coadiuvati da Enzo Di Raimondo, batterista, che da anni si dedica all’approfondimento del
suo strumento e che si porta dentro una naturale propensione a percorrere ogni
tipo di esperienza musicale con la consapevolezza che, in ogni caso, tutto può
tradursi in un arricchimento delle proprie capacità artistiche. Il cd è una autoproduzione inizialmente sottovalutata nel senso che un primo e veloce approccio non evidenzia tutto il notevole valore dell’opera. L’idea
del trio così configurato si dimostra man mano che si va avanti negli ascolti una scelta azzeccata e originale con le due
chitarre posizionate ai lati opposti della scena sonora e con nella zona
centrale la batteria. La registrazione però mostra inevitabilmente tutta
la sua artigianalità ma questo non
inficia, più di tanto, il suo valore; per spiegarmi meglio voglio dire
che se curata, sia in sede di ripresa che in studio, l’opera avrebbe senz’altro
rivelato in misura maggiore il lavoro del trio. Il dialogo fra le due chitarre
è pregevole e si gioca secondo una chiara filosofia jazz fatta di rimandi e contrappunti in un sottile
esercizio di interazione arricchito da sonorità accattivanti che riecheggiano
J.J Cale e i Dire Street di Mark Knopler. Melodie e fraseggi ritmici dettate da
Battaglia e Morello sui quali si inserisce con costante discrezione il
percussionismo di Di Raimondo che, abilmente, non va mai oltre
le righe evitando così di spezzare una gradevole atmosfera elettro-acustica intrisa
di raffinatezza. I brani, tutti originali a parte la ripresa di “Three of a
perfect pair” dei King Crimson, nascono dalla vena compositiva del binomio
Battaglia-Morello, che rivelano nel contempo anche le loro doti di
strumentisti, e sono caratterizzati da una struttura ben definita con
le porzioni improvvisative inserite accuratamente nell’ambito del naturale divenire esecutivo. Qua
e là si avverte qualche debito di originalità, sicuramente facile da contrarre
quando si è alle prese con un’esibizione live, ma questo trio ha tutte le carte
in regola per sviluppare in un imminente futuro una proposta degna di
attenzione.
lunedì 5 settembre 2011
Ghosts
Peter Evans Quintet
More is More Records
Ancora un trombettista in evidenza: Peter Evans, con un album Ghosts di intensa musicalità e indovinata propensione a cercare spunto nel passato per abbozzare un linguaggio, senza costrizioni o limiti, libero di spaziare in un inedito presente. La sua biografia rende nota la sua frequentazione, fin dal 2003, della comunità musicale newyorkese, i suoi studi all’Oberlin Conservatory, la sua capacità di misurarsi in diversi ambiti musicali, dall’ironico progetto con i Mostly Other People Do the Killing al duo con Nate Wooley, e ancora il trio con Mary Harvolson e Weasel Walter, il cui ElectricFruit è stato qui recensito, per finire con la sua partecipazione al progetto Electro-Acoustic Ensemble di Evan Parker e questo solo per citarne alcuni. In Ghosts, prima uscita per la sua neonata etichetta, Evans è in quintetto coadiuvato da Carlos Homs al piano, Tom Blancarte al piano, Jim Black alla batteria e Sam Pluta, live processing. Il lavoro, commissionato in parte dalla SWR for the Donaueschinger Musiktage 2010 di Baden Baden (Germania), include sette tracce e si apre con “One to Ninety Two” una frenetica incursione tra gli stilemi, non proprio celati, di un post-bop di maniera che però si arricchisce di una carica esecutiva non proprio ricorrente e di intrecci elettronici e temporali che ne smontano i tratti consolidati. Qui Evans estrapola la melodia di un classico di Mel Torme e prova ad operarne, con notevoli risultati, una decostruzione. Il brano si sviluppa su diverse latitudini anche grazie all’impiego dell’elettronica che raddoppia lo strumento del leader su vari registri. La successiva “323” è giocata su due note in ritmo ostinato con variazioni di tonalità e in atmosfera decisamente free. E’ il preludio alla sofisticata e ariosa ballad che da il titolo al cd il cui tema questa volta è estrapolato da un noto brano di Victor Young “I Don’t Stand a Gost Whit You”. Il resto del cd propone le fluorescenze di “The Big Chrunch”, le sciorinate sordinate di “Chorales”, i ritmi e le interazioni d’avanguardia ispirate dal grande Woody Shaw e dalle sue composizioni in “Articulation” e la spumeggiante rielaborazione di una classica pop song la “Stardust” di Hoagy Carmichael datata 1927.
martedì 30 agosto 2011
(Put Your) Hands Together
Nate Wooley Quintet
Clean Feed Records
Il trombettista Nate Wooley stempera i suoi bollori di stampo downtown ripiegando su un post bop di esclusiva eleganza e raffinatezza in questo cd ispirato alle donne che hanno in qualche modo condizionato la sua vita. Inciso per la portoghese Clean Feed in compagnia di Josh Sinton, clarinetto basso, Matt Moran, vibrafono, Eivind Opsvik, contrabbasso e Harris Eisenstadt, batteria. L’ascolto ci restituisce un jazz moderno dove convive un’estetica cool e dove il leader, spalleggiato da Sinton, non rinuncia comunque a piazzare i suoi strali d’avanguardia esplicati attraverso una sorta di sconfinamenti timbrici su tonalità aspre e graffianti a conferma che Wooley non nutre alcun ripensamento relativamente alle sue precedenti esperienze. I dieci brani evidenziano una struttura ben definita e in molti casi pregevolmente articolata e ricercata. L’elemento vincente per l’intera produzione è l’anello di giunzione tra passato e presente delineato con opportuno equilibrio. I fiati di Wooley e Sinton, tromba e clarinetto basso, sembrano danzare, con sottile eleganza, sul front-line mentre la sezione ritmica rende fluide le dinamiche e il vibrafono di Moran ingentilisce il suono arricchendo l’espressività del combo. Ma chi sono queste donne così importanti nella vita di Wooley? Il trombettista sembra abbia rivelato in una recente intervista che si tratta della moglie, della mamma, della nonna e delle zie aggiungendo che hanno elevato la sua vita. Questi i soggetti ispiratori di buona parte delle dieci tracce contenute nel cd titolate con nomi di donne: “Shanda Lea” su tutte, proposta in apertura e in chiusura per sola tromba e tromba con sordina e nella parte centrale con tutto il gruppo, scandita da un eccellente e improvvisato dialogo tra i due fiati. E ancora la snella, anche se di ampia durata, poco più di nove minuti, nonché sofisticata, “Cecelia” introdotta dal fraseggio iniziale di tromba e clarinetto, poi dilatata per qualche minuto dalla ritmica della band con in primo piano il vibrafono di Moran. A seguire l’intima “Pearl” con Moran in primo piano, quasi una ninna nanna in chiave jazz, la boppistica “Elsa” e la danzante “Hazel”. Godibile!
mercoledì 24 agosto 2011
Calma Gente
Rob Mazurek
Submarine Records
Esotico, fresco, avvolgente, struggente, fluido, etereo… queste le prime definizioni che mi vengono in mente così di botto appena provo a mettere su la recensione di questo cd dalla sobria copertina, che diffonde un qualcosa di unico, di naturale, insomma qualcosa che ben presto affascina fin dal primo ascolto. Un’intensa cascata di suoni e ritmi concepita dal trombettista Rob Mazurek, ritratto in copertina con spessi occhiali da sole, uno degli esponenti della Explonding Star Orchestra, ensemble vicino al compianto Bill Dixon. Uno dei musicisti americani più impegnati nella ricerca di un jazz moderno originale e innovativo. Questa sua recente realizzazione nasce in Brasile dove Mazurek possiede una residenza e costituisce una sorta di diversivo alle ricercate e avanguardistiche produzioni con l’Orchestra. Una mistura dove comunque trovano spazio i frutti di questa sua ricerca, una miriade di elementi che vanno dall’avanguardia all’etnico. Un viaggio attraverso le nove composizioni come in una ipotetica giungla tecnologica dove si intersecano e convivono sonorità elettroniche ed acustiche. Artefici di questo lavoro sono anche alcuni dei componenti l’Explonding Star Orchestra: Jason Adasiewicz, vibrafono, Nicole Mitchell, alto flauto, Matt Bauder, clarinetto basso, Josh Abrams, basso, Mike Reed, percussioni. A loro si sono uniti altri musicisti brasiliani come Kiko Dinucci, chitarrista e songwriter.
Emozioni a iosa durante l’ascolto che già raggiunge livelli coinvolgenti con la lunga e ipnotica “The Passion of Yang Kwei-Fe”, un pout-pourri di musica ambient intrisa di ritmi variopinti, di una suadente melodia di cui è artefice la tromba di Mazurek contrappuntata al flauto da Nicole Mitchell.
Tre solchi più avanti troviamo la delicata e triste “Flow My Tears and Last Forever” una ballata in duo, chitarra acustica e tromba, di straordinaria bellezza. In chiusura “Flamingos Dancing On The Rings of Saturn” titolo che disegna un’ immaginaria visione di una danza sospesa nello spazio che il lungo solo di Adasiewicz, al vibrafono, rende palpabile. Questi gli episodi più significativi di un cd impossibile da etichettare così denso di essenza musicale da lasciare stupefatti e che non evidenzia cadute di tono in nessuna delle nove tracce in esso contenute. Un cd pensato solo per il mercato discografico brasiliano e per quello giapponese e quindi apparentemente non di facile reperibilità. Tutto può essere risolto con un pizzico di pazienza perché potete acquistarlo andando sul sito della Submarine Records e da lì riceverete le opportune istruzioni per la relativa procedura d’acquisto. Ne vale la pena. Un must!
lunedì 22 agosto 2011
(Town Hall) 1972
Anthony Braxton
Trio & Quintet
Hatology
Dopo essermi occupato della ristampa del prezioso “Intets and Purposes” di Bill Dixon rimango in tema di riedizioni con un altro album importante firmato questa volta dal grande Anthony Braxton, un album registrato nel 1972 e inizialmente pubblicato in Giappone in formato LP dalla Trio Pa Records. L’album fu poi proposto in Eurora in prima edizione nel 1992 dalla Hat Art e riproposto in ristampa, dopo un remix nel 2010, dalla svizzera Hatology agli inizi di quest’anno. Una delle tante perle della discografia del sassofonista di Chicago registrato dal vivo in un locale storico per il jazz di tutti i tempi: il Town Hall di New York. Una session del 22 maggio del 1972 divisa a metà tra due formazioni diverse un trio e un quintetto per un totale di quattro brani. Nella prima parte è protagonista il trio e accanto a Braxton troviamo il contrabbasista Dave Holland e il batterista Philip Wilson. L’apertura è contraddistinta da una certa frenesia ritmica, alimentata con nerbo e inarrestabile continuità dalla coppia Holland-Wilson. Su cotanto brusio ritmico Braxton si lancia dirompente e determinato con un ampio campionario lessicale che inonda la struttura primaria (n) della “Composition 6”. E’ incontenibile il sax-man di Chicago e torna spesso sulla frase del tema per poi riprendere le sue rincorse. La sezione (o) della “Composition 6” che in naturale divenire completa il primo brano esplica un’atmosfera meno impetuosa e dedita ad un dialogo più rarefatto e ricercato con Holland che impugna l’archetto. Il trio si congeda con una spumeggiante e originale versione della famosa “All the things you are” firmata da Jerome Kern introdotta da un solo di Wilson che precede l’inserimento di Holland e dello stesso Braxton che sembra aggredire la melodia base del brano prima di accennarne le frasi principali del tema e da lì liberare tutto il suo impeto improvvisativo. Per la seconda parte del cd è di scena il quintetto con Braxton affiancato ai fiati da John Stubblefield che si porta dietro anche un gong e delle percussioni. Holland rimane al contrabbasso mentre alla batteria siede Barry Altschul che opera anche alla marimba e a sopresa si aggiunge una vocalist di classe e di azzardo come Jeanne Lee. L’atmosfera torna a placarsi e il quintetto sembra avviato a plasmare una sintesi tra le diverse anime strumentali, un incastro pensato a dovere da Braxton in sede compositiva e magnificamente ricreato ma soprattutto arricchito grazie alla libertà dell’improvvisazione nella realtà del Town Hall. Braxton è ancora protagonista anche con il dialogo che instaura con Stubblefield e in questo ambito si inseriscono le gesta vocali della Lee: vocalizzi, scat e testi astratti che vanno a integrarsi perfettamente nello sviluppo della performance in atto, divisa in due parti (PI e PII), della stessa “Composition 6”. In grande evidenza il pregnante contributo di Holland, l’estro, accostato all’esclusiva attinenza, di Altschul e il variegato campionario di Stubblefield. Una riedizione che assume anche un importanza storica nella conoscenza dello sviluppo dell’opera Braxtoniana sicuramente irrinunciabile. Tra free e avanguardia.
martedì 2 agosto 2011
Intents and Purposes
The Bill Dixon Orchestra
(RCA Victor) Dynagroove
Questa ristampa di un vinile della seconda metà degli anni sessanta è una delle operazioni culturalmente più utili per la diffusione della musica jazz. Un album tra i più importanti nella storia del jazz d’avanguardia che mancava nelle collezioni di molti appassionati che probabilmente, nell’attesa di una possibile riedizione, si saranno dimenati alla ricerca di qualche buon usato. Ora la che la ristampa è disponibile quale migliore occasione per apprezzare il musicista che né è autore, Bill Dixon, trombettista scomparso recentemente all’età di 84 anni, uno dei musicisti più innovativi nell’evoluzione della musica afroamericana. Attivo fino a pochi mesi prima della sua dipartita si è mosso attraverso una specifica filosofia espressiva che ha travalicato il jazz andando ad arricchirsi con stilemi e strutture molto vicine alla musica classica e a quella contemporanea. In questo ambito l’elemento che ha poi caratterizzato la specificità del suo jazz è stato il fattore free tradotto attraverso il suo costante inserirsi, all’interno delle partiture, con fraseggi improvvisati dirompenti caratterizzati da toni taglienti su dinamiche e architetture per certi versi rigide e prestabilite. L’opera è caratterizzata da toni gravi e da un andamento drammatico in cui la configurazione dell’orchestra risulta determinante: con una sezione di fiati di 5 elementi, compreso lo stesso Dixon, un violoncello, due contrabbassisti, i noti Reggie Workman e Jim Garrison (peraltro affiancati nel primo brano “Metamorphosis”) e una batteria. Nel concepimento di questo e dei rimanenti brani, tutti originali e tutti a firma dell’autore, è insita la cultura per l’arte, non solo musicale ma anche pittorica, coltivata da Dixon nella sua anima e nella sua mente. L’ album abbonda di trame intense, travagliate, ricche di tensioni sonore e ritmiche, di pieni orchestrali ma anche di parentesi eteree in cui i fiati si intersecano avanzando e arretrando sul front-line, sempre e comunque in una atmosfera sospesa in un ipotetico equilibrio tra tensione ed emozione. Grande musica ancora oggi dopo oltre quarant’anni dal suo concepimento a dimostrazione della singolare levatura di compositore e musicista di cui Dixon era dotato che ci aiuta a comprendere l’assoluta validità di ogni opera che costella la sua ampia discografia ma anche l’improrogabile opportunità, per ogni appassionato di jazz che ancora non lo abbia fatto, di scoprirne i dettagli.
Giuseppe Mavilla
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