Doppio cd dal vivo per il
pianista Franco D’Andrea per documentare un intenso tour che lo scorso anno,
quello del suo settantesimo compleanno, lo ha visto proporre il progetto in
trio con Daniele D’Agaro, clarinetto e Mauro Ottolini, trombone e quello in
quartetto con i fedelissimi Andrea Ayassot, sax, Aldo Mella, contrabbasso e
Zeno De Rossi, batteria. Il trio, arricchito nei concerti dalla presenza del
fantasioso batterista Han Bennink, per riproporre la tradizione attraverso un
linguaggio attuale e senza rinunciare alle sonorità e alle dinamiche swing; il
quartetto per proseguire il lavoro di sintesi di un linguaggio che ingloba
modernità e avanguardia non tralasciando il passato. Il tutto si traduce in un
equilibrio estetico che aiuta non poco a metabolizzare le intuizioni e l’acume jazz
del musicista di Merano. Il titolo del lavoro suggerisce la probabile ricchezza
del contenuto che si fa certezza già dalla prima traccia del cd n.1, una suite
che include una esclusiva versione della “Turkish Mambo” di Lennie
Tristano. Poi l’oralità di “Cluster
n.1-2-3” i primi con protagonista il quartetto e il terzo, un solo del leader. Il
secondo cd cattura i due ensemble riuniti e la sintesi sonora è da apoteosi tra
riproposizioni di composizioni del D’Andrea più recente come “Half The Fun” e
le ulteriori riprese del brano di Tristano e della “Caravan” di Ellington.
Per
il pianista Craig Taborn, altra figura rilevante della scena jazz newyorkese,
arriva l’appuntamento con una tappa quasi obbligata: il piano solo, e per di
più con l’etichetta Ecm di di Manfred Eicher. Una registrazione tutta europea
realizzata presso l’auditorio della radiotelevisione svizzera di Lugano con
l’ingegnerizzazione del nostro Stefano Amerio. Taborn, da sempre abituato a
cavalcare con evidente propensione i fermenti innovativi della scuola di
Chicago, si vedano a tal proposito i suoi contributi alle produzioni di Roscoe
Mitchell, nonchè gli umori avant della downtown, si mostra pronto a proporsi in
totale solitudine. Le tredici tracce contenute nel cd spaziano tra i diversi orizzonti
che costituiscono l’universo del piano solo. Il pianista infatti affronta con
evidente scioltezza e capacità ambiti vari senza cedimenti di sorta riuscendo
ad accostare l’oralità jazz ad una scrittura di stampo europeo. E ancora: citazioni d’avanguardia e aree di ampio respiro in cui spiccano frammenti di
melodie che ricordano in qualche episodio
la sfera più intima del Michael
Nyman di alcuni anni fa e per finire anche episodi minimalisti alla Philip Glass.
Un percorso variegato di ricorrente
intercambiabilità da metabolizzare ascolto dopo ascolto.
Questa degli Starlicker è una altra geniale
intuizione di uno dei musicisti più prolifici di questi ultimi anni. Il
trombettista Rob Mazurek ne ha infatti inventata un’altra delle sue: un trio
tromba, vibrafono e batteria, quest’ultimi affidati rispettivamente alle gesta dell’onnipresente,
quando si parla di vibrafono, Jason Adasiewicz e a quelle di John Herndon gia
membri di altri ensemble insieme con Mazurek. Qui i temi sembreranno banali,
quasi degli jingles dalla melodia semplice, a volte scontata, contrappuntati da
una ritmica ossessionante che unisce vibrafono e batteria. E da qui si
dipartono le parti improvvisate affidate a turno alla tromba e al vibrafono o
all’intreccio degli stessi con l’incalzante drumming di Herndon che ben
supporta i trasbordi all’unisono della tromba del leader. Suggestiva come
sempre la timbrica del vibrafono che qui assume una connotazione intrisa di
nudità sonora per la mancanza di un contrabbasso a supporto. Ascoltate la
seconda traccia del cd “Vodou Cinque” dagli orizzonti indefiniti e dall’atmosfera
a metà fra l’ipnotico e il trascendente o “Andromeda”, frenetica, urbana,
ossessiva e infinita. E ancora la magmatica “Triple Hex” tra le cui fumogene
elucubrazioni prende vita l’ennesimo riff della tromba di Mazurek. Vola in alto
il trombettista a disegnare percorsi di libero girovagare nel pentagramma prima
di ricomporsi nella consueta semplicità del riff iniziale. Sei tracce in tutto
per poco meno di quaranta minuti intensi e col fiato alla gola.
Il pianista indiano Vijay Iyer è da sempre uno
dei musicisti più innovativi della scena jazz di Brooklyn. A lui si guarda come
una fonte di energia vitale per lo sviluppo del jazz contemporaneo. Questa sua
recente produzione per l’etichetta tedesca Act prosegue il lavoro intrapreso
con l’ottimo Historicity del 2009 e
fa seguito al validissimo Solo del
2010. L’elemento primario su cui Iyer concentra la sua ispirazione è il ritmo
inteso come movimento, frenesia, danza, aspetti insostituibili nella vita di
tutti i giorni. Non a caso nelle note di copertina il pianista così definisce
il cd: "Questo album è il lignaggio della musica
americana creativa basata su ritmi di danza." A coadiuvarlo in questa
interpretazione moderna del classico piano trio troviamo Stephan Crump al
contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria due musicisti che interpretano in
maniera perfetta la filosofia di Iyer che mette insieme undici tracce tra
originali e riproposizioni dimenandosi tra un’ossessione ritmica costantemente
in crescendo e un esercizio armonico di raffinato impatto. Il trio esordisce con
la snella “Bode” una sorta di genesi ritmica che preclude alle seguenti “Optimism”
e “The Star Of a Story” in cui il ritmo prende forma quasi ipnotica in un continuo
crescendo spezzato solo da cellule di
armonie a cui da alito oltre al pianoforte del leader il contrabbasso di Crump.
Con la quarta traccia il pianista estrae dal suo magico cilindro una magistrale
riproposizione di un hit del compianto Michael Jackson. E’ “Human Nature” una autentica perla la cui
armonia lirica e ritmica viene prima cesellata con minuziosa cura e successivamente
decostruita e ricostruita tra mille micro variazioni. Poi Iyer pesca nel
repertorio del grande e artisticamente introverso Henry Threadgill reinterpretando
“Little Pocket Size“ restituita, pur nella esiguità strumentale di un trio, in
tutta la sua complessità e caratterizzata da sonorità più nette e ricercate e
una ritmica sempre e comunque in crescendo. Sono tre composizioni inedite del
leader consumate in un ambient pulsante e fluorescente a precedere l’ultima traccia la magistrale “The Village of
Virgins” di Duke Ellington che mi catapulta dentro un ritmo gospel...... inebrio e
goduria a chiusura di una produzione di disarmante bellezza.
Il
mio primo contatto con il progetto Screenplay del sassofonista Rino
Cirinnà è datato 23 febbraio 2012, data in cui il musicista ha presentato
questo suo ultimo cd nell’ambito della rassegna in corso al MIllennium Club di
Scicli. Con lui c’erano Danilo Rubino al
pianoforte, Tony Arco alla batteria e Lucio Terzano al contrabbasso, lo stesso
quartetto che ha inciso questo cd. Un
quartetto stellare, in totale simbiosi, che condensa nel suo linguaggio
tradizione e modernità per dare vita ad un’espressività jazz intrisa di
raffinate geometrie interattive, di un cadenzato alternarsi di temi ed
improvvisazione, di fraseggi a volte volutamente scomposti per inglobare i
rivoli estrosi di un batterista dirompente come Tony Arco. Dirompenza attinente
e variopinta oltre che spettacolare che mostra un musicista totalmente rapito
dalle dinamiche esecutive. Un quartetto guidato con raffinato raziocino da un
sassofonista sorprendentemente misurato e composto nel suo eloquio fiatistico
ma certamente esaustivo del bagaglio
tecnico-jazzistico che evidenzia i suoi trascorsi oltreoceano e la sua profonda
conoscenza della musica afroamericana. Il combo, come nella formazione live, include Lucio Terzano, al
contrabbasso, stilisticamente ineccepibile e di grande sensibilità musicale,
con un carnet di collaborazioni assolutamente prestigioso e Dino Rubino,
al pianoforte, oramai assorto al ruolo di musicista maturo e determinante in
ogni ambito in cui viene coinvolto. Sette le tracce incluse nel cd, che
confermano quanto di valido avevo già notato nell’esperienza dal vivo, tutte dalla
struttura articolata in bilico fra hard bop, mainstream e modern jazz, tutte di
elevata fattura, con punte eccelse in “Big on Trio” ricca di umori cangianti, in “Modaldino” impreziosita
dall’intrigante riff che alimenta il dialogo tra pianoforte e sax e in “Behind”
tra echi di Evans e sfaccettature liriche.
In botanica il termine amanita è riferito ad un genere di funghi
dalla struttura eterogenea, potete approfondirne la tematica su questo link, ma da qualche
mese Amanita è anche il nome di un
gruppo italiano, un trio del sud italia che non a caso ha intitolato questo primo cd con l’identificativo
Gente a Sud. I protagonisti sono
Raoul Gagliardi, chitarra elettrica, Carlo Cimino, contrabbasso e Maurizio
Mirabelli, batteria. Una combinazione dalla struttura standardizzata ma dalle
sonorità accattivanti, certamente ben definite, che dispiegano colori solari e
armonie facilmente assimilabili. Nove tracce confezionate con gusto ed
equilibrio nel tentativo di esprimere una sfaccettatura jazz che in qualche
modo si delinea nell’interplay che i tre riescono ad instaurare e negli intervalli
lasciati all’estro dei singoli che risultano abilmente collocati nell’ambito
delle strutture dei brani. Melodie circolari, ostinati dai ritmi danzabili,
affidati all’espressività della chitarra elettrica di Gagliardi e
contrappuntati dal costante e redditizio lavoro del contrabbassista Cimino. Lo
strumento acustico acquista una identità esclusiva accostato alla sei corde
elettrica e la formula risulta felice e azzeccata per l’intero trio che ha nel
percussionismo puntuale di Mirabelli l’ottimale completamento del mosaico
strumentale. Altro dato che caratterizza la cifra stilistica degli Amanita è il
richiamo, o per meglio dire, la ripresa e quindi la riproposizione, di ritmi
della cultura popolare del sud italia. Il trio riesce a fondere insieme moderne
geometrie jazzistiche con ritmi etnici e l’ascolto dei brani risulta gradevole e
fruibile senza troppo impegno. Ciò accade per tutte le nove tracce tra le quali
mi piace segnalare la danzante “Brugal”, la suggestiva “Arance Rosse”, la
pulsante “Gente a Sud” da cui prende il nome l’intero cd e l’originale versione
di “Centro di Gravità Permanente” pescata nel soogbook di Franco Battiato e
riproposta con gusto e attinenza all’intera produzione.
Il sassofonista Tony Malaby si concede una
pausa compositiva e ripone attenzione ad alcuni brani del sue passate
produzioni. Di queste ne sceglie sei affidandone la riscrittura degli
arrangiamenti alla pianista Kris Davis. Nasce così questo Novela che il musicista originario dell’Arizona, oggi newyorkese
d’adozione, interpreta al soprano e al
tenore con la stessa Davis al pianoforte, John Hollenback alla batteria e con una corposa
sezione di fiati che vede affiancati: Michael Attias, sax alto; Andrew Hadro, sax baritono;
Joachim Badenhorst, clarinetto basso; Ralph Alessi, tromba; Ben Gerstein,
trombone. Sei riproposizioni che ridanno linfa nuova a brani già di per se di
alta fattura. Ma quello che più colpisce in queste reinterpretazioni sono la
varietà delle trame musicali, i continui mutamenti d’atmosfera e le strutture
articolate dei brani che alternano momenti lirici caratterizzati da interventi corali dei fiati, tensioni d’avanguardia,
geometrie da big band e suggestivi ambient bandistici in varie occasioni sfaccettate
da umori circensi. In tutto questo risalta in modo preponderante il lavoro
svolto dai fiati il cui front-line è l’elemento caratterizzante l’intera
produzione, opposto ai contrappunti vigorosi espressi dagli interventi al
pianoforte della Davis che a giudicare dal risultato finale ha saputo assolvere
in modo ottimale all’incarico affidatogli da Malaby. Questi, dal canto suo, da,
ancora una volta, ampia dimostrazione della sua identità jazz nonché della
variopinta gamma tonale del suo layout fiatistico: viscerale, intenso,
dirompente e dialettico, qui come non
mai impegnato com’è a confrontarsi con un nutrito quintetto di fiati. Arduo
descrivere a parole l’ampio mosaico architettato dalla Davis per questa
rilettura dando atto anche del prezioso contributo ritmico e fantasioso che
Hollenback si inventa in una circostanza che lo vede orfano di un
contrabbassista. Un’opera assolutamente da ascoltare per l’immensa
essenza jazz di cui è intrisa.
Arriva
dall’Islanda la pianista Sunna Gunnlaugs in trio con Þorgrímur Jónsson al
contrabbasso e Scott McLemore alla batteria per una produzione in cui sembra
voler ricapitolare quanto metabolizzato musicalmente in questi ultimi anni.
Dalle esperienze in America nell’area newyorkese a un certo modo di concepire
il jazz in Europa con riferimento privilegiato per il sound Ecm non
dimenticando gli elementi propri della cultura musicale popolare della sua Islanda.
Quello che ne viene fuori è una selezione di dieci brani dalle strutture
preordinate e dalle sonorità raffinate contraddistinte da ritmiche mai incalzanti,
tipicamente da ballad. Si apprezza il pianismo della Gunnlags dall’espressività
pronunciata e dalle geometrie cangianti sempre dialogante con gli altri due
componenti il trio in un interplay fitto e in perenne relazione con una sezione
ritmica che sa costruire sequenze temporali intrise di una densa musicalità. Jónsson
al contrabbasso si mostra in grado di tracciare fraseggi armonici piacevolmente
articolati mentre McLemore sa ispessire con gusto e notevole sensibilità i
passaggi più intensi dell’intera selezione. Tutto scorre con fluidità alternando giochi di
contrappunti e melodie dai risvolti struggenti in un ambient che a volte
evidenzia una sfaccettatura tipicamente jazzistica altre volte delinea i
contorni di partiture che potrebbero essere state composte a sostegno di
ipotetiche sequenze filmiche. Numerosi gli episodi che meritano una citazione e
che elevano il livello qualitativo dell’intera produzione a partire dalla
iniziale title track, dal fraseggio elegante e cantabile, passando per la
jazzistica “Crab Canon” e per la struggente "Fyrir Brynhildi" intrisa di umori folk e
non dimenticando le sottili sfaccettature liriche delle successive “Safe from
The World” e “Not What But How. Da gustare un po’ alla volta, ascolto dopo
ascolto.
Appare intrisa
di un’espressività indefinibile la musica di questo cd firmato dal batterista
romano Carlo Costa, oramai da anni cittadino di Brooklyn, in New York. A
rivelarlo sono già le prime note di Saturnismo
produzione discografica realizzata con il trio Minerva che include il pianista
JP Schlegelmilch e il contrabbassista Pascal Niggenkemper. Già dalla prima
traccia, che prende il nome dal titolo dell’intero cd, si avverte l’intento del
combo di non dileguarsi per vie usuali e così
il percorso si fa frastagliato
tra cambi di tempo e climi, con accenni a possibili esercizi armonici o a improvvisi
contorsioni dinamiche. Costa esprime un drumming elegante e fluido
contrappuntando i fraseggi di Schlegelmilch al pianoforte e i sollazzi inventivi
di Niggenkemper al contrabbasso. “Dream Machine” numerata come quarta traccia
della selezione è ritmicamente meccanica, oscillante tra minimalismi e
ostinati, il pianoforte traccia colori acquatici sul tappeto setoso liberato
dall’archetto del contrabbasso; “Let’s Go I Don’t Know” ci regala umori free bop mentre
“Plateau” sembra tracciare un percorso luminoso in un pentagramma grigio. Poi
arriva “Nocturnal Patterns” persa in un oscuro universo denso di frammenti
sonori che si intersecano senza mai sovrapporsi, intervallate da pause
silenziose o appena sussurrate. Si ricompone il tutto negli ultimi tre episodi di cui segnalo in
particolare “Moth” dalle dinamiche essenziali e dal lessico sofisticato pur aderente
a un ambito caratterizzato da un’essenza di sobrietà che non viene mai meno e
che sembra pervadere l’intero cd. Tre musicisti il cui linguaggio è certamente
influenzato dai luoghi in cui essi operano tra mille stimoli e fermenti
innovativi che in questa esperienza discografica sembrano voler filtrare
attraverso una cultura musicale europea che Costa e Niggenkemper si portano dietro
perché entrambi provenienti dal vecchio continente. Qui incontrano la caratura
jazz a stelle e strisce di Schlegelmilch pianista che pur suonando jazz non ha
mai rinunciato agli studi classici sullo strumento. Il mosaico che ne
scaturisce brilla per originalità e per l’esclusiva identità e nel contempo affascina
perché imbevuto di una costante attività di ricerca che i tre perseguono
incondizionatamente.
La OutNow Recordings è una giovane etichetta
discografica nata per l’impegno di tre musicisti israeliani: Il sassofonista
Yoni Kretzmer e i chitarristi, Yair Yona e Ido Bukelman. Un’etichetta pensata
per dare voce alla musica jazz improvvisata e d’avanguardia. Tra le prime
incisioni che sono state immesse sul mercato discografico nell’ultimo trimestre
del 2011 c’è questo eccellente album che affianca il batterista Ehran Elisha al
più noto trombettista newyorkese Roy Campbell. Una registrazione datata ottobre
2008, realizzata a Brooklyn, NY, dal titolo singolare che rivela, ancor prima
dell’ascolto, l’essenza dell’incisione. Guardando
i cartoni con Eddie, questa la traduzione in italiano, è chiaramente
ispirato al compianto batterista Ed Blackwell e ai suoi duetti con Don Cherry e
Wadada Leo Smith nonché alla sua predilezione per cartoni animati che Elisha
conosce bene per essere stato allievo proprio di Blackwell. L’apertura
evidenzia un ambient di puro free bop giocato su un fitto interplay fra i due
protagonisti con la tromba di Campbell fortemente espressiva intrisa di grande
passionalità e con il drumming di Elisha intenso, fantasioso e grondante di
musicalità. La terza traccia “For BD” dedicata al grande Bill Dixon è una delle
parentesi più interessanti di tutto il cd, i due musicisti ricreano climi e
sonorità molto vicine a quelle del grande maestro ma anche la struttura
articolata del brano, la sua durata e il complesso layout che definisce, denotano
la condivisione di idee con Dixon. Le
fasi successive del cd rivelano una sfaccettatura più scarna del linguaggio
jazz del binomio Campbell-Elisha, le atmosfere si fanno più africaneggianti e
tribali: la lunga “Aesthetic Encounters” (part.1) è ipnotica, sembra scandire
le fasi di un rito propiziatorio mentre con “The Dizzy Roach” il duo rende omaggio
al grande Gillespie. Gli ultimi due episodi rilasciano tutto il potenziale free, denso di frenesia
ritmica che pervade il duo, accade in “Faith Offers Free Refills” , contrapposto
a un momento di introspezione acquiescente, quale è “October”. Un album frutto
di una collaborazione di due decadi tra Campbell ed Elisha che si colloca tra
le produzioni più stimolanti di questi ultimi mesi e che, anche se ispirata a
grandi musicisti di un recente passato, evidenzia un’identità propria e di
assoluto valore.
In tre: Matt Renzi, sax, Stefano Senni, contrabbasso e Jimmy
Weinstein, batteria, si sono ritrovati nello studio di registrazione di
quest’ultimo, a Padova, il 12 ottobre 2010 per una session tra musicisti
abituali frequentatori della scena jazz più creativa. Una session che non
anticipava una relativa produzione discografica che invece a sorpresa oggi ci
ritroviamo disponibile tutta improntata su un’oralità estemporanea tra
musicisti che trovano un ispirato interplay in quella che di fatto è
un’articolata suite divisa in quattro parti. E’ Renzi a tracciare le coordinate
di un percorso espressivo variegato in cui il suo sax assume toni e dinamiche
cangianti sempre contraddistinte da un’intensità di fondo che lascia trasparire,
a tratti, una liricità suadente e passionale a cui si contrappone in altri
momenti una visceralità nervosa. Questi elementi attraggono in primo luogo i
due suoi compagni di viaggio, Senni e Weinstein, che convergono il loro apporto
sintonizzandosi sulla stessa lunghezza d’onda del sassofonista. E’ cosi che il
combo appare sin dalla prima traccia “First Story” che si consuma proprio con
il definirsi di questa sinergia e ciò si avverte con chiarezza nella parte
centrale del brano quando l’intreccio delle tre componenti strumentali si
mostra magnificamente bilanciato e armonizzato. In “Second Story” l’ambient si
fa ipnotico, i fraseggi sinuosi del clarinetto, che Renzi alterna al sax tenore,
sono contrappuntati da una sezione ritmica per nulla ammaliata dalle
inflessioni conturbanti dello strumento a fiato; c’è un’ interazione iperattiva mista a fantasia, da parte del duo, da cui prende vita
successivamente un ostinato di contrabbasso e un solo di Senni. La seguente “Third
Story” esordisce con un tema danzante intriso di una velatura etnica che via
via lascia il posto ad una improvvisazione sempre più densa di ritmiche
ostinate con parentesi rarefatte in cui si definiscono dialoghi a due che riportano in primo piano le tendenze
avanguardistiche dei tre protagonisti forse qui un po’ intimorite dall’
architettura totalmente estemporanea della performance. Ed è in questo contesto,
così come nella quarta ed ultima traccia, che sopravviene una qualche
ripetitività di frangenti già dipanati nelle tracce precedenti. Aspetti quest’ultimi
certamente inevitabili, quando tutto nasce in modo spontaneo e in relazione ad
un evento improvvisato, e che, comunque, non sminuiscono la bontà delle 4 Stories narrate.
L’etichetta
nusica.org è una nuova realtà del panorama musicale italiano che nasce con
obiettivi alternativi. Visitando il relativo sito si ha un’idea ben precisa di
quella che è una sorta di mission prefissata dalle varie attività e che nei
fatti è poi il vero scopo per il quale l’idea ha preso consistenza. Uno dei
primi obiettivi è condividere e diffondere sulla rete le produzioni
discografiche (disponibili comunque anche per l’acquisto in formato cd) dei
vari musicisti che scelgono di operare secondo questi dettami. Così è accaduto
per la produzione n.1 dal titolo Solitario firmata dal bassista Alessandro Fedrigo. Dodici brani per basso acustico incisi e
resi liberamente disponibili per l'ascolto e per il download dalla rete, in formato compresso,
sul sito dell’etichetta. Un vero e proprio studio approfondito, come precisa lo
stesso autore nelle note di promozione, sugli aspetti polifonici della chitarra
basso acustica senza tasti. Dei dodici brani vengono resi fruibili su un
apposito link , le relative partiture nonché l’analisi dei pezzi. Il lavoro è
schematicamente divisibile in tre ambiti diversi infatti ci troviamo di fronte
a cinque composizioni originali firmati da Fedrigo ai quali si
aggiungono le personalissime interpretazioni di quattro arcinoti standard jazz
nonché tre libere improvvisazioni. L’ascolto dei dodici episodi è un’esperienza
assolutamente gradevole, Fedrigo libera dalla sua chitarra basso fraseggi
lirici e contrappunti ritmici che
ridisegnano una tavolozza sonora dalle innumerevoli colorazioni tonali.
Un sound intrigante godibile per i suoi raffinati risvolti armonici restituiti
con originalità e senza inutili ostentazioni virtuosistiche. Molti i momenti
intensi e i passaggi struggenti durante l’ascolto della selezione dei dodici
brani inclusi nel progetto: come non evidenziare, ad esempio, la riuscita
riproposizione di “Autumn Leaves” con l’analitica esposizione del tema, le
alternate pause soffuse, le riprese scandite con la dovuta prontezza, le
parentesi improvvisate, i brevi riff mai ostinati oltre il dovuto; e come non
percepire l’alone malinconico della stagione autunnale nel delicato tema della
successiva “Novembre”; c’è poi l’aspetto minimalista della poetica di Fedrigo
riscontrabile ad esempio in “Improvvisazione n.1” dove il musicista opera in totale
simbiosi con lo strumento; impressiona anche la sua capacità di articolare in
un unico brano gli episodi cangianti di un brano come “Acquaforte”. In questi ricorrenti ambiti si
sviluppa l’intero cd che ci rivela un musicista di grande sensibilità espressiva.
Un cd che inaugura con i migliori auspici l’attività dell’etichetta nusica.org,
un progetto di notevole spessore culturale è artistico fortemente innovativo e
di grande aiuto per la diffusione della musica di qualità.
Un trio tutto siciliano quello che ha realizzato questo godibilissimo Urban Fabula: Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone al contrabasso e Peppe Tringali alla batteria. Tre musicisti che uniscono capacità strumentali ad una attitudine alla scrittura semplice ma articolata che da luogo a una manciata di composizioni che definiscono uno standard qualitativo veramente apprezzabile. Otto le composizioni originali, cinque scritte insieme dal trio, una in solitudine per ognuno dei tre. Completano la selezione due standard immortali per la storia del jazz: “Round Midnight” e “On Green Dolphin Street” di cui forse, a mio parere, si sarebbe potuto fare a meno vista il livello qualitativo delle composizioni originali e tenuto conto che si tratta di due standard già ampiamente ripresi. In definitiva i dieci titoli tracciano un percorso variegato in cui risalta l’urgenza espressiva di Seby Bugio, pianista dotato di una tecnica superlativa, fulmineo nel tracciare geometrie vorticose sulla tastiera. Ma i suoi interventi in tutto il disco non sono solo dirompenti, lui sa disegnare delicate melodie come in “Someday my prince will chat” cesellare contrappunti inappuntabili con il suo pianismo ricco di forza espressiva e frenesia. E’ una gran bella scoperta per chi come me non lo conosceva, tanto quanto Alberto Fidone contrabbassista elegante e discreto che ama usare l’archetto nei tratti più lirici di alcuni brani ma anche in altri ambiti come accade in “La Marcia dell’ultimo Moschettiere”. La sua cifra stilistica è pregevole per un’innata compostezza e relazione costante con il resto del trio. Equilibrato e puntuale con il suo drumming, Peppe Tringali completa il trio con un incedere brioso e un pizzico di fluorescenza grazie all’ampio uso dei piatti, ascoltatelo nell’intro di “Albori all’imbrunire”. Il trio predilige gli scatti brucianti, i cambi di ritmo, le brevi riflessioni, i temi sottilmente cantabili e non disdegna gli ostinati; gli otto brani originali sono un campionario di questi elementi, un hard bop europeo che oscilla fra tradizione e contemporaneità.
Per nostra fortuna l’iperattività musicale di Rob Mazurek ha prodotto, almeno fino ad ora, lavori di indubbia validità, vuoi per l’eclettismo che contraddistingue il trombettista e i musicisti che di volta in volta lo affiancano, vuoi per la capacità di proporsi in contesti sicuramente originali. Questo di cui ci occupiamo oggi è un’altra ventata di frizzante musicalità che si aggiunge, a quella espressa con il magnifico Calma Gente e come quest’ultimo nasce in quella che può definirsi la seconda patria per questo trombettista ovvero il Brasile. Ed è proprio con musicisti brasiliani, i São Paulo Underground, di cui lo stesso Mazurek è componente, che è stato inciso l’album: Mauricio Takara,cavaquinho, batteria, percussioni, elettronica, voce; Guilherme Granado, tastiere, loops, samplers, percussioni, voce; Richard Ribeiro, voce, batteria. A loro vanno aggiunti: Kiko Dinucci, chitarra, voce; Jason Adasiewicz, vibrafono; John Herndon, batteria; Matthew Lux, basso. Gli ultimi tre presenti solo in alcuni brani, il loro coinvolgimento è il trait d’union con quanto viene prodotto da Mazurek a Chicago. Il cd appare percorso da una incalzante frenesia ritmica, Mazurek e l’entourage brasiliano definiscono un layout che unisce ritmo ed elettronica a cui si aggiungono riff accattivanti di immediata assimilazione. All’ascolto si materializzano echi del grande Sun Ra e si rafforza la certezza che la costante attività di ricerca del trombettista chicagoiano unita ad una vena creativa esclusiva ne fanno uno dei paladini più interessanti del nuovo jazz. Ed ecco che all’ascolto fluiscono una dopo l’altra le accattivanti armonie ritmiche di “Jagoda’s Dream” e “Carambola”; le conturbanti atmosfere di “Colibri”; le ruvide sonorità di “Pigeon”; gli schiamazzi ritmici di “Just Lovin”. C’è un ampio uso di strumenti elettronici, di vocalità filtrate. La cornetta di Mazurek è protagonista in ogni ambito, ostinata nei riff, ma sempre illuminata da una singolare identità identificativa. Nel finale il combo decide di mettere da parte un po’ delle diavolerie elettroniche fin qui impiegate per dare spazio al vibrafono di Adasiewicz, alla batteria di Herndon e al basso elettrico di Lux ridefinendo così un sound più americano con “Six Six Eight” e ribadendo che non si dorme sugli allori nemmeno nell’ambito dei trentotto minuti e più di Trés Cabeças Loucuras.
Due trombettisti: Nate Wooley e Taylor Ho Bynum, quest’ultimo alla cornetta, sono i titolari di questo cd realizzato in quartetto con una sezione ritmica tra le meglio assortite: Ken Filiano, contrabbasso e Thomas Fujiwara batteria. Post bop, nello svolgersi delle dieci tracce di cui si compone l’opera, più volte trasmutante in free bop, un groove urbano da metropoli africana e una vocalità variegata, espressiva della personalità dei due protagonisti ai fiati. Entrambi prestigiosi, vincenti già nelle loro private produzioni, prolifici e aperti a linguaggi a volte anche esasperati, in prima linea nell’assegnare alle loro trombe ruoli portanti e ambiziosi senza dover ricorrere a scontate emulazioni. Wooley ama le ariosità definite nei suoi fraseggi ma non disdegna esagerare con azzardi timbrici; Ho Bynum colleziona sonorità strascicate e ironiche, la sua cornetta a volte scoppietta a mo’ di pernacchia ma l’estro è grande e la visione, di un jazz d’avanguardia, immensa. Le sue frequentazioni dell’entourage di Braxton sono state fondamentali e hanno lasciato il segno. Se a due musicisti così fatti affianchi la sezione ritmica sopra descritta hai fatto centro: Ken Filiano ha mille frecce al suo arco, e la frase fatta mai come in questo caso è adeguata, dal suo contrabbasso promuove ritmo propulsivo ma quando impugna l’archetto denuncia i suoi trascorsi con il mastro Dixon ed eleva la scrittura e l’improvvisazione a livelli eccelsi. E che dire di Thomas Fujiwara raffinato batterista di cui ho già scritto a proposito del suo Actionspeaki dettagli del suo drumming incantano. Varia l’entità della sua presenza sulla scena con grande sensibilità musicale. Basta ascoltare “Narrows”, una delle perle di quest’opera, per meravigliarsi dell’ingegno jazzistico dei quattro: ambiti cameristici e dialoghi free tra i due fiati, una sorta di narrazione sonora e interattiva dai mille intrecci. E poi “Ish” che inizia quasi fosse una nenia con i due fiati in corale e poi evolve inaspettatamente in una dirompente e frenetica improvvisazione. E come non citare i quattro duetti i cui ogni protagonista si produce a turno in un interplay esclusivo con gli altri tre: totale libertà e piacevoli intuizioni.
Muffathale di Monaco, 20 dicembre 2009 è in scena il progetto Winter Sun Crying composizione in dialogo tra un insieme di musicisti dell’avanguardia jazz. Protagonisti : William Parker, contrabbassista newyorkese, esponente di spicco della downtown e l’ICI Ensemble formazione europea che opera dal 1999 da sempre orientata alla stretta collaborazione con musicisti di primo piano nell’ambito dell’improvvisazione jazz. Quindici brani nella descrizione riportata sul retro della copertina per quella che di fatto è una suite di ben 62 minuti e 56 secondi interpretata da una band di 10 musicisti che comprende oltre al già citato Parker (double-bass, piccolo, trumpet, shakuhachi, double reeds) i teutonici: David Jager, soprano & tenor saxophones; Roger Jannotta, alto saxophone, piccolo, flute, clarinet; Markus Heinze, baritone & tenor saxophones; Christofer Varner, trombone, sampler; Martin Wolfrum, piano; Johanna Varner, cello; Gunnar Geisse, laptop & laptop guitar; Georg Janker, double-bass e Sunk Poschi, drums. L’ascolto del cd è come un viaggio attraverso una galassia di suoni e interazioni assolutamente incantevoli. Un continuo sorprendersi per come questi musicisti riescono ad interagire creando dialoghi dalle varie sfaccettature timbriche. Un avvicendamento di climi e atmosfere che non ti aspetti. Un susseguirsi di attività vulcanicamente in ebollizione, luci e colori mutanti, percorsi labirintici apparentemente senza sbocchi che assumono traiettorie imprevedibili in un’incessante fluidità temporale e dialettica senza alcuna ripetitività. Si intravede dietro tutto ciò una sorta di intelaiatura di fondo un’accennata progettualità da svolgere in una condizione di un’assoluta oralità. L’improvvisazione è il sale essenziale di un’opera certamente unica che si aggiunge al carnet delle collaborazioni già attuate dall’ICI Ensemble con musicisti quali Vinko Globokar, Giancarlo Schiaffini, Pierre Fabre, George E. Lewis ed Evan Parker, solo alcuni dei tanti, i più noti. Un’opera che definisce il potenziale espressivo e la sintesi che può derivare dalla collaborazione di musicisti europei ed esponenti dell’avanguardia d’oltreoceano. Da ascoltare e riascoltare fino a superare un apparente aspetto ostico che un primo approccio potrebbe falsamente evidenziare. Imperdibile.
Dopo Paul
Motian ci ha lasciati anche Sam Rivers, tempi tristi per noi cultori del jazz
più creativo e libero. La notizia è arrivata ieri mentre tutti eravamo ancora
in qualche modo alle prese con i postumi della festività natalizia e a tarda
sera mi sono limitato a twittare un mesto goodbye e un sentito R.I.P. Oggi sul
mio ipod ho in play uno dei suoi capolavori: e’ Paragon album registrato al Davout Studio di Parigi il 18 aprile
del 1977, di cui esiste una sola versione in vinile della Fluid Records, ormai
fuori stampa. Rivers è stato uno dei grandi esponenti del free jazz, la sua infanzia
a Chicago, figlio di cantante e di una pianista, ne hanno plasmato la
personalità di musicista insieme agli studi in una alta scuola cattolica sempre
in quella città. Intorno ai vent’anni, era nato il 25 settembre del 1930,
approda a Boston dove successivamente diventa insegnante presso la Berklee
School. Poi il suo trasferimento a New
York, la sua tournèe con Miles Davis nel 1964 e via di seguito il sodalizio con
Cecil Taylor e l’attività con lo studio Rivbea, nel 1973, in un loft di NewYork coadiuvato
dalla moglie Beatrice. Da qui in poi sarà tutta un’ascesa nell’olimpo dei più arditi
esponenti del free e nel 1978 questo lp con Dave Holland, basso e cello, Barry
Altschul, batteria e percussioni. Lui si alterna, da vero pluristrumentista, al
sax soprano e tenore, flauto e pianoforte. La prima traccia “Ecstasy” è nervosa,
permeata da un’urgenza espressiva dirompente, il trio è impegnato in un
interplay fitto dove ogni passaggio ha una sua logica costruttiva ed evolutiva
verso un flusso libero lasciato all’inventiva del protagonista. Poi il minuscolo tema si ripropone imbevuto delle
declinazione improvvisate del leader. “Bliss”, di seguito è piatta quasi
strascicata con Rivers al flauto e Holland al cello. Cameristica e grigia
disegna una melodia indefinita, fragile e del tutto insipida, appena arricchita
dalle bolle cromatiche-percussive di Altschul. Con “Rapture” il clima torna
frenetico, Rivers sembra sfuggire ai suoi compagni fin quando arriva l’assolo,
breve ma intenso, di Alschul: fluorescenti, fluidi e contorti così si
percepiscono i tre nel finale del brano. Fin qui la side A del 33 giri mentre nella
prima delle due tracce della side B il leader è al pianoforte con l’ombra
appena percettibile di Taylor dietro. Splendido il suo confrontarsi alla
tastiera con la frenesia della coppia ritmica. L’ultima traccia, che da il
titolo all’intero lp, traccia nel contempo il tratto espressivo e la filosofia
free del sassofonista, il suo jazz è frutto di un 'attività di ricerca non è
il free votato all’oralità sfrenatamente estemporanea di altri esponenti del
genere. “Paragon” in chiusura è mutante, frastagliata, cangiante nei ritmi e
nel climax, avanguardia e libertà strutturata e grande passione. In questo brano finale lui è impegnato ai sax, al flauto e al piano incise singolarmente e poi sovrapposte in sede di missaggio. Indimenticabile e indiscutibilmente insostituibile nella storia del jazz, cosi è stato
e sarà per sempre Samuel Carthorne Rivers.
Sarebbe riduttivo collocare esclusivamente in ambito jazz il trio formato da Joachim Badenhorst, bass clarinet, clarinet e tenor sax, Frantz Loriot, viola e Pascal Niggenkemper, contrabbasso, perché si tratta di musicisti che pur esprimendosi attraverso una dialettica prettamente jazzistica caratterizzano il loro linguaggio con sonorità molto vicine alla musica da camera e con una costante enfasi creativa d’avanguardia. Badenhorst, belga, è membro del trio del celebre batterista Han Bennink e attualmente fa anche parte dell’ensemble “Novela” del sassofonista Tony Malaby di cui è appena uscito l’omonimo album. Loriot, franco-giapponese, ha militato nei gruppi di musicisti come Joelle Léandre, Barre Philips, David S.Ware e Anthony Braxton. Niggenkemper, franco-tedesco, è uno dei membri del trio HNH che ha dato alle stampe l’omonimo cd; è componente del quartetto che ha inciso il pregevole Polylemmaed è titolare dello splendido Upcoming Hurricane dove è affiancato da due esponenti della downtown newyorkese: il pianista Simon Nabatov e il batterista Gerard Cleaver. Questo recente Fremdenzimmer, inciso per la intraprendente etichetta portoghese Clean Feed, è firmato “Baloni” nome assunto dal trio unendo le prime due lettere dei loro cognomi. Si tratta di una produzione di grande valore: un misto di originalità e azzardo che premia la ferma volontà del trio di uscire da canoni espressivi già conosciuti. L’iniziale “Lokomotive” è il biglietto da visita del trio, un brano fluido, in continua metamorfosi con i tre musicisti in piena simbiosi interattiva: i tre strumenti sembrano muoversi in assoluta assonanza sonora. Niggenkemper, come fa spesso, usa in prevalenza l’archetto, i suoni si mescolano, si sovrappongono e poi ancora si evidenziano con analiticità. In “Searching” traccia n.3 delle 11 contenute nel cd c’è un dialogo elaborato anche sul versante delle sonorità tra i fiati e la viola con il contrappunto del contrabbasso; frazioni di studio si alternano ad altre imbevute di leggera tensione in un crescendo vibrante di sottile armonia e ritmo. I toni gravi che sopraggiungono spengono i timidi raggi di luminosità poco prima avvistati e l’atmosfera si fa rarefatta con il sopraggiungere di “Torsado” che vede in primo piano la viola di Loriot. Il solo del franco-giapponese è impregnato di grande partecipazione emotiva, l’archetto preme con violenza sulle corde mentre contrabbasso (con l’archetto) e fiati si affiancano con un ciclico giro armonico. Il clima dell’intera produzione si realizza in questa dimensione di ricercata attività improvvisativa e lo si scopre andando avanti nell’ascolto: Badenhorst, Loriot e Niggenkemper ricercano l’assoluto orizzonte di un'ideale commistione tra le varie essenze della musica contemporanea e riuscire a percepirne i contrasti, le affinità e le possibili sintesi per poi riproporle nella dimensione temporale e definita di una produzione discografica è sicuramente di grande merito. Stridulo, delicato, tempestoso ma straordinariamente unico e affascinante: questo è Fremdenzimmer.
Chi frequenta abitualmente questo blog avrà senz’altro notato che la pianista Satoko Fujii è una delle mie artiste preferite, sono parecchi gli album che la riguardano che io ho già recensito. Apprezzo la sua creatività, la visione ampia del concetto jazzistico che lei promuove, la promiscuità dei suoi progetti, il suo sapersi confrontare e rendersi disponibile anche in collaborazioni dove non risulta impegnata in prima persona. E poi ci sono le orchestre, vere e proprie big band disseminate in quattro città diverse: Kobe, Nagoya, Tokio e New York. Con quest’ultima la Fujii ha di recente realizzato il cd Eto che prende il nome dallo Zodiaco cinese a cui l’intero lavoro è ispirato, un lavoro nato nell’anno in cui il suo compagno, Natsuku Tamura, trombettista al suo fianco anche nelle esperienze artistiche, ha compiuto sessantenni, un’età il cui raggiungimento è considerato in giappone di buon auspicio e che da luogo ad una celebrazione chiamata Kanreki. Ben 17 le tracce presenti di cui 14 brani costituiscono la suite che prende il nome dal titolo dell’album ovvero un’overture e un epilogo uniti da 12 brevi brani scritti dalla Fujii riferendosi ai 12 animali che rappresentano gli altrettanti segni dello zodiaco cinese. In ognuno di questi brani è stato riservato uno spazio per il solo di ognuno dei dodici fiati coinvolti nell’orchestra newyorkese. Con la Fujii sono infatti partecipi ben altri 14 musicisti: Noriega, Krauss, Eskelin, Speed, Laster, sax; Ballou, Robertson, London e Tamura, trombe; Hasselbring, Sellers, Fiedler, tromboni, Takeishi, basso, Alexander, batteria. L’apertura della selezione è con il brano “The North Wind and the Sound” dai toni gravi e dall’incedere pomposo, ricco di cambi di tempo e variegate trame musicali spesso in crescendo con in grande evidenza i fiati. Poi la sezione ritmica introduce l’overture della suite ed è tutto un susseguirsi di una miriade di esclamazioni sonore che prendono forma e interazione. Il variegato e affollato frontline dei fiati si esprime evidenziando le singolari e specifiche individualità in rapporto con l’interezza dell’orchestra. I bozzetti si susseguono uno dopo l’altro: “Rat” evidenzia il solo di Speed che zigzaga fulminante con il pianoforte della leader; “Ox” è un’immagine leggera e vellutata illuminata dal trombone di Sellers, lirico e in crescendo, supportato dall’intera band; riff funkeggianti introducono il solo di Eskelin in “Tiger”; in “Dragon” il trombone distorto di Hasselbring trascina, sullo stesso ambient sopra le righe, gli altri fiati; e poi Tamura in “Snake” rompe ogni indugio, ogni limite ipoteticamente possibile. Il suono della sua tromba e l’articolazione dei suoi interventi esprimono estro e provocazione. In quest’ambient newyorkese dove il combo elabora le sue idee viene fuori la tipicità unica di un linguaggio indefinibile gestito con una ampia e lungimirante concezione dalla pianista giapponese. Al di là di geometrie, anche in questo caso rispettose delle tradizioni delle big band, ma imbevute di intuizioni visionarie, si materializzano in questo lavoro nuovi stimolanti orizzonti per il jazz interpretato da formazioni allargate.
Risiedono a Brooklyn, N.Y., ma sono europei: Joe Hertenstein, batteria e Thomas Heberer, tromba, dalla Germania; Pascal Niggenkemper contrabbasso, franco-tedesco; Joachim Badenhorst clarinetto basso, belga. Dalla loro intensa attività oltre oceano è nato il trio HNH, dalle iniziali dei primi tre, e anche l’omonimo e interessante album per la Clean Feed. Con l’aggiunta di Badenhorst, voluto da Hertenstein, leader di entrambe le formazioni, il trio, divenuto quartetto, ha inciso questo Polylemma, raffinato e ricercato lavoro in bilico tra ambiti strutturati e libere architetture. Otto composizioni divise a metà tra Hertenstein ed Herberer per tracciare una sorta di free bop a tratti imbevuto di fraseggi swing e sinuosità avvolgenti altre volte intriso di una dialettica d’avanguardia dai toni rarefatti e da un ambient cameristico. In primo piano il fluire e l’intersecarsi delle vocalità dei due strumenti a fiato, tromba e clarino, supportati da una vibrante poliritmia che esalta le doti del duo Hertenstein-Niggenkemper, con il primo impegnato a nutrire la performance con un drumming intenso e mutante, mai slegato dalle dinamiche in atto e soprattutto mai in secondo piano. Niggenkemper, di cui è stato recensito qui il recente Upcoming Hurricane non è da meno con il suo puntiglioso contrabbasso e non disdegna anche in questa occasione di dare ulteriore prova della versatilità del suo strumento. La selezione si sviluppa su due binari paralleli, rispecchiando la diversa metodologia compositiva di Hertenstein e Herberer: da una parte una irrinunciabile ricerca di armonia e una modularità che delinea una struttura definita dei brani; dall’altra la conservazione di una tensione interattiva, di un dialogo nudo, non necessariamente strutturato, ma orale. La successione dei brani è stata opportunamente finalizzata a creare un alternarsi di questi ambient, allo scopo di evidenziare la natura del progetto fortemente creativo e impregnato dei fermenti innovativi dei luoghi in cui i quattro protagonisti operano.
Il 2011 sembra essere l’anno delle ristampe importanti nella discografia jazz, ristampe di album essenziali e nel contempo introvabili. Come già accaduto per Intents and Purposes riproposto qualche mese fa e qui recensito, adesso è il turno di Dogon A.D. del sassofonista Julius Hemphill. Stessa etichetta l’ International Phonograph Inc. e stessa presentazione, in forma ridotta ma in rigido e lucido materiale cartonato, di quello che era il contenitore del prezioso vinile pubblicato nel 1972 dalla casa discografica MBARI Records, di cui era proprietario lo stesso Hemphill, che però conteneva solo tre della quattro tracce a suo tempo registrate in uno studio di ST. Louis nel Missouri. Mancava infatti nell’originale lp il brano “The Hard Blues” che poi fu inserito nel successivo album di Hemphill Coon Bid’ness inciso per l’Arista / Freedom Records nel 1975. Ricompattata quindi l’originale opera, in questa riedizione, ispirata al popolo Dogon, tribù dell’Africa localizzata nel territorio della repubblica del Mali, e alle loro danze rituali che a volte venivano riviste nella loro forma e adattate ai gusti dei turisti occidentali, da qui il sinonimo AD. Questi i riferimenti antropologici, mentre relativamente al linguaggio jazz che -Hemphill al sax e al flauto, Baikida J.E. Carroll, tromba, Abdul Wadud, cello e Philip Wilson, batteria- mettono in gioco ci troviamo di fronte ad un formula del tutto singolare per la capacità di compattare elementi be bop e hard bop, blues e soul-funky tenendo anche in debito conto i fermenti della new thing in piena evoluzione in quegl’anni. L’iniziale “Dogon A.D.” che da il titolo all’album presenta un ostinato riff dagli accenti funky, scandito dal violoncello e dalla batteria e contrappuntato dai fiati, sul quale si libera l’intensa improvvisazione del leader dai forti umori soul-blues alla quale fa eco quella alla tromba di Carroll, ricca di pathos e di energia debordante. La successiva “Rites” è densa di geometrie free-bop e ritmi frenetici, mentre in “The Painter” l’atmosfera sembra acquietarsi per dare spazio ad una ballata dai toni pacati e riflessivi che evidenzia un ricercato e improvvisato dialogo di Hemphill al flauto con la tromba di Carroll. Si chiude con “The Hard Blues” poco più di venti minuti all’insegna di un blues viscerale e incalzante con l’innesti di improvvisi riff dalla struttura funky. Questi i dettagli della riedizione, per la prima volta in digitale, di un’opera indispensabile per capire la storia del jazz e irrinunciabile per la qualità e la quantità delle intuizioni di chi l’ha concepita. Tenete però in debito conto che la tiratura è limitata a cinquecento copie.
Febbraio 2009, al Village Vanguard di New York si registra il live Lost in A Dream in scena il trio Paul Motian,Chris Potter, Jason Moran. Sarà pubblicato l’anno successivo per la Ecm e sarà presente nelle liste dei migliori album del 2010. Oggi a poco più di ventiquattro ore dalla triste notizia questo live diventa la penultima esperienza discografica di Motian che all’età di ottantanni ha cessato di vivere. Era da tempo che pensavo a un’altra etichetta con cui classificare le impressioni d’ascolto di album non recentissimi, pubblicati ancor prima della nascita di questo mio blog ed oggi do il via a questo genere di post che, più che delle recensioni, sono l’espressione di sensazioni che nascono da un ri-ascolto di album già noti. Lost in A Dream è un album dall’atmosfera soffusa, ricco di sottili melodie a volte appena accennate, quasi sussurrate e arricchite attraverso un dialogo intimo fra i tre musicisti. Straordinariamente lirico, Potter, come poche volte lo abbiamo ascoltato, raffinato e jarrettiano il pianoforte di Moran che appare illuminato da una divinità e poi lui il batterista che ha attraversato la storia del jazz, iniziando al fianco di musicisti come: Thelonious Monk, Coleman Hawkins, Lennie Tristano, Tony Scott e George Russell, proseguendo poi a metà degli anni ’50 accanto all’indimenticabile Bill Evans. E ancora, negli anni ’60, prima con Paul Bley poi con Keith Jarrett, e come non ricordare il sodalizio con Charlie Haden e potrei continuare così a nutrire una lunga lista. Tornando a questo cd, che sto ascoltando mentre butto giù queste righe, lo sento accarezzare i piatti, strofinare i tamburi con le spazzole. Mi affascina il suo personalissimo musicare con la batteria e mi colpisce l’energia quasi free di “Drum Music” un momento out rispetto all’ambient del resto dei brani alla fine del quale Motian presenta i suoi compagni di viaggio, in questa selezione di dieci brani tutti a sua firma tranne il reprise di “Be Careful it’s My Heart” composto da Irving Berlin. Ascoltando oggi questo cd avverto un’ inevitabile alone di tristezza che prima non avevo captato, probabilmente Motian quella sera era già a conoscenza del male che lo avrebbe portato via e sicuramente avrà ancora goduto per quella magica professione di musicista che le consentiva di essere lì in quel tempio del jazz newyorkese. Grazie Mr. Motian per tutto il jazz di questi anni.
La pianista Satoko Fujii vanta nel 2011 la pubblicazione di ben tre album in altrettanti contesti diversi:”Rafale” con il quartetto Kaze, “Eto” con la sua orchestra di New York e questo “Watershed” con il Min-Yoh Ensemble. Quest’ultima produzione è ispirata dalla musica tradizionale giapponese in continuità al percorso intrapreso con "Fujin Raijin", altra incisione con il quartettoMin-Yoh datata 2006. In “Watershed” ritroviamo il fidato Tamura alla tromba, Andrea Parkins all’accordion e Curtis Hasselbring, trombone. E’ un’opera condensata in otto brani ognuno dei quali ha una sorgente tematica tradizionale a volte ben delineata altre volte nascosta tra le pieghe di una rielaborazione strutturalmente stravolta del tema. In questo esercizio di traslazione la Fujii e soci riversano molteplici elementi di culture musicali eterogenee: si va dalla musica classica al jazz d’avanguardia con l’aggiunta, in questa specifica occasione, di armonie tipicamente tradizionali che trovano collocazione tra le intense maglie di un’interazione spesso nervosa fatta di accenti ritmici netti e picchi dirompenti, di un incedere in crescendo ma anche di brevi parentesi caratterizzate da melodie danzanti. Le sonorità rilasciate in questi ambiti contrappongono umori struggenti e irruenze dinamiche, vocalità graffianti e melodie delicate. Il combo ha un’architettura contraddistinta da un amalgama quasi ideale in quanto le timbriche strumentali sembrano incastrarsi e completarsi in una specificità unica, che mette in risalto le doti dei singoli: estroso ed immenso il trombettista Tamura, la vocalità della sua tromba non ha limiti nel suo dimenarsi tra fraseggi delicati e lamentevoli elucubrazioni; genialità poco comune quella della Fujii, il suo pianismo è una sorta di manuale da assimilare ascolto dopo ascolto per capire dove può arrivare la sua personale sintesi lessicale; esemplare, la Parkins, per come inserisce le peculiarità armoniche del suo accordion in un ambient d’avanguardia che si arricchisce, in tal modo, di coloriture popolari; senza alternativa il contributo di Hasselbring al trombone, viaggia con nonchalance supportando ogni fermento, ogni esercizio improvvisativo ogni uscita sopra le righe in un componimento musicale immensamente godibile.